Tracce nascoste di innologia indoeuropea nell’innologia latina – Rosa Ronzitti
§ 1. Il mondo romano non conserva molti testi di epoca arcaica e, nonostante sia stata abbondantemente sottolineata e comprovata l’ereditarietà di talune pratiche cultuali e del lessico sacrale, non disponiamo neanche lontanamente di inni religiosi ampi e ben conservati come quelli vedici (1).
In primo luogo abbiamo reliquie di antichi carmina: intonati dai collegi sacerdotali, essi testimoniano le strutture tipiche dell’inno sacro (anafore, responsioni, vocativi teonimici, ritmicità fonica). L’antichità della lingua e le modalità difettose di trasmissione li rendevano in parte incomprensibili ai Romani stessi già nel I sec. a.C. Il famoso Carmen Arvale, recitato dai Fratres Arvales e organizzato sulla ripetizione di ternaria di ogni verso, è interessante circa l’attitudine verso la polionimia (la pratica di lodare il dio attraverso i molti suoi nomi), perché vi si invoca Marte nella triplice forma di Marmar, Mar e Marmor. Nel De agri cultura (141,1 ss.) Catone riporta la lustratio che il proprietario di un campo eseguiva durante i Suovetaurilia: rivolta a Mars pater, essa ha ricevuto la massima attenzione da parte degli indoeuropeisti per le sue possibilità comparative (2). Testimonianze simili provengono da aree perilatine e italiche: le Tavole di Gubbio (VII-VI sec. a.C.), così come un’antichissima iscrizione dedicata a Cerere (600 a. C.), contengono porzioni innologiche e formulari che, grazie al confronto con altri testi indoeuropei, confortano l’ipotesi di un patrimonio comune specificamente finalizzato al contatto col divino. Parte fondante della religione romana arcaica, tradizionalmente a partire da Numa Pompilio, sono gli indigitamenta: si tratta di liste di teonimi formate da appellativi. Tali liste riunivano i nomi delle divinità che sovraintendevano ai singoli aspetti della vita umana, senza escludere gli dèi maggiori. A parte gli dèi utili alle pratiche agricole (attività essenziali per la Roma dei primi secoli), negli indigitamenta venivano per lo più invocate divinità relative ai “riti di passaggio”: la nascita, il raggiungimento della pubertà, il matrimonio, la morte. Per questo negli archivi dei pontefici esistevano liste ufficiali di nomi e formule, autentiche e inalterate, a disposizione dei cittadini per il loro uso in privato(3). Alla loro corretta recitazione e pronuncia erano preposti i Pontefici, che le avevano trascritte in libri appositi. Gli indigitamenta tradiscono un’origine orale e sono connessi con la ricerca etimologico-motivazionale, dal momento che ogni divinità viene invocata affinché realizzi a favore dell’orante l’azione da cui prende il nome. Simmetricamente, una stessa divinità può ricevere molti nomi a seconda della funzione che essa svolge di volta in volta: siffatte collane di epiteti, spesso tramandateci da fonti tarde, sono assimilabili a forme di preghiera enumeratoria come lo Śatarudrīya vedico (‘preghiera a Rudra nei suoi cento aspetti’) o gli inni avestici ad Ahura Mazdā e Vayu. Ne ricordiamo una per tutte: Agostino, nel De Civitae Dei (VII,11), elenca i nomi di Giove (Victorem, Invictum, Opitulum, Impulsorem, Statorem, Centupedam, Supinalem, Tigillum, Almum, Ruminum), fornendone la spiegazione. Ciò apre la possibilità di considerare gli indigitamenta residui preistorici di invocazioni indoeuropee, fatte salve le sostituzioni lessicali e culturali che sono intervenute nel corso del tempo all’interno dell’asse genetico latino.
Pur tuttavia ci troviamo di fronte a materiale in gran parte frammentario quando non oscuro, dal quale è difficile ricavare informazioni utilizzabili per lo studio della preistoria innologica indoeuropea. La maggior parte delle preghiere latine, per quanto interessantissima sotto altri aspetti, non mostra nulla più che il vocativo seguìto da un imperativo di richiesta, soccorso o simili. Risulta difficile trarre conclusioni stringenti sull’ereditarietà di strutture così basilari e universalmente diffuse, salvo nei punti già ben dissodati dagli indoeuropeisti.
§ 2. Possiamo però percorrere una strada meno diretta e immaginare che alcuni autori latini, all’interno della loro produzione, riportino o rielaborino modelli di innologia arcaica. Ci riferiamo in particolare alla figura di Hercules, che rappresenta la continuazione del potente dio protoindoeuropeo della guerra. Tale dio assume nei diversi assi genetici nomi diversi: è Indra presso gli Indiani, Kərəsāspa e Vərəϑraγna presso gli Iranici, Heraklēs presso i Greci, Thor presso i Germani.
Le intense ricerche del germanista Franz Rolf Schröder (1939, 1954 e 1957) hanno da tempo permesso di stabilire l’equivalenza di tutte queste divinità, oltre le (pur fitte) somiglianze di tratti contenutistici già ben còlte da comparatisti ottocenteschi come il grande Michel Bréal (4). Si possono infatti ricostruire porzioni di inni finalizzati a enumerare una dopo l’altra le imprese del dio-guerriero. Sono quelli che Schröder chiama Aufreihelieder ‘inni enumeratorî’, tra i quali egli inserisce, del tutto appropriatamente, sia Du-Lieder (‘inni alla seconda persona’), come l’inno r̥gvedico I,51, sia Ich-Lieder (‘inni alla prima persona’), come il bellissimo RV X,48, entrambi dedicati a Indra.
A ciò si aggiunga il meritorio lavoro di un altro importante studioso tedesco, Leopold von Schröder (1914), che dedicò un ampio e dettagliatissimo studio alle vicende di Indra ed Eracle, mettendone in luce le reciproche somiglianze, verificate su decine di tratti comparabili.
Ci soffermeremo ora sull’acuta lettura che Schröder (1954, 182-183) ha fornito della celebre lotta fra Ercole e Caco narrata nel libro ottavo dell’Eneide. La sovrapponibilità di questo episodio con l’impresa indraica delle vacche liberate da un mostro-caverna (che nel Veda si chiama Vr̥tra o Vala) è stata, come abbiamo detto, uno dei pilastri della mitologia comparata; tuttavia, l’attenzione dello studioso tedesco si concentra piuttosto sulla parte finale del racconto virgiliano. Dopo che l’ospite Evandro ha terminato di narrare la lotta erculea contro il mostro e ha spiegato a Enea come da quel momento venga fondato e tramandato il culto del dio, ha luogo un grande banchetto, nel quale i sacerdoti Salii
… carmine laudes
Herculeas et facta ferunt …
‘In un carme narrano le lodi
di Ercole e i fatti’ (vv. 287-288).
Segue un carme che è effettivamente un Aufreihelied, una collana di imprese eroiche (in vedico si direbbe viryā̀ṇi ‘fatti virili’) durante la cui recitazione si passa dall’elenco delle fatiche, con il congiuntivo obliquo del discorso riferito e la terza persona, a un Du-Lied di sapore arcaico direttamente intonato dai sacerdoti:
… ut prima novercae
monstra manu geminosque premens eliserit angues,
ut bello egregias idem disiecerit urbes,
Troiamque Oechaliamque, ut duros mille labores
rege sub Eurystheo fatis Iunonis iniquae
pertulerit. «Tu nubigenas, invicte, bimembris,
Hylaeumque Pholumque, manu, tu Cresia mactas
prodigia et vastum Nemeae sub rupe leonem.
Te Stygii tremuere lacus, te ianitor Orci
ossa super recubans antro semessa cruento;
nec te ulla facies, non terruit ipse Typhoëus,
arduus arma tenens; non te rationis egentem
Lernaeus turba capitum circumstetit anguis.
Salve, vera Iovis prole, decus addite divis,
et nos et tua dexter adi pede sacra secundo».
Talia carminibus celebrant; super omnia Caci
speluncam adiciunt spirantemque ignibus ipsum
‘… come, premendo con la mano, strozzò
per primi i mostri della matrigna, i due serpenti;
come in guerra distrusse famose città;
e Troia ed Ecalia; come mille dure fatiche
sotto il re Euristeo per volere dell’ingiusta
Giunone sopportò. «Tu, o invitto, i figli della nube
dalle duplici membra, Ileo e Folo, di tua mano,
tu i mostri cretesi immoli e il grande leone
sotto la rupe Nemea.
A causa tua i laghi dello Stige tremarono,
a causa tua [tremò] il guardiano dell’Orco
disteso su ossa semidivorate nell’antro sanguinoso.
Né te atterrì alcun mostro, non lo stesso Tifeo,
dritto tenendo le armi; non te privato del senno
l’idra di Lerna circondò con la folla di teste.
Salve, o vera prole di Zeus, ornamento aggiunto agli dèi,
e noi e i tuoi sacrifici visita fausto con piede favorevole!»
Tali imprese celebrano nei carmi; e sopra a tutto aggiungono di Caco
la spelonca e quello stesso che spira fiamme’ (vv. 288-304).
Certamente Ercole è dio greco (e greco-etrusco) ambientato a Roma e Virgilio ha dietro di sé un’illustre tradizione classica di modelli innologici: l’origine del testo è quindi senz’altro complessa e va letta come un’interazione fra genio virgiliano, fonti greche e tradizioni autoctone. Il precedente più immediato, l’inno lucreziano a Venere che apre il De rerum natura (I,1-43), contiene un poliptoto molto marcato del ‘tu’ divino. L’addensamento pronominale dell’epiclesi è ancora più ricco che in Virgilio, con un poliptoto prolungato e fitte anafore: per te … (v. 4), te … te … te … (v. 6), adventumque tuum, tibi … (v. 7), … tibi … (v. 8), … te, diva, tuumque / … initum … tua vi (vv. 12-13), te … (v. 16), nec sine te … (v. 22), te sociam … (v. 24), … tu, dea … (v. 26), … tu … (v. 31), … in gremium … tuum … (v. 33), … in te … (v. 36), eque tuo … ore (37), … tu … tuo corpore sancto (v. 38). Il nesso te sociam ricorda, essendovi identico anche etimologicamente, quelli r̥gvedici del tipo tava … sakhyé (IV,28,1a), per quanto il proemio di Lucrezio si chiuda con la constatazione di una distanza incolmabile e addirittura necessaria fra dèi e mondo: il ‘tu’ naufraga contro un egoistico ‘sé’ (omnis enim per se divum natura … semota ab nostris rebus seiunctaque longe, vv. 44-46). In Virgilio, al contrario, l’invocatio finale consiste in una richiesta di avvicinamento nella quale il ‘noi’ e il ‘tu’ si uniscono sintagmaticamente, con espediente già notato per la chiusa degli inni vedici: et nos et tua… sacra richiamerà un verso come RV X,133,6ab: vayáṃ indra tvāyávaḥ ‘noi, o Indra, che tendiamo verso di te’ (5). Circa le tradizioni autoctone, a esse va dato il giusto rilievo da più punti di vista: prima Virgilio narra la lotta contro Caco, mito nel quale si ravvisano caratteristiche di autenticità indigena e di grande antichità; l’episodio culmina poi nella costruzione dell’Ara Massima, momento cruciale e fondante della romanità; infine vengono introdotti i Salii, che recitano l’inno. È davvero interessante che tale recitazione sia affidata a una classe di “custodi della memoria”: ciò può essere il segnale che il testo o sue parti attingono a un patrimonio formulare tramandato collegialmente (sul modello delle lodi marziali cantate dagli Arvales). La chiamata in campo dell’antico collegio sacerdotale, oltre a dare autorità, solennità e autenticità al racconto, suggerirebbe un apparentamento di Ercole a Marte, il dio latino della guerra: questa era del resto la conclusione cui giungeva alcuni secoli dopo Macrobio nei Saturnalia, discutendo il testo dell’Eneide.
Ordunque, in Sat. III,12 Evangelo, personaggio deputato a scovare in Virgilio presunte inesattezze e imprecisioni, mette in discussione l’auctoritas del poeta facendo osservare che i Salii non si cingono la fronte di pioppo, bensì d’alloro, e che di solito non cantano le lodi di Ercole, bensì di Marte. Vettio Agorio Pretestato, regista e maestro del simposio macrobiano, gli ribatte punto per punto, mostrando come i pretesi errori rivelino in realtà la profonda conoscenza che Virgilio ebbe delle antichità romane. In primo luogo, osserva Pretestato, la consuetudine del pioppo era molto più antica di quella dell’alloro: lo testimonia Varrone nel libro II delle Antiquitates Rerum Humanarum. In secondo luogo, Ercole e Marte si identificano, e anche in questo l’auctoritas di Varrone arreca un contributo decisivo, poiché il grammatico reatino aveva scritto una satira nella quale Marte era presentato come “un altro Eracle”:
Salios autem Herculi ubertate doctrinae altioris adsignat, quia is deus et apud pontifices idem qui et Mars habetur. Et sane ita Menippea Varronis adfirmat quae inscribitur Ἄλλος οὗτος Ἡρακλῆς; in qua, cum de multo Hercule loqueretur, eundem esse ac Martem probavit. Chaldaei quoque stellam Herculis vocant, quam reliqui omnes Martis appellant
‘E poi [Virgilio] attribuisce i Salii a Ercole per la ricchezza di una sapienza alquanto profonda, dal momento che questo dio anche presso i pontefici era ritenuto lo stesso che Marte. Certamente lo conferma anche la [satira] Menippea di Varrone che si intitola ‘Quest’altro Eracle’, nella quale, parlando a lungo di Ercole, [Varrone] provò la sua identità con Marte. Anche i Caldei chiamano «stella di Ercole» quella che tutti gli altri chiamano di Marte’.
§ 3. Il valore della testimonianza macrobiana, che restituisce un Virgilio attento conoscitore della protostoria di Roma e un Varrone storico delle religioni interessato all’identità divina di Ercole, è notevole e ci sembra avallare l’idea che un testo eulogistico come Aen. VIII,288 ss. si ponga nel solco di una tradizione innologica pregressa nella quale Ercole svolge le funzioni di un Indra latino (6).
Senza quindi voler affatto negare gli apporti plurimi già indicati, non appare né strana né peregrina la possibilità di individuare nel ricreato carmen saliare virgiliano puntuali richiami a epiteti e formule vediche, ovvero a materiale ereditato dalla preistoria lungo l’asse genetico del latino. La presentazione di Ercole come colui che egregias … disiecerit urbes, per esempio, assume immediatamente una dimensione comparativa se confrontata con l’epiteto indraico puramdará- ‘distruttore di città’ (7).
Ancora più pregnante, proprio perché riguarda un dettaglio secondario, è la sovrapponibilità di nubigenas al composto vedico nabhojā́- ‘nato dalla nuvola’: laddove Virgilio descrive con nubigenas l’origine dei centauri Ileo e Folo, nati come tutti i loro simili dall’unione di Issione con una nuvola (8), il R̥gveda assegna infatti l’epiteto nabhojā́- al dio Soma nella sua veste esplicitamente “centaurica” (gandharvica) in RV X,123,2ab.
Si tratta di una corrispondenza abbastanza sorprendente se pensiamo che nabhojā́ è di occorrenza rarissima: due volte in una raccolta di 1028 testi. Ancora più sorprendente è che sia associato proprio alla parola gandharvá-, il corrispondente funzionale, se non etimologico, di gr. κένταυρος (9)
Vediamo il contesto: la produzione del succo sacrificale inebriante, il dio Soma, è descritta con le caratteristiche di un parto che avviene da una nuvola-grembo ‒ il latte in cui il succo stesso (che si otteneva per spremitura di una pianta allucinogena) viene mescolato durante il sacrificio. In RV X,123,2 il ‘veggente’ (vená-) fa da levatrice a tale singolare nascita, che rappresenta, con tutta evidenza, anche la nascita della sua ispirazione poetica dal mare del cuore:
samudrā́d ūrmím úd iyarti venό nabhojā́ḥ pr̥ṣṭháṃ haryatásya darśi
r̥tásya sā́nāv ádhi viṣṭápi bhrā́ṭ samānáṃ yónim abhy ànūṣata vrā́ḥ
‘Dal mare il veggente solleva un’onda: è apparsa la schiena dell’amato nato dalla nuvola. Sulla cima dell’Ordine, sulla vetta, (è apparsa) come un fulgore. Le schiere hanno gridato sul grembo comune’.
Tale veggente altri non è che la forma sacerdotale del Soma stesso, il quale, nel corso dell’inno, viene chiamato per due volte gandharva, ovvero centauro (strofe 4 e 7).
Anche la seconda attestazione di nabhojā́- è collocata in ambito somico: nell’inno RV X,30,9 la dolce onda del liquido inebriante che serve a Indra come bevanda (matsarám indrapā́nam ūrmím) proviene dalla nuvola (nabhojā́m), ovvero dal latte sacrificale.
In conclusione, nel R̥gveda gandharvá- e nabhojā́- si trovano sempre associati e sono da confrontarsi con il virgiliano nubigenas … Hylaeumque Pholumque.
§ 4. Il latino nubigenas e il vedico nabhojā́- sono due composti che presentano nella seconda parte la radice indoeuropea della generazione (g̑enH-) (10). È ovvio però che Virgilio, poiché si riferisce al mito greco dei Centauri citando i nomi greci di Ileo e Folo, potrebbe aver tradotto in latino un composto originale greco, per esempio *νεφελογενής (di per sé non attestato ma plausibile), o esserselo creato con materiale latino a partire da spunti quali il pindarico ὀμβρίων παίδων νεφέλας (Olimpica XI,3, riferito alle piogge) (11): ciò non elimina la necessità di una spiegazione protostorica, bensì sposta semplicemente i termini della comparazione con l’antico indiano dal latino al greco. Se infatti il poeta avesse qui presente un originale greco come *νεφελο-γενής o composti simili, sarebbe quest’ultimo ipotetico originale a dover essere comparato con nabhojā́-.
La mitologia dei Centauri appartiene anche alla cultura indiana, ma per poterla descrivere con una certa ampiezza dobbiamo rivolgerci a uno strato di testi un po’ più recente. Il R̥gveda, invece, che è antico, si limita infatti a pochi accenni, tuttavia significativi. Si pensi che Indra, l’Eracle greco, è ritenuto direttamente responsabile dell’uccisione di un gandharva in RV VIII,77,5:
abhí gandharvám atr̥ṇad abudhnéṣu rájassu
índro brahmábhya íd vr̥dhé
‘Infilzò il gandharva negli spazi senza fondo,
Indra [lo infilzò] affinché i sacerdoti si accrescessero’.
Persino il nome greco del centauro Folo (Φόλος) potrebbe essere lo stesso di ved. phála- ‘frutto’ (12), il cui derivato phaligá- designa in modo specifico l’involucro di nuvole che Indra spacca nella sua furia demonicida. Due modelli greci che si sogliono addurre quali fonti per il brano di Virgilio sono il breve inno omerico a Eracle (XV) e l’importante Aufreihelied recitato dal coro dell’Eracle di Euripide (v. 359 ss.): tali testi, tuttavia, non sembrano presentare corrispondenze più precise di quelle appena illustrate. Il primo, di soli nove versi, ha una struttura semplice e scarna, genericamente laudativa ed epicletica; il secondo contiene sì l’elenco delle fatiche, ma non si conclude con l’invocatio né ha la forma del Du-Lied. La lotta con i Centauri vi è ricordata senza alcun riferimento alla loro origine atmosferica. In ogni caso, come si è detto, neppure presunte fonti elleniche perdute potrebbero sfuggire al paragone con il vedico. La lettura indigenista e continuista, anche solo parziale, resta un’opzione che non siamo autorizzati a scartare con un ragionamento a priori e apre anzi interessanti ipotesi circa la conservazione anche in area latina di qualche forma innologica ereditaria veicolata dai collegi sacerdotali. Per questo riteniamo necessario concludere con una notazione critica sull’importante libro di Andrea Carandini La nascita di Roma. Il volume, comparso nel 1997, è una rilettura globale, in chiave “aborigena”, della romanità primitiva. L’impostazione del Carandini sembra però soffrire di un pregiudizio antiindoeuropeistico, come risulta dal fatto che egli accoglie in toto le critiche dell’archeologo inglese Colin Renfrew a Georges Dumézil, il quale Dumézil sarebbe colpevole di aver costruito un immaginario culturale indoeuropeo che conterrebbe in realtà strutture mentali appartenenti a un ben più vasto patrimonio dell’umanità giunta a un determinato grado di sviluppo, quindi non determinabili storicamente. Sfugge così il lato positivo ed euristico dell’indoeuropeistica: laddove tale scienza riesce a ricomporre frammenti testuali basati su comparazioni precise, essa non può che confermare l’ipotesi indigenista, ovvero che i Romani custodissero antiquitates non mutuate da culture più prestigiose in fasi storiche recenti (le quali antiquitates avranno solo in séguito offerto il destro a rifacimenti e reinterpretazioni seriori, su influsso etrusco e, soprattutto, greco). Non ha infatti motivo di sussistere l’equazione indigenista = non indoeuropeo e ci sembra un peccato che le potenzialità comparative di una disciplina fondante come quella glottologica vengano sacrificate sull’altare greve dell’ideologia.
In ogni caso, l’universalismo non può eludere né la storia né la preistoria, poiché si manifesta necessariamente attraverso di esse e, concretamente, nella veste di formule poetiche, sintagmi e parole ben ricostruibili che rimandano a una fase linguistica e culturale comune, il cosiddetto protoindoeuropeo (13).
Note :
1 – Il presente scritto rielabora il quinto capitolo del mio libro Ronzitti (2014). Per la preghiera la bibliografia moderna parte almeno dalla fondamentale raccolta di Appel (1909); per l’innologia Norden (1913) e (1939). Un’introduzione classificatoria chiara e aggiornata sul tema è in Hickson Hahn (2007). Sulle isoglosse tra latino, vedico e celtico resta ancora oggi valida e indispensabile la prospettiva inaugurata da Vendryes (1918).
2 – Con la preghiera di Dario a Persepoli, con un passo della Taittirīya Saṃhitā (I,1,13,3), con Esiodo (Op. 225-247), con la preghiera ittita di Muršilis II alla dea del sole Arinna, con l’Audacht Morain irlandese etc. Cfr. l’esaustiva analisi del grande indoeuropeista statunitense Calvert Watkins (1995, 197-213), attenta agli aspetti stilistici, lessicali e metrici e ricca di bibliografia.
3 – Cfr. Del Ponte (1992). Il libro di Micol Perfigli (2004) può considerarsi la più recente monografia di riferimento per gli indigitamenta, le loro fonti e la storia della critica.
4 – Ci riferiamo alla monografia Hercules et Cacus: étude de mythologie comparée, pubblicata e Parigi nel 1863 e a tutt’oggi insuperata nella sua chiarezza metodologica.
5 – Essendo l’alleanza con il divino uno dei massimi scopi della preghiera, non è raro trovarne richiesta alla fine di un inno. Così anche Saffo, terminando la sua supplica ad Afrodite, dice: σὺ δ᾽ αὔτα / σύμμαχος ἔσσο.
6 – [1] L’identificazione tra Ercole e Marte poteva forse essere attinta anche dalla cultura celtica, cioè dalla couche nativa del mantovano Virgilio, ammesso che per la Gallia Cisalpina valesse ciò che si riscontra nella Transalpina e in altre aree celtiche, ove viene adorato Camulos, dio guerriero che prende il posto di Marte nel pantheon romanizzato ed è esplicitamente Mars Camulus nelle epigrafi (Olmsted 1994, 34). Il nome di questo Marte gallico potrebbe avere origine da un mito simile a quello erculeo, in quanto significa ‘colui che si affatica, colui che è schiavo’ (cfr. gr. κάμνω etc. e airl. cumul ‘servo’ in Olmsted 1994, 335).
7 – Sia pure con una evoluzione semantica parallela collegata al progredire della civiltà urbana: inizialmente tanto púr- quanto urbs dovevano indicare un recinto.
8 – Ovidio riprende l’epiteto e la memoria del fatto in Met. XII,211. In XII,541, poi, sembra aver presente il locus virgiliano allorché riporta per bocca di Tlepomeno che Ercole aveva domato i Centauri nubigenas.
9 – Com’è noto, Georges Dumézil scrisse nel 1929 un intero volume sulla corrispondenza fra i Gandharva indiani e i Centauri greci, che era del resto già stata proposta da alcuni indoeuropeisti tedeschi quali Adalbert Kuhn e Elard Hugo Meyer da diversi decenni. La corrispondenza etimologica fra i due termini pone una serie di problemi che non saranno discussi in questa sede.
10 – Invece nábhas- non è corradicale di nūbi-: il primo viene dalla radice *nebh– ‘nebbia, nube, umido’, il secondo da *sneu̯dh- ‘nebbia, nebbioso’ (*/dh/ dà luogo in latino a /b/ all’interno di parola in contiguità con /u/).
11 – [Talvolta per l’uomo vi è necessità] di acque celesti, figlie piovose della nuvola’: sebbene non si parli dei Centauri, sembra che Pindaro abbia qui in mente proprio il mito della loro nascita atmosferica.
12 – L’osservazione si deve a Von Schroeder (1914, 42, nota 2).
13 – Per ulteriori approfondimenti rimando al mio articolo “Lingua poetica indoeuropea”, in corso di stampa presso la rivista Vie della Tradizione – Rassegna semestrale di Orientamenti Tradizionali.
Bibliografia
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Bréal, Michel (1863), Hercules er Cacus: étude de mythologie comparée, Paris: Durand.
Carandini, Andrea (1997), La nascita di Roma. Dèi, eroi e uomini all’alba di una civiltà, Torino: Einaudi.
Del Ponte, Renato, La Religione dei Romani, Milano: Rusconi.
Dumézil, Georges (1929), Le problème des Centaures: étude de mythologie comparée indo-européenne, Paris: Geuthner.
Hickson-Hahn, Frances (2007), “Performing the sacred: Prayers and Hymns”, in Jörg Rüpke (ed.), A Companion to Roman Religion, Malden-Oxford-Cralton: Blackwell, pp. 235-248.
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Norden, Eduard (1939), Aus altrömischen Priesterbüchern, Stuttgart und Leipzig: Teubner.
Olmsted, Garret S. (1994), The Gods of the Celts and the Indo-Europeans, Budapest: Archaeolingua Alapítváni.
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Ronzitti, Rosa (in stampa), “Lingua poetica indoeuropea”, in corso di stampa presso la rivista Vie della Tradizione – Rassegna semestrale di Orientamenti Tradizionali.
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Rosa Ronzitti, docente di glottologia presso l’Università di Genova