Thomas Taylor: scritti su Platone e sul Platonismo – Roberto Sestito
Siamo lieti di presentare una nuova edizione del testo “Thomas Taylor SCRITTI SU PLATONE E SUL PLATONISMO”, con traduzione dall’inglese e revisione dei testi a cura di Mystes, e con l’introduzione magistrale del compianto Piero Fenili. Presenteremo di seguito l’indice ed alcuni estratti dell’opera.
Indice
Piero Fenili, Introduzione, pag. 5
Cap. 1- Introduzione alla filosofia e agli scritti di Platone, pag. 11
Cap. 2 – Spiegazione di alcuni termini platonici, pag. 93
Cap. 3 – Il credo del filosofo neoplatonico, pag. 103
Cap. 4 – Introduzione ai misteri degli egizi dei caldei degli assiri, pag.111
Cap. 5 – Introduzione a Plotino, pag.121
Cap. 6 – Dissertazione sulla vita e la teologia di Orfeo, pag. 143.
Dall’Introduzione di Piero Fenili
Thomas Taylor, detto “il Platonico” (the Platonist) nacque a Londra nel 1758 da genitori modesti ma rispettati. All’età di dieci anni venne ammesso alla St. Paul School, dimostrando un precoce interesse per la filosofia. Precoce fu anche il suo innamoramento, all’età di dodici anni, nei confronti della fanciulla che sarebbe diventata sua moglie. Un libro di avviamento alla matematica, trovato in casa, suscitò in lui, da vero Pitagorico, un vivo interessamento anche verso tale disciplina. Proseguendo negli studi, egli era solito dedicare il giorno al greco ed al latino e le ore notturne alla matematica, mentre la sera la riservava a corteggiare Miss Morton, che avrebbe poi sposato contro l’intenzione del padre di lei, che avrebbe preferito destinarla ad un uomo più ricco. Per sopperire alle necessità di vita della coppia, Taylor lavorò dapprima come usciere e quindi presso la Lubbock’s Bank, soffrendo sempre di una cronica mancanza di denaro e, non di rado, per la penuria di cibo. (continua)
Dall’Introduzione alla Filosofia e agli scritti di Platone:
“La filosofia”, dice Ierocle, “è la purificazione e la perfezione della vita umana. È la purificazione, in effetti, dell’irrazionalità materiale e del corpo mortale; è la perfezione, in quanto è la conquista della nostra felicità e il ritorno alla somiglianza divina. La Virtù e la Verità si occupano di questi due aspetti: la prima elimina la smodatezza delle passioni, la seconda introduce la forma divina in coloro che sono naturalmente adatti a riceverla”. Di questa filosofia, così definita, che può essere paragonata a una piramide luminosa che termina nella Divinità e che ha come base l’anima razionale dell’uomo e le sue concezioni spontanee e non deviate, Platone può essere giustamente chiamato il capo principale e lo ierofante, attraverso il quale, come la luce mistica nei recessi più profondi di qualche tempio sacro, essa ha brillato per la prima volta con occulto e venerabile splendore. Di tutta questa filosofia si può davvero dire che è il bene più grande di cui l’uomo possa essere partecipe: infatti, se ci purifica dalle contaminazioni delle passioni e ci assimila alla Divinità, ci conferisce la felicità propria della nostra natura. Perciò è facile osservare la sua preminenza su tutte le altre filosofie; dimostrare che le altre filosofie, laddove si oppongono ad essa, sono in errore; che, nella misura in cui contengono qualcosa di scientifico, sono alleate ad essa; e che, nel migliore dei casi, non sono che rivoli derivati da questo vasto oceano di verità. (continua)
Dal “Creco del Filosofo Neoplatonico”
Pubblichiamo il “Credo del filosofo neoplatonico” di Thomas Taylor, colui che è stato definito, non senza enfasi, “Il moderno Platone”, “L’apostolo del Paganesimo” e “Il sacerdote pagano dell’Inghilterra” (cfr. Manly P. HALL. Introductory essay a: THOMAS TAYLOR, The theoretic arithmetic ofthe Pythagoreans, Samuel Weiser, New York, 1972, p.VI). (Il “Credo” è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista IGNIS n. 2 1991) (continua)
Dall’Introduzione ai Misteri degli Egizi, dei Caldei e degli Assiri:
Mi sembra che ci siano due categorie di persone per le quali la presente opera deve essere considerata di valore inestimabile: gli amanti dell’antichità e gli appassionati di filosofia e religione antiche. Per i primi deve essere inestimabile, perché è ricca di informazioni derivate dai saggi dei Caldei, dai profeti Egizi, dai dogmi Assiri e dalle antiche conoscenze di Hermes; e a questi ultimi per le dottrine in esso contenute, alcune delle quali, originate da Hermes Trismegisto, furono conosciute da Pitagora e Platone e furono le fonti della loro filosofia; altre sono profondamente teologiche e svelano i misteri dell’antica religione con un’ammirevole concisione di dizione e un inimitabile vigore ed eleganza di concezione. A ciò si può aggiungere, come motivo di eccellenza, che è la più copiosa, la più chiara e la più soddisfacente difesa esistente della genuina teologia antica. (continua)
Da PLOTINO Introduzione:
Può sembrare meraviglioso che la lingua, che è l’unico metodo per trasmettere le nostre concezioni, sia allo stesso tempo un ostacolo al nostro progresso in filosofia; ma la meraviglia cessa quando consideriamo che essa è raramente studiata come veicolo di verità, ma è troppo spesso stimata per se stessa, indipendentemente dalla sua connessione con le cose. Questa osservazione è notevolmente verificata nella lingua greca che, essendo l’unica depositaria dell’antica saggezza, è stata, purtroppo per noi, il mezzo per nascondere, in una vergognosa oscurità, le ricerche più profonde e le verità più sublimi. Che le parole non abbiano altro valore se non quello di essere asservite alle cose, deve essere sicuramente riconosciuto da ogni mente liberale, e sarà contestato solo da chi ha trascorso il fiore della sua vita, e consumato il vigore della sua comprensione, in critiche verbali e sciocchezze grammaticali. E, se così fosse, ogni amante della verità studierebbe una lingua solo per procurarsi la saggezza che essa contiene, e senza dubbio desidererebbe che la sua lingua nativa la trasmettesse agli altri. (continua)
Dalla Dissertazione sulla vita e la Teologia di Orfeo:
(Prefazione)
C’è senza dubbio una rivoluzione nel mondo letterario, corrispondente a quella del mondo naturale. Il volto delle cose cambia continuamente, e la perfetta e perpetua armonia dell’universo sussiste grazie alla mutevolezza delle sue parti. In conseguenza di questa fluttuazione, le arti e le scienze sono fiorite in epoche diverse del mondo: ma il cerchio completo della conoscenza umana non è mai esistito, credo, in una sola nazione o in una sola epoca. Dove le ricerche accurate e profonde sui principi delle cose hanno raggiunto la perfezione, gli uomini hanno trascurato, per naturale conseguenza, le disquisizioni sui dettagli; e dove i particolari sensibili sono stati l’oggetto generale della ricerca, la scienza degli universali ha languito, o è affondata nell’oblio e nel disprezzo. Così la saggezza, oggetto di ogni vera filosofia, considerata come esplorazione delle cause e dei principi delle cose, fiorì in grande perfezione prima presso gli Egizi e poi in Grecia. La letteratura cortese era l’obiettivo dei Romani; e le ricerche sperimentali, che si moltiplicano senza fine e si accumulano senza ordine, sono l’impiego della filosofia moderna. Possiamo quindi concludere che l’epoca della vera filosofia si è conclusa da tempo. In conseguenza di scoperte naturali molto estese, il commercio e gli scambi sono aumentati, mentre le indagini astratte sono necessariamente diminuite: così che le conquiste moderne non si elevano mai al di sopra del senso, e ogni cosa che non contribuisca, in un modo o nell’altro, all’accumulo di ricchezza, alla gratificazione dell’ammirazione infantile o al perfezionamento del piacere corporeo è disprezzata. L’autore della seguente traduzione, quindi, non può ragionevolmente aspettarsi che il suo lavoro incontri l’approvazione di molti, poiché questi Inni sono molto antichi e troppo pieni di filosofia greca per piacere agli ignoranti e ai sordidi. Tuttavia, spera che siano accetti a quei pochi che hanno attinto la saggezza dalla sua fonte e che considerano la scienza degli universali come la prima nella natura delle cose, anche se l’ultima nel progresso della comprensione umana.
Il traduttore ha adottato la rima non perché sia più gradita al gusto generale, ma perché la ritiene necessaria alla poesia della lingua inglese, che richiede qualcosa che sostituisca l’energica cadenza degli esametri greci e latini. Se si potesse ottenere questo risultato con qualsiasi altro mezzo, egli rinuncerebbe immediatamente alla sua predilezione per la rima, che è certamente, se ben eseguita, molto più difficile del verso comune, come i seguenti Inni devono dimostrare, in misura eminente. A questo punto è necessario osservare, per quanto riguarda la traduzione, che non c’è nulla di più sbagliato nella sua natura o di più difettoso nella sua esecuzione. Normalmente si ritiene che è impossibile tradurre un autore antico in modo da rendere giustizia al suo significato. Se limitassimo il sentimento alle bellezze della composizione, sarebbe senza dubbio corretto; ma estenderlo al significato di un autore significa rendere la verità e l’opinione parziali e incomunicabili. Chiunque, infatti, conosca le lingue colte, deve essere consapevole di quanto la bellezza di un autore antico soffra generalmente nella traduzione moderna, anche se effettuata da uomini che hanno dedicato la maggior parte della loro vita al solo studio delle parole. Questo fallimento, che più di ogni altra cosa ha contribuito a portare gli antichi al disprezzo dei non studiosi, può essere attribuito solo alla mancanza di genio nei traduttori, poiché il sentimento di Pitagora è particolarmente applicabile a questi uomini: molti portano la corona del poeta, ma pochi sono ispirati dallo spirito del Dio. Ma questa osservazione è notevolmente verificata nei traduttori della filosofia antica, le cui rappresentazioni sono per la maggior parte prive di animazione e, di conseguenza, non sono in grado di esprimere il loro parere.
Essi non conservano nulla del fuoco e dello spirito dell’originale. Forse c’è solo un’eccezione a questa osservazione, ed è il signor Sydenham (Thomas Sydenham. Medico inglese, ndt): il cui successo in un’impresa così ardua può essere attribuito solo al fatto di possedere un genio filosofico e di parafrasare occasionalmente passaggi che altrimenti sarebbero insensati e inanimati. Infatti, quando le lingue differiscono così tanto come l’antica dalla moderna, il metodo più perfetto, forse, per trasferire la filosofia da una lingua all’altra, è una parafrasi fedele e animata: fedele, per quanto riguarda il mantenimento del senso dell’autore; e animata, per quanto riguarda la conservazione del fuoco dell’originale; per richiamarlo quando è latente e per espanderlo quando è condensato. Un tale autore si sforzerà ovunque di migliorare la luce e di scandagliare la profondità del suo autore, di chiarire ciò che è oscuro e di amplificare ciò che in un linguaggio moderno sarebbe incomprensibilmente conciso.
Così la maggior parte degli epiteti composti di cui sono costituiti principalmente gli Inni seguenti, pur essendo molto belli nella lingua greca, quando vengono tradotti nella nostra perdono tutta la loro correttezza e forza. Nella loro lingua madre, come in un terreno prolifico, diffondono le loro dolcezze con piena eleganza; ma si ritirano come una pianta sensibile al tocco del critico verbale o del traduttore attento. Chi vuole conservare le loro bellezze filosofiche ed esporle ad altri in un’altra lingua, deve espandere la loro eleganza, grazie ai raggi sovrastanti e vivificanti del fuoco filosofico, e, con il potente soffio del genio, spargere le loro latenti ma copiose dolcezze. Se qualche scintilla di questo fuoco celeste sembrerà aver animato il petto del traduttore, egli si considererà ben ricompensato per la sua laboriosa impresa. La filosofia antica è stata per molti anni l’unico studio del suo tempo libero; in essa ha trovato un tesoro inesauribile di ricchezza intellettuale e una fonte perpetua di saggezza e di piacere. Presumendo che tale ricerca debba essere di grande vantaggio per l’impresa attuale, e provando il più sovrano disprezzo per la sordida fatica della composizione a pagamento, non desidera altra ricompensa, in caso di successo, che l’elogio dei lettori; e non desidera altra difesa, in caso di insuccesso, che la stima di pochi sinceri e perspicaci.
(testo)
La grande oscurità e incertezza in cui è coinvolta la storia di Orfeo offre ben poca materia per le nostre informazioni; e rende persino quella poca, imprecisa e precaria. Osservando gli annali delle epoche passate, sembra che i più grandi geni siano stati soggetti a questa oscurità storica, come è evidente in quelle grandi luci dell’antichità, Omero ed Euclide, i cui scritti arricchiscono l’umanità con perpetue fortune di conoscenza e di piacere, ma le cui vite sono per la maggior parte nascoste in un impenetrabile oblio. Ma questa incertezza storica non è così evidente come nella persona di Orfeo, il cui nome è riconosciuto e celebrato da tutta l’antichità (eccetto forse il solo Aristotele), mentre della sua vita non si trova quasi traccia tra le immense rovine del tempo. Infatti, chi è mai stato in grado di affermare con certezza qualcosa sulla sua origine, sulla sua età, sui suoi genitori, sul suo Paese e sulla sua condizione? Solo su questo si può fare affidamento, per assenso generale, che in passato visse un personaggio di nome Orfeo, il cui padre era Agro, che viveva in Tracia e che era figlio di un re, che fu il fondatore della teologia tra i Greci, l’istitutore della loro vita e della loro morale, il primo dei profeti e il principe dei poeti, lui stesso figlio di una Musa; che insegnò ai Greci i loro riti e misteri sacri e dalla cui saggezza, come da una fonte perenne e abbondante, sgorgarono la musa divina di Omero, la filosofia di Pitagora e Platone; e, infine, che con la melodia della sua lira attirò rocce, boschi e bestie selvagge, fermò i fiumi nel loro corso e smosse persino l’inesorabile re degli inferi, come dimostrano a sufficienza tutte le pagine e tutti gli scritti dell’antichità. Dal momento che questo è un dato di fatto che può essere raccolto da testimonianze universali, proseguiamo un po’ più a fondo la questione, indagando più accuratamente sulla storia dell’Orfeo originario e su quella dei grandi uomini che, in epoche diverse, sono fioriti sotto questo venerabile nome.
Il primo e autentico Orfeo fu poeta in Tracia e, secondo l’opinione di molti, discepolo di Lino; fiorì, dice Suida, al tempo della dissoluzione del regno degli Ateniesi. Alcuni affermano che fu precedente alle guerre di Troia e che visse undici o, secondo altri, nove generazioni. Ma la parola greca γενεα (salute) o generazione, secondo Gyraldus, significa lo spazio di sette anni; infatti, se non si verifica questo, come è possibile che il periodo della sua vita possa avere un fondamento nella natura delle cose? Plutarco, Eraclito, Suida e alcuni grammatici sostengono che questa parola significhi uno spazio di trent’anni; ma tralasciando la discussione di quest’ultima opinione, data la sua impossibilità di saperne di più, abbracceremo la prima, secondo la quale Orfeo visse sessantatré anni; un periodo, se possiamo credere agli astrologi, fatale a tutti, e soprattutto ai grandi uomini, come nel caso di Cicerone e Aristotele. Il nostro poeta, secondo la tradizione, fu fatto a pezzi dalle donne ciconiane: per questo motivo, Plutarco afferma che i Traci erano soliti picchiare le loro mogli per vendicare la morte di Orfeo. Per lo stesso motivo, nella visione di Ero Pamphilio, in Platone, si dice che l’anima di Orfeo, essendo destinata a tornare in un altro corpo, preferì quello di un cigno piuttosto che rinascere in una donna, avendo concepito un tale odio contro il sesso femminile, a causa della sua morte violenta. La causa della sua fine è variamente raccontata dagli autori. Alcuni riferiscono che fu causata dal suo impegno in amori giovanili, dopo la morte di Euridice. Altri sostengono che fu distrutto da donne inebriate dal vino, perché era il mezzo con cui gli uomini rinunciavano al loro legame.
Altri affermano, secondo la tradizione di Pausania, che alla morte di Euridice, vagando per Aornus, un luogo in Threspotia, dove era consuetudine evocare le anime dei defunti, dopo aver richiamato Euridice e non essendo in grado di trattenerla, si auto-distrusse; gli usignoli costruirono i loro nidi e fecero nascere i loro piccoli sulla sua tomba, la cui melodia, secondo quanto riportato, superava ogni altra di questa specie. Altri ancora attribuiscono la sua distruzione al fatto che avesse celebrato tutte le divinità tranne Bacco, il che è molto improbabile, dato che tra gli inni che seguono ce ne sono nove a quella divinità, con appellativi diversi. Altri riferiscono che fu consegnato da Venere stessa nelle mani delle donne ciconiane, perché sua madre Calliope non aveva deciso bene tra Venere e Proserpina, riguardo al giovane Adone. Secondo Pausania fu colpito da un fulmine; e Diogene lo conferma con i seguenti versi composti, come afferma, dalle Muse alla sua morte:
Qui, amato dalle Muse, con la lira d’oro, riposa il grande Orfeo; riposa il grande Orfeo, distrutto dal fuoco.
Inoltre, i sacri misteri chiamati Thresciani derivavano il loro appellativo dal nostro poeta tracio, perché egli introdusse per primo i riti sacri e la religione in Grecia; e quindi gli autori dei riti di iniziazione a quei misteri erano chiamati Orpheotelestæ. Inoltre, secondo Luciano, Orfeo portò in Grecia l’astrologia e le arti magiche; e per quanto riguarda il fatto che attirasse alberi e bestie selvatiche con la melodia della sua lira, Palefato ne dà conto come segue. “Le folli ninfe dei baccanali, dice, dopo aver portato via con violenza il bestiame e gli altri beni di prima necessità, si ritirarono per alcuni giorni sulle montagne. Allora i cittadini, che aspettavano da tempo il loro ritorno e temevano il peggio per le loro mogli e figlie, chiamarono Orfeo e lo pregarono di inventare un qualche metodo per attirarle dalle montagne. Ma egli, intonando la sua lira, come nelle orge di Bacco, attirò le folli ninfe dai loro rifugi, che scesero dai monti portando dapprima ferule e rami di ogni genere di alberi. Ma agli uomini che furono testimoni oculari di questi prodigi, sembrò che all’inizio abbattessero i boschi stessi; e da qui nacque il racconto della sua vita.
Ma la fama di Orfeo era così grande che i Greci lo divinizzarono; Filostrato racconta che la sua testa dava oracoli a Lesbo e che, separata dal corpo dal presagio tracio, fu trasportata insieme alla sua lira nel mare, lungo il fiume Hebrus. In questo modo, dice Luciano, cantando per così dire la sua orazione funebre, alla quale le corde della sua lira, spinte dai venti, davano un’armonia rispondente, fu portata a Lesbo e sepolta. Ma la sua lira fu sospesa nel tempio di Apollo, dove rimase per un periodo di tempo considerevole. In seguito, quando Neanto, figlio del tiranno Pittaco, scoprì che la lira attirava con la sua armonia alberi e bestie selvatiche, ne desiderò ardentemente il possesso; e dopo aver corrotto il sacerdote con del denaro, prese la lira di Orfeo e la sostituì con un’altra simile nel tempio. Ma Neanto, ritenendo di non essere al sicuro in città di giorno, se ne andò di notte, nascondendo la lira nel suo petto e iniziando a suonare. Ma, essendo un giovane rozzo e non istruito, confondeva gli accordi; tuttavia, compiacendosi del suono e credendo di produrre un’armonia divina, si considerava il benedetto successore di Orfeo.
Tuttavia, nel bel mezzo del suo trasporto, i cani vicini, svegliati dal rumore, si avventarono sull’infelice arpista e lo fecero a pezzi. La prima parte di questa favola è spiegata in modo eccellente da Proclo nei suoi commenti (o piuttosto frammenti di commenti) alla Repubblica di Platone; un’opera che raccomando vivamente ai liberali, per la grande luce che offre alla recondita teologia dei Greci. Orfeo, dice, a causa della sua perfetta erudizione, sarebbe stato distrutto in vari modi; perché, a mio avviso, gli uomini di quell’epoca comprendevano in parte l’armonia orfica, non potendo ricevere una scienza universale e perfetta. Ma la parte principale della sua melodia fu ricevuta dagli abitanti di Lesbo; e per questo, forse, si dice che la testa di Orfeo, quando fu separata dal corpo, fu portata a Lesbo. Favole di questo tipo, quindi, sono riferite riguardo a Orfeo, non diversamente da Bacco, dei cui misteri era sacerdote. Fin qui Proclo, e così tanto per quanto riguarda il primo Orfeo o Trace.
Il secondo Orfeo era un arcadico o, secondo altri, un ciconiano, originario di Bisaltia, in Tracia, e si dice che sia più antico di Omero e della guerra di Troia. Componeva favole chiamate (μυθοποιια) ed epigrammi ed è, secondo Gyraldus, l’autore degli inni che seguono, anche se io preferisco riferirli a Onomacrito, o al quarto Orfeo, di Crotone. Il terzo Orfeo era di Odrysius, una città della Tracia, vicino al fiume Hebrus; ma Dionisio, in Suidas, nega la sua esistenza. Il quarto Orfeo era di Crotone, fiorì al tempo di Pisistrato, intorno alla cinquantesima Olimpiade, ed è senza dubbio l’autore degli Inni insieme a Onomacrito. Scrisse i Decennalia, i δεκαετηρια e, secondo Gyraldus, le Argonautiche, che oggi si conservano sotto il nome di Orfeo, con altri scritti chiamati Orfici, ma che, secondo Cicerone, alcuni attribuiscono a Cecrope il Pitagorico. L’ultimo Orfeo fu Camarinæus, un eccellente versificatore, e lo stesso secondo Gyraldus, la cui discesa agli inferi è universalmente nota. E questo per quanto riguarda la vita di Orfeo.
Thomas Taylor: The Mystical Initiations or Hymns of Orpheus, with a preliminary Dissertation on the Life and Theology of Orpheus, London, 1787, traduzione e revisione a cura di Mystes
Per ordini: (https://www.amazon.com/dp/B0BHR8KSNY?ref_=pe_3052080_397514860)
A cura di Roberto Sestito