Unità metafisica e pluralità religiosa: scenari possibili a partire dalla Philosophia Perennis – Luca Siniscalco
- Perennialismo e Unità trascendente delle religioni: un’introduzione
La questione del dialogo interreligioso verrà da noi indagata a partire dal riferimento all’Unità trascendente delle religioni teorizzata da Frithjof Schuon (1907-1998) nell’omonimo saggio del 1948, che costituisce una delle più chiare e precise puntualizzazioni del fondamento teoretico – nonché ermeneutico e operativo – dell’orientamento metafisico e spirituale della cosiddetta Philosophia Perennis (definita pure “Perennialismo”, “Scuola tradizionalista” o “Tradizionalismo integrale”)[1]. È la tesi, espressa da Schuon nell’omonima opera, secondo cui «come ogni colore, con la sua negazione dell’oscurità e la sua affermazione della luce, permette di ritrovare il raggio che la rende visibile e di risalire tale raggio fino alla sua fonte luminosa, così ogni forma, ogni simbolo, ogni religione, ogni dogma, con la sua negazione dell’errore e la sua affermazione della Verità, consente di risalire il raggio della Rivelazione, il quale non è altro che quello dell’Intelletto, fino alla sua Fonte divina»[2]. Il convegno Concordia Discors risulta un’occasione fondamentale per introdurre anche nel dibattito accademico i lineamenti fondamentali di questa prospettiva, il cui significativo successo in taluni settori della cultura, dell’editoria e della pubblicistica su scala mondiale non si è sempre accompagnato a un convergente approfondimento all’interno della ricerca universitaria[3].
(F. Schuon)
Per utilizzare fecondamente il binomio concettuale che fornisce il titolo al convegno, possiamo affermare che nella prospettiva del Perennialismo le discordanze esteriori, fenomeniche, tramite cui le religioni si manifestano su un piano storico, liturgico, rituale, cultuale e folkloristico sono tutte riconducibili a una concordia metafisica[4] originaria, conoscibile e trasmissibile grazie all’insegnamento esoterico conservato dalle stesse tradizioni, la quale si riferirebbe al medesimo nucleo metafisico e ad alcune dottrine sacre fondamentali. Non si tratta dunque di una demitizzazione del sacro, affinché la religione sia declinata in una prospettiva esistenziale, “ripulita” dei suoi aspetti mitici, irrazionali e narrativi, come invece proposto dal teologo Rudolf Bultmann[5], bensì di una ri-mitizzazione della trascendenza, nella convinzione che il deposito sapienziale, iconografico e dottrinario delle diverse tradizioni sia un bagaglio fondamentale, nella sua eterogeneità, per l’intrapresa di un’esperienza autenticamente spirituale e metafisicamente convergente. Le discordanze contingenti delle diverse religioni rimanderebbero infatti tutte, sebbene in forme distinte, a quella “Unità trascendente” di cui parla Schuon. Questa tesi che, evidentemente, non è proposta come una elaborazione originale dell’autore svizzero, il quale propriamente la definisce quale una rivelazione metafisica originaria, secondo una movenza di spersonalizzazione (o “impersonalità attiva”, per dirla con Evola) – ma la cui lucida e chiara definizione ci ha spinto a partire proprio dalla sua opera per introdurre il tema – e nemmeno viene rivendicata come “originale” dagli autori che nel Novecento sono variamente riconducibili alla scuola tradizionalista – fra cui menzioniamo Ananda K. Coomaraswamy (1877-1947), René Guénon (1886-1951), Julius Evola (1898-1974), Guido De Giorgio (1890-1957), Titus Burckhardt (1908-1984), Elémire Zolla (1926-2002) –risale a una consapevolezza esoterico-religiosa ben più arcaica, riconoscibile, ad esempio, nella tematizzazione rinascimentale del concetto di prisca sapientia (Marsilio Ficino, Pico della Mirandola)[6] o, ancor prima, in alcuni testi dell’esoterismo ermetico e neoplatonico. I “platonici dell’ellenismo”, in particolare, attribuirono al nous, la facoltà intellettuale, e alla filosofia che da essa procede, la funzione di cogliere l’Unità trascendente delle religioni. Gli esoterismi dei monoteismi, fondamentalmente, recuperarono proprio tale intuizione – che pure, molti fra i principali neoplatonici, negavano fosse individuabile in una prospettiva cristiana, entro cui, a loro avviso, il principio fondante non era identificabile in un atto (sovra)razionale, bensì con un atto di pura fede, e il cui esclusivismo rigidamente monoteista imponeva logicamente la negazione di qualsivoglia verità nelle tradizioni religiose altrui[7].
Non avendo qui la possibilità di tentare una corposa genealogia storica di questo posizionamento speculativo, abbiamo scelto di utilizzare i riferimenti della Philosophia Perennis come punto di partenza per elaborare un modello ermeneutico funzionale a proporre alcune ipotesi relative alla questione del dialogo interreligioso. Per le stesse ragioni, in questa sede dobbiamo ignorare le profonde differenze che intercorrono fra i diversi autori citati – che proprio in merito al riconoscimento dell’appartenenza di diverse religioni e correnti esoteriche alla Tradizione autentica divergono, giungendo a conclusioni assai distanti, talvolta anche pregiudizialmente escludenti rispetto a taluni orientamenti, estromessi dal novero delle “vie tradizionali” alla Sapienza e relegati a forme spurie, variamente definite in termini di sincretismo, “seconda religiosità”, insegnamenti degenerati, dottrine essoteriche prive di componente esoterica, “interruzione della trasmissione iniziatica”, e così via. Quello che qui ci interessa considerare – e su questo specifico punto è possibile individuare un nucleo metafisico comune a tutti gli autori che andremo a considerare – è una definizione minima della nozione di Unità trascendente delle religioni, al fine di mostrare successivamente come proprio questo principio, insieme speculativo e operativo, possa condurre a un dialogo religioso di maggiore efficacia rispetto a quello sorto nei contestiteologici che operando mediante forme di ecumenismo sincretico, così come, al contrario, negli ambiti di dialogo ispirati al laicismo, al relativismo assiologico e al secolarismo. Una conseguenza, quella che trarremo dal pensiero perennialista, che a nostro avviso si mostra persino nel sensus communis, ancor prima che su un piano teologico/metafisico: è infatti pacifico presupporre che ogni dialogo fecondo richiede da un lato la consapevolezza della propria identità, dall’altro lato la convinzione della possibile esistenza di un terreno, di uno sfondo comune su cui questa identità possa incontrarsi, scontrarsi, arricchirsi, senza mai tuttavia svuotarsi e depotenziarsi, con l’alterità.
- Tradizione e tradizioni: lineamenti di una metafisica universale
Tornando al magistero di Schuon, risulta fondamentale riferire la sua critica a qualsivoglia forma di sincretismo: «L’unità delle religioni non solo non è attuabile sul piano esteriore, quello delle forme, ma non deve nemmeno essere attuata, supponendo che sia possibile, su questo piano, altrimenti le forme rivelate sarebbero prive di ragion sufficiente»[8]. Esse invece, facendo parte di un disegno cosmico di tipo provvidenziale, hanno un senso auto-normativo, in sé giustificato: la loro verità, tuttavia, è funzionale a un preciso cammino spirituale, storicamente e culturalmente definito, adatto a un tipo antropologico specifico, per cui non risultano universalisticamente estendibili. Invece, spiega Schuon, «se parliamo d’“unità trascendente”, vogliamo dire con ciò che l’unità delle forme religiose deve essere attuata in modo puramente interiore e spirituale, e senza tradimento di nessuna forma particolare»[9]. Nella pratica di un percorso spirituale tradizionale, pertanto, è bene seguire una via specifica, singolare, capace tuttavia, proprio nella sua individualità, di congiungere il praticante a un sapere metafisico universale: è una movenza, questa, paragonabile, su di un piano strutturale, a quella del simbolo, entro cui, come c’insegna la Romantik, si attua sempre e di nuovouna piena coincidenza di particolare e universale. Così, ogni via tradizionale è, per Schuon e i tradizionalisti in genere, un itinerarium simbolico: nelle forme rituali, liturgiche, iniziatiche, nei percorsi di ascesi e trasfigurazione interiore, si imbraccia una strada precisa, tradizionalmente regolata, ma, al contempo, aperta in senso verticale e assiale al cosmo intero. È questa verità, ben distinta da quella dogmatica[10],di cui il pensiero di Schuon tenta di farsi custode. La verità è una, ma a noi si dà nel frammento, in forme molteplici, talvolta esteriormente contrastanti, tutte, però, destinate a sciogliersi, su di un piano metafisico, alla luce della pluralità dei gradi dell’esistenza (i riflessi degli stati molteplici dell’essere di cui parla René Guénon [11]) e della coincidentia oppositorum (su cui fonti essenziali sono Nicola Cusano[12]e, più recentemente, Mircea Eliade[13]).
Così, specifica ancora Schuon, con una movenza teorica tutta metafisica: «La Verità totale è scritta, con una scrittura eterna, nella sostanza stessa del nostro spirito. Le diverse Rivelazioni non fanno altro che “cristallizzare” e “attualizzare”, a diversi livelli secondo i casi, un nucleo di certezze che non è conservato soltanto nell’Onniscienza divina, ma dorme anche per rifrazione nel nocciolo “naturalmente soprannaturale” sia dell’individuo che della collettività etnica o storica o della specie umana»[14]. Claudio Mutti, acuto interprete contemporaneo della scuola tradizionalista, chiarifica in una sintesi magistrale il rapporto dialettico fra la verità metafisica dell’ortodossia e il rapporto con la pluralità delle religioni tradizionali:
Nessun esponente dell’ortodossia tradizionale ha mai sostenuto che sia possibile beneficiare delle influenze spirituali insite in una forma della tradizione senza accettarne la rispettiva dottrina e senza praticarne i riti. Nell’articolo intitolato Necessità dell’exoterismo tradizionale (diventato un capitolo di Iniziazione e realizzazione spirituale) René Guénon osserva che, prima di costruire un edificio, bisogna gettarne le fondamenta, le quali dovranno sorreggere tutta quanta la struttura, comprese le parti più alte; le fondamenta resteranno sempre, anche quando l’edificio sarà terminato. Con questa immagine, Guénon vuol significare che l’adesione ad un exoterismo tradizionale costituisce una condizione ineludibile per avere accesso all’esoterismo corrispondente e che il ricollegamento iniziatico, una volta ottenuto, non dispensa affatto l’iniziato dalla pratica exoterica. Perciò il cosiddetto “pensiero tradizionale” (…) non utilizza gli elementi provenienti dalle diverse forme tradizionali al fine di costruire una propria sincretica dottrina, bensì per mettere in luce, attraverso le analogie sostanziali e significative riscontrabili fra gli elementi suddetti, la comune provenienza delle varie forme tradizionali da un’unica fonte, e quindi la loro essenziale unità[15].
Una unicità, quella di ogni tradizione religiosa, dunque, che viene preservata, ma va al contempo distinta dalla nozione di esclusività: ogni religione è chiamata a “essere se stessa”, a interpretareautonomamene la propria unicità. E purtuttavia nessuna unicità singolare può sciogliere l’inafferrabile, enigmatica e misteriosa sovra-essenzialità divina, da cui ogni metafisica tradizionale discende come percorso insieme speculativo e operativo di approssimazione al divino. Secondo l’immagine plotiniana dell’emanazione dall’Uno, si può asserire che le religioni tradizionali costituiscano dei percorsi privilegiati per ripercorrere in senso anagogico il processo emanazionista e condurre il discepolo alla theosis. La sapienza di cui la Religio Perennis è depositaria può inoltre essere definita, sempre col linguaggio di Schuon, secondo una duplice declinazione: «discernimento fra il Reale e l’illusorio e concentrazione permanente e unitiva sul Reale»[16]. Due forme di esperienze interiori, di carattere spirituale, che si ritrovano in tutte le forme ortodosse delle diverse religioni, nella misura in cui una religione, per Schuon, può essere considerata ortodossa «a condizione di offrire sia una nozione sufficiente, se non sempre esaustiva, dell’Assoluto e del relativo e pertanto dei loro rapporti reciproci, sia un’attività spirituale di natura contemplativa ed efficace quanto ai nostri fini ultimi»[17]. Ancor più esplicitamente:
La verità è una, e sarebbe vano volerla cercare in un solo posto dato, e poiché l’Intelletto contiene nella sua sostanza tutto ciò che è vero, la verità non può non manifestarsi là dove l’Intelletto si dispiega nell’atmosfera di una Rivelazione. Si può rappresentare lo spazio sia con un cerchio che con una croce, una spirale, una stella, un quadrato; e, come è impossibile che vi sia una sola figura atta a indicare la natura dello spazio e dell’estensione, allo stesso modo è impossibile che vi sia una sola dottrina che illustri l’Assoluto e i rapporti fra la contingenza e l’Assoluto. In altri termini: credere che si possa dare una sola dottrina vera, equivale a negare la pluralità delle figure geometriche che misurano virtualmente lo spazio, e anche – per scegliere un esempio completamente diverso – la pluralità delle coscienze individuali e dei punti di vista visivi. In ogni Rivelazione Dio dice “Io” ponendosi estrinsecamente da un punto dl vista diverso da quello delle Rivelazioni precedenti, e da questo deriva l’apparente contraddizione sul piano della cristallizzazione formale[18].
Schuon ripete la medesima tesi, con un linguaggio dotato di minori coloriture di carattere simbolico-analogico e più prettamente logico e dialettico, in un altro passaggio della sua opera, laddove afferma:
La pretesa exoterica al possesso esclusivo d’una verità unica, o della Verità senza epiteti, è quindi un vero e proprio errore; in realtà ogni verità espressa riveste di necessità una forma, quella della sua espressione, ed è metafisicamente impossibile che una forma abbia un valore unico escludendo altre forme; giacché una forma, appunto per definizione, non può essere unica ed esclusiva, ossia una forma non può essere la sola possibilità d’espressione di ciò che esprime; dire forma è dire specificità o distinzione, e lo specifico è concepibile soltanto come modalità d’una specie, dunque d’un ordine che include un insieme di modalità analoghe; (…) ora, nessuno potrà contestare che una forma è sempre una limitazione, e che una religione è per necessità sempre una forma, non, ovviamente, per la sua Verità interna che è d’ordine universale, quindi sopraformale, ma per il modo d’espressione, che, come tale, non può non essere formale, pertanto specifico e limitato[19].
Così Schuon può concludere, questa volta con un linguaggio fortemente intriso di misticismo: «Se Cristo avesse potuto essere la manifestazione unica del Verbo, supponendo quindi che questa unicità di manifestazione fosse possibile, la sua nascita avrebbe sortito l’effetto di ridurre l’universo in cenere»[20]. Una prospettiva affine è chiaramente illustrata in Guido De Giorgio, questo peculiare “Nietzsche metafisico” che Evola definì, nella sua autobiografia spirituale Il cammino del cinabro, «una specie di iniziato allo stato selvaggio»[21]. Il ciclo divino, che nell’opera di De Giorgio si sviluppa in modo dinamico e gerarchico come processione dal Silenzio dell’Origine ai Ritmi e, infine, alle Forme, si rivela, su di un piano storico, proprio all’interno delle metafisiche delle religioni tradizionali. Queste sono tutte giustificate su di un piano metafisico, in quanto «una determinata forma tradizionale sorge quando l’uomo non può ritornare a Dio con altra norma se non quella fissata da questa tradizione il cui sviluppo è in aderenza perfetta col piano provvidenziale»[22]. Dunque, «ogni forma tradizionale si pone (…) quest’esigenza, stabilire un complesso di norme che sono altrettanti ponti tra le realtà del divino e l’apparenza dell’umano per ridurre l’umano al divino con un ravvicinamento progressivo che vuol giungere a zero, cioè all’unità»[23]. Vie diverse, insomma, dirette a un medesimo obiettivo: «Si pensi al vertice d’una grande montagna raggiungibile per cammini differenti, ognuno efficace solo se conduce alla sommità»[24]. De Giorgio concorda quindi con la rivelazione dell’Unità trascendente delle religioni: «Non si afferma che certe forme tradizionali non si presentino come antitetiche nella loro formulazione dogmatica (…): ma vi è un punto più alto da cui considerarle, quello dell’asse tradizionale, unico, che è il livello assoluto per la giustificazione e l’esistenza delle varie espressioni della stessa verità divina»[25].
(A. Steuco)
Su posizioni affini, spesso sovrapponibili su di un livello metafisico, si attestano René Guénon, Julius Evola, Ananda Coomaraswamy, Elémire Zolla, Titus Burckhardt. Ci limitiamo, in questa sede, a qualche citazione sparsa, funzionale a lumeggiare aspetti paralleli e interconnessi della posizione perennialista in merito al carattere universale – ma non universalista – della metafisica tradizionale. Coomaraswamy, ad esempio, asserisce, in modo lapidario, che «la grande linea di una metafisica universale attraversa tutti i popoli»[26]. Precisa inoltre che «l’essenza di una tradizione sta proprio nel tenere in vita una qualche cosa, e finché ciò avviene è sbagliato parlare di una trasmissione meccanica di generazione in generazione, tanto quanto lo è il supporre che un popolo possa prendere meccanicamente a prestito elementi della cultura di un altro popolo»[27]. La Tradizione è così dipinta come una fiamma viva, che brucia inesausta, tracciando un’identità religiosa metafisicamente orientata, certamente passibile di una comparazione con altre tradizioni in sede simbolica ed ermeneutica, ma non disposta a un sincretismo pratico, che mini, indebolendole, le forme operative del rituale, della liturgia e della trasmissione iniziatica. L’unico spazio che si apre è quello di una visione olistica, fondata sull’unità nella diversità. Lo studioso contestualizza questa asserzione teoretica in un mondo che già iniziava a scorgere i germi della contemporanea globalizzazione, riconoscendo l’urgenza di confrontarsi con il problema della dimensione veritativa delle altre confessioni religiose. Così, scrive Coomaraswamy, l’intensificarsi dei contatti tra i cristiani e gli altri popoli che appartengono alla grande maggioranza dei non cristiani, ha acuito e reso più che mai urgente la necessità di capire la fede secondo cui gli altri vivono. Questa comprensione, oltre che desiderabile in sé, è indispensabile per risolvere di comune accordo i problemi politici ed economici dai quali i popoli del mondo sono oggi più divisi che uniti. Non è possibile instaurare relazioni umane con gli altri popoli finché il cristiano è convinto della sua superiorità o della sua maggiore saggezza e finché cerca soltanto di convertirli al suo modo di pensare. Il cristiano moderno, che considera il mondo lasua parrocchia, si trova di fronte alla dura necessità di farsi egli stesso cittadino del mondo; egli è invitato a partecipare a un symposium e a un convivium, non come presidente – già c’è un Altro che vi presiede, invisibile – ma come ospite fra molti altri[28].
Ancor più esplicitamente, Coomaraswamy chiarisce, proponendo una visione aperta e dialettica (ma non ecumenica) dell’incontro-scontro fra religioni distinte e lontane destinato a verificarsi nell’età che, secondo Heidegger, può essere definita comeplanetarizzazione:
La tolleranza, portata agli estremi, implica l’indifferenza, e a questo punto diventa inaccettabile. La nostra proposta non è che si tolleri l’eresia ma piuttosto che si arrivi a un accordo sulla verità. La nostra tesi è questa: una retta educazione alla religione comparata deve prefiggersi di dare all’allievo la capacità di discutere con i credenti delle altre fedi la validità di dottrine specifiche, lasciando sospesa la questione della verità o falsità, superiorità o inferiorità globali dei singoli corpi dottrinari (…). Noi diamo per scontato, ovviamente, che le differenze sono inevitabilmente accidentali, dal momento che “la conoscenza delle cose è relativa al modo soggettivo del conoscere”. Un allievo ha il diritto che gli venga insegnato almeno a riconoscere i simboli che fra loro si equivalgono: per esempio la rosa e il fiore di loto (Rosa Mundi e Padmāvatī); che il soma è l’equivalente del “pane e acqua della vita”; che il creatore di tutte le cose è – non accidentalmente ma necessariamente – un “falegname”, dal momento che l’elemento di cui e fatto il mondo è “ilico”, cioè “materiale”. Questa prospettiva che noi proponiamo ha il vantaggio immediato di non essere in contrasto con l’ortodossia cristiana, anche la più rigida. Nessuno ha mai negato che le credenze pagane contengano verità; anche san Tommaso era convinto di poter trovare nelle opere dei filosofi pagani “prove estrinseche e probabili” delle verità del cristianesimo. Egli, ovviamente, conosceva soltanto i pensatori classici, gli ebrei e qualche arabo, ma non c’è ragione perché oggi un cristiano dotato di una struttura intellettuale adeguata non debba imparare a scoprire e a rallegrarsi di scoprire, per esempio nelle dottrine dei Veda, del sufismo, del taoismo, o degli indiani d’America, prove estrinseche e probabili della verità che egli soggettivamente conosce[29].
Questo riconoscimento, precisa Coomaraswamy, risulta fecondo anche per il credente occidentale più ortodosso, anzi, soprattutto per lui, nella misura in cui il contatto con civiltà pervase in misura ridotta dal materialismo, in cui lo stadio nichilistico della modernità (o, oggi, postmodernità) è in una fase di avanzamento meno pronunciato, lo avvicina a una comprensione intuitiva e mitico-simbolica del divino. Lo studioso cristiano trarrà notevoli vantaggi, nella esegesi e comprensione della dottrina cristiana, dai suoi contatti con credenti di altre fedi. La sua fede, infatti, suo malgrado non può sottrarsi del tutto ai condizionamenti del clima intellettuale nominalistico nel quale egli è nato e cresciuto; mentre l’orientale – per il quale i miracoli attribuiti al Cristo non rappresentano un problema – è ancora un realista, nato e cresciuto in un clima di realismo, per cui è in grado di avvicinarsi a Platone o a san Giovanni, a Dante o a Meister Eckhart più semplicemente e più direttamente che lo studioso occidentale, il quale è inevitabilmente condizionato, almeno in parte, dai dubbi e dalle difficoltà cui vanno soggetti coloro che sono stati educati in un ambiente in massima parte profano. Scopo di tale ricerca risulta, in ultima istanza, una “alleanza attiva” fra prospettive spirituali, nell’ottica di una rivitalizzazione della metafisica tradizionale nella cornice storica contemporanea.
(G. De Giorgio)
La prospettiva che abbiamo suggerito – spiega infatti Coomaraswamy – ci fornisce immediatamente la base per una comprensione e una cooperazione reciproca. L’obiettivo finale cui tendiamo è una definitiva “riunione delle Chiese”, in un senso molto più ampio di quello che ha in genere questa espressione: occorre instaurare alleanze attive – per esempio tra cristianesimo e induismo o islamismo –, sulla base dell’accettazione comune di alcuni principi fondamentali in vista di una loro concorde ed effettiva applicazione ai campi contingenti dell’arte (artigianato) e della prudenza, ponendo fine alla guerra civile in atto fra i membri dell’unica famiglia umana, tra i figli dell’unico e identico Dio “che tutti unanimi concordano nel riconoscere, greci e barbari”, come diceva Filone[30].
Tornando poi alla definizione del concetto di Unità trascendente delle religioni, e quindi alla distinzione non irrilevante fra “Tradizione” e “tradizioni”, è René Guénon a offrire delle riflessioni fondamentali, che confermano, estendendo l’argomentazione, l’assunto di Schuon:
Si può dire che ogni forma tradizionale particolare è un adattamento della Tradizione primordiale, da cui tutte sono derivate più o meno direttamente, in certe circostanze speciali di tempo e di luogo; così che quel che cambia dall’una all’altra non è affatto l’essenza stessa della dottrina, che è al di sopra di queste contingenze, ma solo gli aspetti esteriori di cui essa si riveste ed attraverso i quali si esprime. Risulta da questo, da una parte, che tutte queste forme sono necessariamente equivalenti come fondamento, e, dall’altra parte, che vi è generalmente vantaggio, per gli esseri umani, a ricollegarsi, per quanto possibile, a quella che è propria all’ambiente nel quale essi vivono, perché è quella che normalmente deve meglio convenire alla loro natura individuale[31].
Similmente Julius Evola, che da Guénon fu profondamente influenzato[32], afferma:
Chi partendo da una particolare civiltà tradizionale, sappia integrarla col liberarla dai suoi aspetti storici e contingenti sì da riportane i principî generali al piano metafisico ove essi sono, per così dire, allo stato puro – quegli non può non riconoscere questi stessi principî anche dietro alle espressioni diverse di altre civiltà parimenti tradizionali. Ed è per tale via che si determina interiormente un senso di certezza e di oggettività trascendente e universale, che nulla saprebbe più distruggere, né per altra via saprebbe esser raggiunto[33].
Anche un autore italiano contemporaneo come Maurizio Barracano, di formazione perennialista, chiosa concordemente la questione: «L’autenticità del dettato perenne non diventa affatto contaminazione tra varie Forme tradizionali ma nasce proprio dalla loro schiettezza e dalla filologia d’ognuna»[34].
Proseguendo in questa inevitabilmente incompleta presentazione delle fonti sul tema dell’Unità trascendente delle religioni, notiamo che in una prospettiva ancor meno scolastica e maggiormente dinamica, per certi versi direttamente connessa all’ermeneutica rinascimentale come metodo d’indagine dell’unità metafisica originaria e della sapientia autentica, Elémire Zolla riconosce nel binomio Tradizione-Filosofia Perenne un caposaldo fondamentale, punto di partenza degli approfondimenti storico-religiosi da lui affrontati in senso comparatistico. È proprio Zolla a precisare, in una intervista, la genesi e il contenuto della filosofia perenne:
Filosofia perenne è una denominazione che propone Leibniz, ma fu creata nel 500 da Agostino Steuco, un eugubino che riprese il pensiero di Pico della Mirandola, di cui aveva letto la biblioteca raccolta dal vescovo di Venezia. Che cosa indica? La filosofia che tutti avevano enunciato in vario modo, si potrebbe perfino dire: in tutti i modi immaginabili, a patto che fossero tutti irreprensibili dal punto di vista logico. Una filosofia che smentisce la parola: la parola non è l’unico tramite, chi crede alla filosofia perenne sopporta di enunciarla a parole con fastidio, perché essa rinvia a un’intellezione che la parola può soltanto tradire. D’altra parte il modo in cui si espone è sempre innovabile e trasformabile: la parola è sempre inganno. Mostro alcune filosofie che si possono denominare perenni: il taoismo cinese, l’advaita unitario indù, il buddhismo speculativo, oltre al neoplatonismo, alla filosofia dei platonici fiorentini alla fine del 400. (…) Filosofia perenne, vuole dire filosofia che rifiuta la dualità, la contrapposizione, per attenersi all’unità[35].
In una prospettiva teoretica e metodologica diversa, sebbene su molti aspetti tangenziale[36], anche lo storico delle religioni Mircea Eliade riflette sulla possibilità di un dialogo religioso fondato sul riconoscimento di un patrimonio metafisico, simbolico e archetipico comune “forte”, persino fra Oriente e Occidente. La conoscenza dell’Altro, spiega Eliade, può aiutare l’uomo occidentale a conoscere meglio se stesso e, persino, a sviluppare con rinnovato slancio la propria millenaria ricerca teoretica e teologica. E questo senza lasciar sbiadire la propria identità, né riducendo il carattere veritativo della tradizione di appartenenza. Lo storico delle religioni romeno lo spiega puntualmente, affermando:
La volontà di comprendere adeguatamente gli “altri” porterà ad un arricchimento della coscienza occidentale. L’incontro potrebbe perfino condurre ad un rinnovamento della problematica filosofica, allo stesso modo che la scoperta delle arti esotiche e primitive ha aperto, mezzo secolo fa, nuove prospettive sull’arte europea. Ci sembra, per esempio, che uno studio approfondito della natura e della funzione dei simboli potrebbe stimolare il pensiero filosofico occidentale e ampliare il suo orizzonte. È sorprendente che gli storici delle religioni siano stati portati a mettere in rilievo le audaci concezioni dei“primitivi” e degli Orientali sulla struttura dell’esistenza umana, sulla caduta nella temporalità, sulla necessità di conoscere la “morte” prima di poter accedere al mondo dello spirito, riconoscendovi idee assai vicine a quelle che sono oggi al centro stesso della ricerca filosofica occidentale[37].
Il confronto con l’Altro, se riconosciuto nella sua radicale diversità, può permettere un ritorno a prospettive metafisiche più profonde, abissali, con un rinnovamento (una rivoluzione, in senso conservatore tuttavia, quale originario revolvere) dell’autocoscienza europea. Il presupposto fondamentale di un dialogo interreligioso fondato su radici autenticamente metafisiche pare così rendersi possibile solo sulla base di una visione spirituale imperniata sull’accettazione di una Tradizione perenne e plurale – via che permette di superare tanto il dogmatismo cieco, autistico e “suprematista”, quanto un ecumenismo superficiale (ostile, in senso talvolta esplicitamente nichilista, alla conservazione della nozione teoretica e teologica di verità – «Il dialogo interreligioso funziona perché è fatto da persone che fingono di credere alla loro fede» ha causticamente puntualizzato in merito lo studioso di mistica renana Marco Vannini).
- Le sfide del postmoderno: una geopolitica metafisica
Per meglio comprendere i risvolti concreti del tema trattato e la cogente attualità, politica, sociale e geopolitica, di tale congerie di problemi, presenteremo sinteticamente un esempio di applicazione del “metodo tradizionale”[38]nel nuovo millennio. Dovendo scegliere, a titolo esemplificativo, un solo ambito d’indagine, riteniamo che il mondo islamico offra un terreno molto interessante su cui riflettere. Al suo interno, infatti, l’ermeneutica adottata dall’orientamento perennialista permette di trarre schemi alquanto fecondi al fine di districarsi nella comprensione dei fenomeni del fondamentalismo e del terrorismo. L’Islam tradizionale, infatti, inteso come sguardo all’Origine, al Principio metafisico che tanto l’islamismo fondamentalista quanto il laicismo avversano, nelle contrapposte eppur solidali linee direttrici, sarebbe il miglior interlocutore per un’Europa – e un Occidente – ancora capaci di parlare il linguaggio del simbolo, dell’analogia e della Tradizione. Lo spiega con efficacia un ricercatore italiano, Gustavo Mayerà, esperto di Islam, parlando del sufismo, componente esoterica fondamentale del monoteismo maomettano:
Il sufismo – rileva Mayerà – è un pilastro fondamentale della dottrina islamica, che deve gran parte della propria fioritura e diffusione proprio a maestri sufi, ma ha anche una pervasiva presenza numerica sul territorio: una singola confraternita sufi – e ve ne sono svariate – ha più aderenti del fondamentalismo nel suo complesso. Purtroppo però questa realtà, mossa per lo più da istanze spirituali, rituali e cultuali, ha risonanza minore delle bombe, che, non a caso, hanno nei santuari sufi uno dei loro obiettivi prediletti. L’acerrimo nemico dei fondamentalisti, guidati dal loro bieco e degenerato letteralismo, non può che essere identificato nella profonda spiritualità, nella ricchissima simbologia e nelle illuminate anagogie della tradizione esoterica, che, nonostante tutto, riesce ancora a prosperare nel mondo islamico, garantendo che l’essenza più profonda del messaggio di Maometto possa essere conservata intatta attraverso i tumulti dei secoli[39].
Una “essenza più profonda” che, ricordiamo, ancora sulla base del Pensiero di Tradizione, ha profonde affinità formali, nonché un’unità spirituale fondamentale, con le altre tradizioni religiose, nella loro doppia componente esoterica ed essoterica. A lumeggiare scenari contemporanei, anche di attualità politica e geopolitica, dunque, ancora una volta irrompe la metafisica. È per questo che gli appunti offerti da Flavio Cuniberto, nel suo Il cedro e la palma – che sottotitola, non a caso, Esercizi di metafisica – sono davvero preziosi. Senza voler strumentalizzare un testo dal profondo afflato mistico, entro cui le tre “fedi” abramitiche vengono studiate su un piano esegetico autenticamente simbolico-spirituale, il saggio offre una franca verità, valida pure nella lettura della quotidianità, in sensometa-politico. Dimostra, infatti, con grande lucidità, la compresenza di un forte nucleo metafisico – quello di «una dottrina e una prassi della polarità, del ritmo, dell’Uno e del Due, dove il Due è l’aprirsi dell’Uno e rimane perciò interno all’Uno»[40] – nelle tre religioni già menzionate. È proprio l’oscuramento di questo nucleo, che spesso le religioni stesse, nella loro forma istituzionalizzata e secolarizzata, tendono a obliare, a causare dissidi e ostilità. È in questa reificazione, infatti, che cresce il dissidio, «la lotta all’ultimo sangue per il primato sul palcoscenico della credenza religiosa. Un palcoscenico che non esitiamo a definire frivolo – e il mondo “laico” ne ha preso da tempo le distanze come da una noiosa disputa infantile intorno al nulla –, a meno che il “sostantifico midollo” non torni a ravvivare lo stanco involucro delle forme esterne»[41].
La liberazione metafisica, insomma, richiede un radicamento nel Sacro che è impensabile al di fuori di una tradizione religiosa, la quale sola garantisce la metodologia adeguata a districarsi nel dominio spirituale. «Non solo la liberazione – spiega Francesco Tomatis –, ma anche il radicamento senza del quale essa è un autonegarsi meramente nihilistico, illusorio ed esiziale assieme, un’estinzione senza beatificazione, un’assolutizzazione del venir meno di tutti gli assoluti» si dà nella viva potenza dei simboli (come quello della montagna, ampiamente approfondito dallo studioso). «Nessuna ascetica auto- e onni-negazione (della negazione: negatio negationis, poiché tutte le cose sono in un certo senso negatività e negazione, infine tutte da eliminare) – continua Tomatis – può in realtà realmente negare. Volte a liberazione, si tratta piuttosto di vie negative per giungere nel luogo onde si è partiti e sempre restati, ma in modo assieme consapevole e reale, identitario e alterizzante»[42]. L’integrazione della dottrina tradizionale dell’Unità trascendente delle religioni con le più recenti acquisizioni dell’ermeneutica storico-religiosa, della geopolitica e persino di alcune intuizioni della filosofia contemporanea, può così offrire un’originale prospettiva di ricerca sul terreno di un dialogo interreligioso di matrice metafisica e non genericamente ecumenica[43]. All’unità dogmatica e alla pacificazione irenica, in ultima istanza, può essere preferita una fraternità basata sul confronto, sul rispetto e sulla corresponsabilità dialogica[44]. Forse l’età del postmoderno, entro cui i vincoli più rigidi della modernità positivista e razionalista risultano irrimediabilmente incrinati, potrà rivelarsi un’epoca feconda per una nuova manifestazione, in forma rinnovata, del Sacro. Il mythos, come ombra fraterna del logos, incalza le coscienze degli uomini del nuovo millennio. Il deus adveniens– che è segnatamente semper adveniens –cantato liricamente da Nietzsche e Hölderlin, e intuito speculativamente da Heidegger, bussa alle nostre porte. Questa volta, forse, l’ospite si rivelerà meno inquietante del precedente.
Bibliografia di riferimento
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Note:
[1] A queste definizioni Giovanni Sessa accosta l’espressione «pensiero di Tradizione», per rimarcare, «a differenza di quanto ritiene la scolastica tradizionalista, come tale corrente speculativa si sia sviluppata in un colloquio sintonico ed essenziale con la filosofia ottocentesca e novecentesca». Questa asserzione permette di acquisire il dettato tradizionalista come forma di un pensiero vivente, frutto «dello strutturarsi storico indotto dall’incontro nell’evento, del patrimonio ideale tradizionale, con la realtà metamorfica del mondo» (Itinerari nel pensiero di tradizione. L’origine o il sempre possibile (presentazione di D.Bigalli, Solfanelli, Chieti 2015, pp. 15-16). In questo quadro interpretativo, ad esempio, Julius Evola, uno degli autori più originali nell’alveo del Perennialismo, non può essere definito “tradizionalista”, bensì “pensatore di Tradizione”, essendo capace di interloquire attivamente, in senso filosofico tuttavia, non soltanto simbolico-esoterico, con quella dimensione – la Tradizione – che è «la capacità di essere attivamente fedeli alla chiamata proveniente dal non-luogo di una profondità e di altezza che travalica e sovrasta ciò che è soltanto umano, immediato e utilitaristico. La cui grazia donante esercita (…) una vitale “azione di presenza”» (R.Gasparotti, L’individuo assoluto e la magica potenza dell’immagine, in J. Evola, L’individuo e il divenire del mondo, Mediterranee, Roma 2015, p. 22).
[2]F.Schuon, De l’unité trascendante des religions, Editionsdu Seuil, Paris 1979; trad. it. di G.Jannaccone e M. Magnini, Unità trascendente delle religioni, Mediterranee, Roma 1997, p. 14.
[3] Le ragioni di questa esclusione sono tante, ma potrebbero essere identificate sotto due titoli principali: il predominio, nella cultura mainstream, di una visione materialista, razionalista e storicista – ossia moderna –, anche nella disamina dell’ambito religioso; l’associazione univoca (e pertanto superficiale) dell’orientamento tradizionalista con prospettive politiche di tipo reazionario e autoritario.
[4] Con questo aggettivo ci riferiremo, nella nostra indagine, alla metafisica tradizionale perennialista, senza entrare nel complesso dibattito filosofico occidentale sulla nozione di metafisica, la cui fondazione viene fatta solitamente risalire ad Aristotele, e sui numerosi e fecondi tentativi di oltrepassamento della medesima, specialmente nel pensiero novecentesco (cfr., fra gli altri, M. Heidegger, Che cos’è la metafisica?, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2001; d’altra parte l’approccio heideggeriano potrebbe essere costruttivamente impiegato per una ridefinizione del linguaggio tradizionalista alla luce della critica all’ontoteologia, mediata da spunti, come la teologia negativa, l’apofatismo, il misticismo e il rifiuto del dualismo dialettico che proprio nel perennialismo trovano ampia tematizzazione: la verità, intesa in senso evemenenziale come Ereignis, rivela l’Origine sfuggendo da una costruzione metafisica rigidamente normativa). Una definizione teorica di Gómez Dávila ci sembra tuttavia adeguata a esprimere, con un linguaggio speculativo, quella osmosi di immanenza e trascendenza che si realizza proprio nella metafisica tradizionale: «La metafisica è al contempo la scienza dell’essere e forma della sostanza individuale; pura conoscenza della realtà ultima e pura biografia del suo autore» (N.G. Dávila, Notas, Villegas, Bogotá 2003; trad. it. di L.Pasinato, Notas, Circolo Proudhon, Roma 2016, vol. I, p. 90).
[5] Cfr. in particolare il suo NeuesTestament und Mythologie. DasProblemderEntmytholosierungderneutestamentlichenVerkündigung, a cura di E.Jüngel, C. Kaiser, München 1988; trad. it. di L. Tosti e F. Bianco,Nuovo Testamento e mitologia. Il manifesto della demitizzazione, con un saggio introduttivo di I. Mancini, Queriniana, Brescia 2005.
[6] Della «aspirazione dell’uomo rinascimentale ad avere una “rivelazione primordiale” che includesse non soltanto Mosé e la Cabala, ma anche Platone e, anzitutto e soprattutto, le misteriose religioni egiziane e persiane» (M.Eliade, The Quest – History and Meaning in Religion, University of Chicago Press, Chicago 1969; trad. it. di A. Crespi Bortolini, La nostalgia delle origini. Storia e significato nella religione, Morcelliana, Brescia 2000, p. 52), ancor più diffusamente del citatoEliade ha parlato il suo allievo I.P.Culianu (cfr. in particolare:Eros et magie à la Renaissance. 1484, Flammarion, Paris 1984;trad. it. di G.Ernesti, Eros e magia nel Rinascimento. La congiunzione astrologica del 1484, prefazione di M. Eliade, Il Saggiatore, Milano 1987;Iocari serio. Științași arta îngîndireaRenașterii, Polirom, Iaşi2003; trad. it. di H.C.Cicortaş, Iocari serio. Scienza e arte nel pensiero del Rinascimento, Lindau, Torino 2017).
[7]Non la gnosi, ma la fede e la grazia erano gli strumenti di salvezza del cristianesimo, pertanto, nell’ottica dei pensatori platonici, «il cristianesimo non poteva essere identificato come una filosofia» (M. Zambon, “Nessun dio è mai sceso quaggiù”. La polemica anticristiana dei filosofi antichi, Carocci, Roma 2019, p. 430).
[8]F.Schuon, Unità trascendente delle religioni, cit., p. 14.
[9] Ibidem.
[10]«Il dogmatismo si manifesta non soltanto con la sua inettitudine a concepire l’illimitatezza interna o implicita del simbolo, cioè la sua universalità che risolve tutte le opposizioni esteriori, ma anche con la sua incapacità di riconoscere, quando è davanti a due verità in apparenza contraddittorie, il nesso interno che esse affermano implicitamente, il quale ne fa aspetti complementari di una sola e medesima verità» (ivi, p. 17).
[11] Cfr. R. Guénon, Les Étatsmultiples de l’être, Édition Vega, Paris 1932; trad. it. di L. Pellizzi, Gli stati molteplici dell’essere, Adelphi, Milano 1996.
[12]Cfr. N. Cusano, La dotta ignoranza, a cura di G. Federici Vescovini, Fabbri, Milano 2005.
[13] Si veda, fra gli altri, il saggio«Mephistopheleset l’androgyne» in M.Eliade, Mephistopheles et l’androgyne, Gallimard, Paris 1962, pp. 95-154; trad. it. di E. Pinto,«Mefistofele e l’androgino o Il mistero della totalità» in Mefistofele e l’androgine, Mediterranee, Roma 2011, pp. 71-114.
[14] F.Schuon, Religio perennis, disponibile sul sito «in quiete» (http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/reneguenon/religioperennis.htm).
[15] Galoppini, Religione Romana e Islam: convergenza o divergenza? Intervista a Claudio Mutti, in «Il discrimine», 11 febbraio 2016 (http://www.ildiscrimine.com/religione-romana-e-islam-convergenza-o-divergenza-intervista-a-claudio-mutti/).
[16] F.Schuon, Religio perennis, cit.
[17] Ibidem.
[18] Ibidem.
[19]F.Schuon, Unità trascendente delle religioni, cit., pp. 33-34.
[20] Ivi, p. 36.
[21]J. Evola, Il cammino del cinabro, con un saggio introduttivo di G. Alvi, a cura di G. de Turris, G. Sessa e A.Scarabelli, Mediterranee, Roma 2014, p. 180.
[22]G. De Giorgio, La Tradizione Romana, a cura di G. de Turris, Mediterranee, Roma 1989, p. 169.
[23] Ivi, p. 170.
[24] Ivi, p. 171.
[25] Ivi, p. 174.
[26]A.K.Coomaraswamy, Time and Eternity, ArtibusAsiaePublishers, Ascona 1947; trad. it. di R.Rajk, Tempo ed eternità, a cura di G. Marchianò, Mediterranee, Roma 2014, p. 133.
[27] Ivi, p. 136.
[28]A.K.Coomaraswamy, «Pathsthatlead to the Same Summit», in The Bugbear of Literacy, Perennial Books, London 1979, pp. 50-67; trad. it. di L. Fenoglio, «Molti sentieri per un’unica vetta (Osservazioni sulla religione comparata)», in Sapienza orientale e cultura occidentale, Lindau, Torino2018 [ebook].
[29] Ibidem.
[30]Ibidem.
[31]R. Guénon, Y a-t-il encoredes possibilité sinitiatiques dansles formes traditionnelles occidentales?, in «Études Traditionelles», n. 435, gennaio-febbraio 1973;trad. it. di A, Grossato, «Vi sono ancora delle possibilità iniziatiche nelle forme tradizionali occidentali?», in La Tradizione e le tradizioni. Scritti 1910-1938, Mediterranee, Roma 2003, p. 169.
[32]Sul rapporto fra i due la bibliografia è sterminata. Si rimanda qui ad A. Grossato, René Guénon e la revisione delle bozze di Rivolta, in J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, con un saggio introduttivo di C.Risè, Mediterranee, Roma 2010, pp. 413-20 e a P. di Vona, Evola Guénon De Giorgio, SeaR, Borzano (RE) 1993. Evola tratteggia con chiarezza la propria visione dell’opera guénoniana nel suo René Guénon e il “Tradizionalismo integrale”, in Ricognizioni. Uomini e problemi, Mediterranee, Roma 1974, pp. 205-213. Sulla peculiarità del tradizionalismo evoliano, dotato di una dimensione dinamica e di un approccio più autenticamente pragmatico e sincronico che storico-descrittivo, si rimanda alle interessanti riflessioni di Giovanni Sessa, secondo cui in Evola «è tale idea radicale della libertà a rettificare il limite statico e contemplativo della Tradizione del Guénon, a dinamicizzare la Tradizione evoliana, rendendola sempre possibile. Un’idea di tempo sferica, di storia intesa come inesausta apertura, in cui attraverso l’azione virtuosa sintonizzata sul precedente autorevole del mito, può fare irruzione l’origine» (Julius Evola e l’utopia della Tradizione, Oaks, Milano 2019, p. 53, n. 29). Il tema è stato pure ampiamente approfondito da Sessa nel suo Itinerari nel pensiero di tradizione. L’origine o il sempre possibile, cit (cfr. anche la nota 1 del presente saggio).
[33]J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, cit., p. 31.
[34]M. Barracano, Cristo Perenne. L’Eterno presente, Aseq, Roma 2016, p. 93.
[35]E. Zolla, intervistato da Doriano Fasoli, Il pensiero che oltrepassa la parola, in «L’Unità», 20 giugno 1999.
[36] Su questa tangenzialità risulta fecondo confrontare interpretazioni diverse: a negare l’appartenenza di Eliade a una Weltanschauung tradizionalista è P. Pisi, I “tradizionalisti” e la formazione del pensiero di Eliade, in AA.VV., Confronto con Mircea Eliade. Archetipi mitici e identità storica, a cura di L. Arcella, P. Pisi, R. Scagno, Jaca Book, Milano 1998, pp. 43-133; a segnalare invece un’affinità di prospettive sono L. Sanjakdar, Mircea Eliade e la Tradizione. Tempo, mito, cicli cosmici, Il Cerchio, Rimini 2014 e M. De Martino, Mircea Eliade esoterico. Ioan Petru Culianu e i “non detti”, Settimo Sigillo, Roma 2008. La più equilibrata discussione del tema è tuttavia fornita, a nostro avviso, da H.T. Hansen in Mircea Eliade, Julius Evola und die Integrale Tradition , in J. Evola, Überdas Initiatische. Aufsatzsammlung, H.FrietschVerlag, Sinzheim 1998, pp. 9-50.
[37]M.Eliade, Gedankenzueinemneuen Humanismus (Pensieri per un nuovo umanesimo), in «Antaios», IV, (1963), pp. 117-118, trad. it. nostra.
[38]Il metodo ermeneutico-simbolico adottato dalla Scuola Tradizionalista e formalizzato da Walter Heinrich nel suo Über die traditionelle Methode, Stifterbibliothek, Salzburg 1954; trad. it. di S. Wiesel, Sul metodo tradizionale. Vico Bachofen Guénon Evola, a cura di S. Arcella, Pagine-Fondazione J. Evola, Roma 2017.
[39]G.Mayerà, Sull’esoterismo islamico, in «Antarès. Prospettive antimoderne», n. 13, a. 2018.
[40]F. Cuniberto, Il cedro e la palma. Esercizi di metafisica, Medusa, Milano 2019, p. 12.
[41] Ivi, p. 14.
[42]F.Tomatis, Filosofia della montagna, prefazione di A. Torno, postfazione di R. Messner, Bompiani, Milano 2008, pp. 38-39.
[43] Intendiamo qui “ecumenismo” nel senso dell’“universalismo” di matrice post-illuminista – con i suoi correlati teoretici: razionalismo, umanismo, omogeneizzazione indifferenzialista.
[44] Una prospettiva, questa, che evoca affascinanti e imprevedibili richiami alla prospettiva religiosa e metafisica di Gandhi. Sul tema rimandiamo a F. Toscani, Gandhi e la nonviolenza nell’era atomica, Odissea, Milano 2011.
Luca Siniscalco
(Fonte: Nuovo Giornale di Filosofia della Religione N. 13/14 Maggio – Dicembre 2020)