Villiers o dell’Aristocrazia perenne – Stefano Eugenio Bona
“Che importa il nome? Io forse sono una parola; devo tendere soltanto a pronunciarmi, il resto non mi riguarda più” [1]
È con tutto l’entusiasmo di cui sono capace che pongo l’attenzione su questo eretico della parola poco tradotto in Italia. Scudiero decadente tra gli spettri delle città in trasformazione rapida: l’Ottocento lo venera nelle figure di Remy de Gourmont, Joris-Karl Huysmans e di Mallarmé. L’ammirazione per la sua figura e la sua vera vocazione hanno poi eco in Bloy, Claudel, Valéry, Yeats (che definirà Axël un testo sacro per comprendere il Simbolismo) e Stefan George. Per Mallarmé la figura di Villiers nell’Ottocento sarà incomparabile e la sua sfortunata vita paragonabile a quella di Poe: la condizione del vero letterato è di povertà, poiché testimonia col suo martirio. Con la morte di Dio ed il travaso nell’utilitarismo in serie, Mallarmé e Villiers situano una rinascita del Poeta nell’unico possibile ruolo: portatore della coccarda floreale in-utile nelle strenne del nulla.
A.W.Raitt parla dell’amicizia tra Villiers e Mallarmé come d’una delle più belle mai esistite tra letterati: del tipo di quella tra Goethe e Schiller, o tra Shelley e Keats.L’influenza è più nel canale Villiers-Mallarmé che non all’opposto: il secondo carpisce nel primo la maggiore immedesimazione con la missione dello scrittore, inconciliabile con altri mestieri, derisa da una società che ignora il genio. Villiers invece è maggiormente influenzato da Baudelaire, Poe, Wagner, de Musset, de Vigny e Barbey d’Aurevilly.
Paul Verlaine, ne “I Poeti maledetti” definisce Villiers come un autentico genio della letteratura moderna, l’incarnazione stessa del poeta assoluto. Lo inserisce nella seconda versione, a testimonianza di un criterio inclusivo per un valore soltanto: qui trovano spazio coloro che sono maledetti in quanto anatemizzati dal volgare ciclopico della mondanità. Qui trova spazio anche Corbière, tra gli altri, altro ramingo della parola, autore di una sola raccolta poetica (il capolavoro Gli Amori Gialli) e ricordato poi anche da Lovecraft nell’introduzione de Il richiamo di Cthulhu. Poeta che vive su un’amaca, sognando il mare della Bretagna e preferendo la compagnia del suo cane a quella della capitale, con tutti i suoi salotti letterari. Poeta che a Roma vestì una scrofa da vescovo durante il carnevale. Siamo tra alcune delle personalità più fissamente abbandonate ad un’uscita dalla storia, dalla cultura intesa come colonizzazione. Fondamentalmente troviamo in questa antologia anche gli altri poeti amati da Huysmans-Des Esseintes: Corbière, Mallarmé e l’autore stesso. Tutte le generazioni passate dallo spartiacque À Rebours, dimenticano come anche Villiers fosse appunto inserito nella biblioteca delle meraviglie, come una sostanza con la facoltà di aprire nuovi stadi di coscienza nella vita del protagonista.
Nella famosa selezione, Verlaine così descrive l’Uomo Villiers: “Gran chioma brizzolata, viso largo per il dilatarsi, chissà, di occhi superbamente divaganti, baffi regali, gesti ampi, lontanissmo dall’essere privo di bellezza ma strano, a volte, e di conversazione conturbante, che uno scoppio d’ilarità all’improvviso scrolla, per cedere il passo alle più belle intonazioni di questa terra, lenta e placida voce di basso, poi di botto commovente contralto. Quanta, e inquietante, vivezza! Talvolta tra i paradossi si fa strada uno sbigottimento che si direbbe condiviso dal parlatore; – ma ben presto eccovi, a piegare in due protagonista e astanti, esplodere un fou-rire, tanta è la vis comica, tanto lo spirito vitale. Tutte le opinioni necessarie, niente di ciò che non può interessare il pensiero, sfilano in quella corrente magica. Poi Villiers se ne va, lasciandosi dietro un’atmosfera un po’ fumosa, dove negli occhi persiste il ricordo di un fuoco d’artificio, di un incendio, di una serie d’esplosioni, – e del sole!” [2]
Così sull’Opera: “rendersi e rendere conto dell’opera è più difficile di quanto non avvenga per l’Operatore, poiché almeno costui lo si incontra spesso, mentre l’opera è quanto mai rara. Anzi, dovremmo dire introvabile, o quasi: a tal segno, per disprezzo della pubblica notorietà non meno che per ragioni di alta indolenza, il poeta gentiluomo ha trascurato la pubblicità banale, ai fini di una pura gloria. Cominciò questo ragazzo, con versi superbi. Ma andateli a trovare! Andatevi a scovare Morgane, Elën, drammi come se ne fabbricano pochi anche fra i massimi drammaturghi, andate a scovare Claire Lenoir, un romanzo unico in questo secolo! E ciò che viene dopo, e la fine di Axël, e quella dell’Eve future, capolavori, puri capolavori lasciati incompiuti per anni, ripresi senza sosta come le cattedrali, come le rivoluzioni, e di esse non meno elevati.” [3]. Un disprezzo per ogni forma di concessione ad una società piena di “uccisori di cigni”, per usare l’espressione che identifica il positivista dottor Tribulat Bonhomet, protagonista di una serie di novelle omonime edite nel 1887.
Jean-Marie-Mathias-Philippe-Auguste, conte de Villiers de L’Isle-Adam, questo il nome completo. Discendente diretto di Jean de Villiers, Gran Maestro dell’ordine di Rodi (in seguito ordine di Malta). Colui che rivendicava il trono di Grecia nel mentre di un’esistenza errabonda e miserevole condotta lungo Parigi, a bere la bevanda d’Avicenna (termine con cui definiva la Senna). Ricordiamo a questo proposito la definizione di Anatole France: “un vero e proprio clochard”. Non cercava il passato nostalgicamente come Barbey d’Aurevilly, o la rivalsa irrazionale come Baudelaire, ma la propria posizione, la condotta di una forma di art pour l’art ancora una volta uscente dal divincolarsi schiumante di rabbia. In lui c’è la calma contemplazione dell’amore assoluto (dal nome delle novelle del 1886). La compostezza risoluta, la determinazione a bastare a se stesso nelle vorticose frequentazioni con gli altri fiori della Terra, di Francia e non solo (ricordiamo i soggiorni da Wagner, che lo accolse come un fratello).
II
Quindici anni per la stesura completa e definitiva dei Contes cruels… Sono la sua cattedrale, con le pietre-parole levigate come per dover sprigionare il massimo potere evocativo, alla fine di un tornimento sfiancante, ove l’effetto incisivo della narrazione è sempre raggiunto. Vi è sempre il sogno di trascendenza e nell’alto potere musicale della terminologia di Villiers, il mondo non si presta ad interventi ma è l’universo stesso ad essere crudele. Racconti a modello di concisione, compattezza, con descrizioni sintetiche ma puntanti al termine assurto a rotare simbolo d’un’atmosfera, d’un angolo nel cuore, per un ristoro da quel mondo crudele che disconosce la purezza e la nobiltà. Le atmosfere sono sempre come bordate d’oro, alchimie ora esondanti e in piena, ora livide connessioni per giungere ad un nocciolo espositivo. Trame che si dipanano da un pretesto qualsiasi, le impennate narrative giungono al termine delle storie, ove il lettore continua a sentire il flusso del pastiche fantastico.
Si sente il divertimento mentre mette alla berlina le palesi incongruenze dell’uomo moderno e orizzontale. Unico aggettivo per descrivere le continue negazioni dell’impossibile razionale, rigettato da quei protagonisti che lui fa risultare come burattini. Nella satira alcuni l’hanno paragonato al vignettista Daumier, per altri versi la sua vena misantropica e graffiante tocca corde alla Swift, soprattutto nell’unire linguaggio grottesco a significati reconditi, nel fustigare con veleno e furore, non privo di risentimento.
I suoi capolavori esulano dalla produzione poetica e rientrano nel trittico Racconti crudeli, L’Eva futura e Axël. Le prime poesie vengono anzi stigmatizzate dallo stesso conte de Villiers, invitando dal 1860 Baudelaire, a scusare “le numerose stupidaggini, le rime leggere e la puerilità” di un’opera “deplorevole”, per riportare la loro corrispondenza [4]. Il sentire poetico, in purezza, avrà invece la sua canalizzazione in una prosa d’arte minuziosamente cesellata. Nella sontuosa architettura che crea, fila i racconti in incessante levigatura. La compressione per la diffusione editoriale avviene poi come un fatto davvero risolutivo. Vi è in lui l’adagio nella forma, l’allegro nella ricerca, il prestissimo nelle sensazioni. Il desiderio di eccentricià lo porta sovente ad utilizzare una propria sintassi. Per mezzo della cripticità del linguaggio si rendono musicali vocaboli, altrimenti opachi nella lingua corrente. Vi è un innesto di armonia dal sapore esotico.
III
Su un aspetto a lungo dibattuto, quello del collegamento di Villiers con la tradizione esoterica, non ci sono fonti certe. Rimane il dubbio instillato da Victor-Émile Michelet, discepolo e contemporaneo del “martire dell’assoluto”, per usare la definizione di J.H.Bornecque. “Il faut saluer en lui l’un des plus parfaits Initiés de France…”[5] Con questo auspicio Michelet paventa un’appartenenza ad una setta occulta, forse d’ispirazione Rosa Croce. Il Villiers esoterico non è sondato in modo perentorio perché mancano le fonti e non vi è la possibilità di mostrare se il limite tra estetismo e simbolismo fosse in realtà fittizio, in vero ribaltabile da una conoscenza integrale ed iniziatica. Pound, in una corrispondenza epistolare illustra un aspetto difficilmente confutabile: “Che cosa intendi con simbolismo? Intendi il simbolismo vero, la cabala, la genesi dei simboli, la nascita del linguaggio figurato, ecc., oppure il simbolismo della “simbologia” estetica di Villiers de l’Isle-Adam…?” [6]. Nei Racconti Crudeli sarà l‘Epilogo, il racconto L’Annunziatore, a presentare una vasta terminologia occultistica ed esoterica, presa in prestito soprattutto da Collin de Plancy.
Per la riflessione inziatica ne citerò due passaggi:
– “…Ma il re Salomone non è, essenzialmente, né nella Sala, né nella Giudea, né nei mondi sensibili, e neppure nel Mondo.
Da tempo la sua anima s’è affrancata; essa non è più quella degli uomini; abita luoghi inaccessibili, di là dalle sfere rivelate. Vivere?…Morire?…Queste parole non toccano più il suo spirito passato nell’Eterno.
Il Mago è solo per accidente nel luogo dove sembra.
Non conosce più i desideri, i terrori, i piaceri, le collere, le pene. Vede; penetra. Disperso nelle forme infinite, lui solo è libero.
Giunto a questo grado supremo di impersonalità che lo identifica a ciò che contempla, vibra e s’irradia nella totalità delle cose. Salomone non è più nell’Universo che come la luce è in un edificio”. [7]
– “Impenetrabile a occhio d’argilla, il volto del Messaggero non può essere percepito che dallo spirito. Le creature subiscono solamente le influenze che sono inerenti all’entità arcangelica.
Nessuno spazio potrebbe contenere uno solo degli spiriti che proferì il NON RIVELATO di qua dai tempi e dai giorni.
Efflussi eternati dalla Necessità divina, gli Angeli non sono, in sostanza, che nella libera sublimità dei Cieli assoluti, dove la realtà si unifica con l’ideale. Sono pensieri di Dio, frammentati in esseri distinti dalla effettualità dell’Onnipotenza. Riflessi, non si esteriorizzano che nell’estasi che suscitano e che fa parte di loro stessi.
Tuttavia, come in uno specchio di bronzo, posto a terra, si riproducono, in loro illusione, le profonde solitudini della notte e i suoi mondi di stelle, così gli Angeli, attraverso i veli translucidi della visione, possono impressionare le pupille dei predestinati, dei santi, dei maghi! È unicamente la terra, caligine dimenticata, che non distinguono più quelle pupille elette; esse ripercuotono solo l’infinita Luce. Perciò, nel suo sguardo sacro, il re Salomone ha il potere di riflettere il volto stesso di Azraël.” [7]
La fine del racconto sarà paradossale: l’ “Arcangelo malinconico” comunica a Salomone che l’Ora di Dio non è ancora venuta e gli ingiunge di riprendersi l’anima.
IV
Possiamo riflettere su un dato di fatto: se Villiers è pervaso dall’Ennui baudeleriano ed in più da una forma aristocratica di cristianesimo rosacrociano, la sua nostalgia per valori cavallereschi fa latitare l’azione già nella sua situazionalità, nel pieno Ottocento. Per reazione ai tempi prosaici e pratici di allora, attuava preamboli prolissi nei racconti, nel vivere quotidiano si dipanava in conversazioni in cui non si aveva fretta: ci si sedeva lunghe ore al café, si attendeva da sotto il mantello per trarre spunto dallo spettacolo degli avventori e dai piccoli bisbiglii ove le comunicazioni erano più lente, le strade deserte. Si attendeva un lampo d’intuito poetico e nel frattempo si cercava di smaltare il nulla delle ore. Un’epoca che sta stretta a Villiers, ma che è molto più vicina al Cinque-Seicento che non al giorno d’oggi, per molti versi.
Non si sorveglia più con lo spirito brillante, ora nei café i fatti vogliono l’enunciazione cruda e l’unica prolissità che si giustifica è quella dell’odierno realismo o della retorica più bieca. Non si porge più…Non si decanta più, perché la grazia nel nominare le cose è ormai affossata dal gusto rozzo e sboccato nel volere distruggere ciò che ancora lega ad una possibilità d’incanto, alle isole-rifugio per chi rifugge e critica la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. Forse l’ultima frontiera attuale è quella del più perfetto silenzio, a meno che non ci si senta come questo nobile d’antico casato: l’ultimo Cavaliere che lotta per non essere calpestato dai miti del Progresso.
Lascio la parola ad una chiusura infissa in uno di quei dialoghi freschi come acqua alla Fonte (dal racconto Misteriose connessioni):
– “Ciononostante – gli dissi – abbiamo l’onore di vivere (noi, i figli viziati di questa Natura) in un secolo di lumi?”
– “Preferiamogli la Luce dei secoli” rispose sorridendo.” [8]
Note:
– 1*Ébauche d’un monument à la mémoire de Villiers de L’Isle-Adam, Frédéric Brou, 1906 – 1 Villiers de L’Isle-Adam, Elën, I, 5;
– 2 Paul Verlaine, I Poeti Maledetti, p.125 Guanda,2008;
– 3 ibidem, p. 126;
– 4 V.D.L.I.A. Correspondance générale, T.I.;
– 5 Victor-Emile Michelet, Villiers de L’Isle-Adam, Paris, Libraire Hermétique, 1919, p.50;
– 6 Demetres Tryphonopoulos, Pound e l’occulto. Le radici esoteriche dei Cantos, corrispondenza tra Pound e Dorothy Shakespear, p.96, Ed. Mediterranee, 1998;
– 7 Villiers de L’Isle-Adam, Racconti Crudeli, pp. 230;
– 8 ibidem, p.232;
– 9 ibidem, p.175.
Stefano Eugenio Bona