Tempio e Persona – seconda parte – Marco Migliorini
(prosegue…)
Nei templi del Buganda (regione africana dei Grandi Laghi), si riscontra un processo di sacralizzazione del corpo del sovrano, in particolare della mandibola. Presso i nativi nordamericani, la “danza del Sole” e la capanna, che ne costituisce il centro, fungono da elementi catalizzatori di un rapporto di analogia che lega l’intero cosmo, la terra e il cielo, gli animali e l’uomo: la danza e il rituale sacrificale riproducono un gesto cosmogonico, così come, in ambito mesoamericano precolombiano, il sacrificio umano, oltre a strutturarsi come atto costitutivo della realtà, contribuisce alla personificazione del tempio come spazio animato. Nella tradizione indiana, pur punteggiata di sfumature diverse, il mandala che descrive la pianta del tempio rappresenta anche il Purusha, l’uomo primordiale all’origine del mondo. Anche il tempio Zen, strutturato come edificio vuoto, senza un centro, come spazio in cui si materializza un’assenza, rivela una profonda consonanza e analogia con il modo in cui è concepita la persona e il cosmo: è la pienezza del vuoto, dove 0=2, dove, cioè, il vuoto non solo non coincide col nulla, ma, anzi, riassume tutti gli eventi, le forme, gli sviluppi, le potenzialità e le energie possibili, finendo per coincidere col concetto quantistico di energia del punto zero, in cui l’energia del vuoto non assume mai una dimensione nichilistica. Lo ZPE (zero point energy) diviene, in questa prospettiva, quell’omphalos e quell’axis mundi spesso visibili e chiaramente tracciati o identificabili nelle varie esperienze templari. Il caso di Göbleki Tepe, propone, retrodatandole, le domande che il tempio, come tale, pone in qualsiasi esperienza storica. Pur non essendo gli studi archeologici ancora conclusi, anche a causa della struttura del sito, non interamente recuperato, la prima ipotesi emersa è straordinaria e sconvolgente rispetto all’impostazione tradizionale: sembra che l’area sia stata prima sacralizzata e solo successivamente sottoposta ad insediamento umano e allo sfruttamento delle risorse disponibili. Ciò, se confermato dalle indagini in corso, smentirebbe un postulato ad oggi ritenuto invalicabile e, cioè, l’idea che, già in epoca preistorica o protostorica, le aree destinate all’insediamento umano fossero prima valutate per le risorse materiali (flora, fauna, clima, vie di comunicazione, accesso all’acqua) e solo dopo, ad insediamento avvenuto, sacralizzate, cioè dedicate a rinnovare, in via esclusiva per la comunità abitante, il rapporto con il macrocosmo, con le forze e le regole che lo governano. Questo aspetto combacia perfettamente con un dato sicuro sul piano storico-scientifico: la valenza sacrale, nel mondo antico, dell’atto costruttivo, rivolto ad edificare sia templi che città, in quanto destinato a ricalcare o riprodurre in terra la perfezione, l’armonia, la simmetria e l’ordine osservabile nei fenomeni celesti.
Siamo, così, in grado di arricchire il significato etimologico del tempio: come detto, dal greco témenos (infinito témnein) vuol dire ritagliare, isolare, circoscrivere, delimitare. Ma, mentre il sostantivo sembra identificare immediatamente uno spazio sacro, cioè una delimitazione che nasce e non può non nascere per ragioni sacre (già in Grecia è tempio il santuario, il terreno o il recinto dedicato alla divinità, cioè, una porzione di spazio fisico separato e consacrato, separato per poterlo consacrare e consacrato perché preventivamente separato a tal fine: è una endiadi che indica contestualità e contemporaneità di destinazione e di senso), il predicato, pur mantenendo la valenza separativa attuata in modo netto e deciso (tagliare, recidere, troncare, rompere, mozzare), aggiunge ulteriori sfumature di significato non meramente distruttive o separative. Ad esempio, è attestato come sinonimo di scavare, tagliare, aprire vie per costruire passaggi navigabili, giurare o stringere patti, fare solenne giuramento, come nel foedus ferire latino, in cui il patto o alleanza è suggellato dal sacrificio, cioè dallo spargimento del sangue animale: hoedus (da cui foedus, il trattato) è il capretto, l’animale per eccellenza destinato al sacrificio. In questa accezione, si scorge un’eco lontanissima delle Tradizione Universale, dove un atto sacrificale (spesso, autosacrificale) è all’origine della creazione, cioè, ha valore cosmogonico. Ancora, troviamo attestato il senso di attraversare, percorrere una via, con particolare riguardo alla navigazione: diviene sinonimo di solcare, fendere e attraversare il mare e le acque. Separazione, dunque, non distruttiva, ma costruttiva, sacrificale, che suggella un patto, sigilla un’alleanza e che permette il viaggio, la conoscenza, l’incontro. Torna, di nuovo, Göbleki Tepe, la sacralizzazione che precede l’utilizzo dell’area. Non conosciamo attualmente le ragioni dell’abbandono del sito, ma la sua fondazione sembra rispondere più ad una logica sacrale, di allestimento di un santuario nel senso predetto (sembra molto di più rispetto ad una semplice anfizionia greca), che ad un’analisi pratica delle possibilità di approvvigionamento offerte dal luogo. E quanto possiamo vedere delle figure scolpite, fa emergere uomini e animali in movimento, forse danzanti: chissà se vi è un’allusione ad una danza sacra o alla forma eterna del movimento, ad una sorta di Shiva di marca indoeuropea (1)? Il sito archeologico pone una domanda inattesa, ribaltando la prospettiva ordinaria: può esserci davvero vita civile e sociale senza una preventiva sacralizzazione?
La costruzione come separazione regolata ed emulativa, come presupposto per intraprendere un viaggio, per vivere con altri tempi e ritmi rispetto alla vita quotidiana corrente, trova una eco anche nel Vangelo (2), dove, in modo assai significativo, la frase di Gesù invita gli apostoli, assediati da una folla che non lascia loro nemmeno il tempo di mangiare, al riposo, ad interrompere il contatto con quel gregge senza pastore che di lì a poco sarebbe stato sfamato con il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il Vangelo, peraltro, non denota coerenza di impostazione sul punto, anche se sembrano prevalere, considerando pure gli apocrifi, gli accenti antitemplari, cioè volti a minimizzare o addirittura dissacrare, in prospettiva ebraica, la questione sulla centralità del tempio come edificio (ad esempio, si vedano Gv., 4, 21 e 23 oppure Gv., 2, 19, 21). L’adorazione in spirito e verità, possibile anche lontano dalla terra promessa e da Gerusalemme (tempio incluso), ovvero la provocazione sulla distruzione del tempio, che Gesù avrebbe poi ricostruito in tre giorni, da un lato provoca il popolo ebraico, in particolare l’élite sacerdotale, colpendo al cuore la tradizione religiosa, dall’altro recupera e implica l’identificazione tra corpo dell’uomo (rectius, il corpo del Figlio dell’Uomo) e il tempio. Il tempio di Salomone è la casa del Dio di Israele, dove fisicamente si materializza il Dio dei padri mediante la Shekinah; è l’abitazione dove risiede e dimora il Dio di Abramo, quell’Io-Sono che al contempo è stato-è-sarà. Se non è possibile ricostruire in tre giorni il tempio di pietra, è possibile per il Figlio dell’Uomo ricostruire in tre giorni il tempio del suo corpo. Affiora, di nuovo, stretta analogia, fortissima affinità tra uomo e Dio, cioè tra corpo fisico dell’uomo e tempio come casa, ossia luogo, dove fisicamente la divinità abita, vive, si struttura e si articola, proprio come l’uomo si dimensiona nelle sue membra. In ambito cristiano, la chiesa come domus Dei attesta la viva presenza fisica del Cristo nei templi con la pianta a croce: la testa nell’abside, la braccia nei transetti, le gambe corrispondenti alle navate, il cuore in coincidenza dell’altare, ove è collocata la rosa, che, come noto, dat mel apibus. Il corpo fisico di Cristo che si adagia nella struttura fisica del tempio cristiano stimola immediatamente il confronto tra quanto accade nel tempio induista per lingam e yoni: se pensiamo al rapporto tra Cristo e la Chiesa come ad un rapporto tra sposo e sposa (concetto non eretico, anzi, accolto nelle scritture e fatto proprio dalla Chiesa), ne deriva che l’atto con cui il corpo di Gesù si inserisce nella pianta a croce simboleggia l’unione fisica tra uomo e donna. Il rapporto tra Cristo e la chiesa-tempio rinnova e rilancia una relazione uomo-donna e sposo-sposa in cui la sensualità e la sessualità non si distinguono più dal misticismo, dall’estasi della fusione, dalla vertigine causata dal ritorno all’Essere e all’Uno. Ciò permette di recuperare un senso esoterico, simbolico e mistico del cristianesimo, smarrito da tempo o relegato a fenomeni marginali, quando non addirittura considerato pericoloso e combattuto: il senso della religione cristiana, sotto questo profilo, consisterebbe nella reintegrazione individuale tra maschile e femminile, con una serie di palesi conseguenze in merito al rapporto uomo-donna e di ciascuno con se stesso. E non è secondario osservare che studiosi e specialisti di architettura collegano la crisi della Chiesa o, per meglio dire, il calo di frequenza dei fedeli, all’abbandono della tradizionale struttura architettonica della pianta a croce.
Vi è da aggiungere, a conferma di quanto asserito, che una lunga tradizione, risalente al mondo classico e molto ben conosciuta dai costruttori di cattedrali e chiese romaniche e gotiche, utilizza il corpo umano per confezionare gli strumenti di misura (dita, palmo, piede, cubito, e così via), i quali, dal più piccolo al più grande, sono in costante e progressivo rapporto di proporzione aurea, cosa che Leonardo sapeva benissimo, quando, realizzando l’uomo vitruviano, arricchì e perfezionò lo schema dell’autore del de architectura. Per i costruttori delle cattedrali medievali, il tempio è il luogo in cui sorge e dimora la divina presenza; idealmente, è il cosmo perfetto, il cui cuore è l’uomo e contemporaneamente è l’uomo perfetto, nel cui cuore è collocata la presenza divina. Nell’architettura sacra, gli oggetti e le armonie del tempio terrestre simboleggiano le intelligenze e le forze presenti nel tempio celeste, riproducendone la struttura archetipica ed indicando all’uomo quali potenze e virtù egli debba acquisire.
Tutta l’architettura sacra, compresi il tempio ebraico e la moschea islamica, è costruita sul numero aureo: la Matrix, che ne è la rappresentazione, diviene lo strumento per tracciare, costruire, progettare, edificare, innalzare. La cultura religiosa ebraica è straordinariamente pragmatica e complessa al contempo. In questa sede, senza alcuna pretesa di esaustività, si possono solo accennare alcuni temi. Il tempio come casa di Jahvé; dopo la distruzione del tempio, il passaggio dal tempio al libro, mai compiuto per intero ed, anzi, strutturato volutamente in modo da garantire dialettica e connessione reciproca tra i due semantemi. Già la tenda dell’incontro tra Jahvè e Mosè (archetipo dell’Arca dell’Alleanza, misurata in cubiti, e, quindi, del tempio salomonico) è quadrata, cioè ha una matrice costruttiva con un preciso significato simbolico ed esoterico. Il cubito salomonico, espresso in gradi geometrici, indica l’inclinazione dell’orbita lunare su quella terrestre, cioè, incarna il valore legato al femminile e alla sua influenza ed energia, come femminili sono la Shekinah, la Sophia e la stessa Matrix aurea che emerge dal quadrato del Sator; nella tradizione cristiana, infine, Arca dell’Alleanza è uno dei nomi di Maria. Nel cristianesimo e nell’ebraismo, il tempio, come oggetto, come simbolo, come realtà architettonica, costruttiva e al contempo spirituale, offre un ventaglio infinito di immagini e di suggestioni. Si pensi a San Paolo (I Cor., 10, 4: Petra autem erat Christus); si pensi al cuscino di pietra di Giacobbe (Gen., 28, 10-22); si pensi alla costruzione del Tabernacolo, del tempio di Salomone e di Zorobabele; infine, alla tradizione cabalistica e all’albero della vita, dove le sephirot costituiscono un crocevia in cui la parola, le lettere dell’alfabeto, la costruzione geometrica, la simmetria, la proporzione, l’analogia tra creazione e corpo umano spalancano infiniti orizzonti di profondità vertiginosa e concreta. Nell’Islam, oltre alla già ricordata struttura delle moschee rispondente alla Matrix aurea, esiste anche la Kaaba come edifico e come tempio spirituale o del cuore, che racchiude l’idea di un pellegrinaggio sia fisico che interiore. Nelle religioni monoteiste (ma il tema pervade anche la religione tradizionale, il c.d. paganesimo e, come detto, anche le religioni orientali) il tema del tempio come casa o abitazione di Dio si associa, sia pure con sfumature diverse, al corpo dell’uomo, inteso come armonia, proporzione, simmetria, cioè commisurabilità di ogni singola parte alle altre e di tutte le parti al complesso dell’opera. L’analogia è duplice. Come ogni elemento del corpo umano è in rapporto di proporzione armonica con tutte le altre parti fisiche, così ogni elemento architettonico lo è con gli altri elementi templari. Ugualmente, come tutti gli elementi che formano il corpo umano sono proporzionati e commisurabili al corpo umano complessivamente considerato, così tutti gli elementi strutturali del tempio sono in relazione di armonia e proporzione con il tempio nella sua totalità. L’uomo è, davvero, misura di tutte le cose, non in senso sofisticamente deteriore, ma in quanto rapportato alla dimensione e vocazione sacrale di tutto ciò che lo circonda, secondo una prospettiva non solo religiosa o confessionale, ma anche vitruviana, ampiamente sviluppata, attraverso la mediazione di neopitagorismo e neoplatonismo, dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Il sacro coincide con la Tradizione Universale. La sintesi di un simile rapporto di analogia, proporzione, simmetria, commensurabilità, è costituita dalla proporzione aurea, dalla serie di Fibonacci o numero aureo. Oggi, sappiamo bene che la proporzione aurea è un criterio o fondamento costruttivo che informa di sé la materia: piante, animali, la sezione trasversale del DNA umano, la disposizione delle stelle e delle galassie nell’Universo osservabile rispondono alla logica della proporzione aurea.
E’, il tempio, il corrispettivo dell’uovo cosmico: la vita ha una genesi esclusivamente interiore, legata, anche dal punto di vista alchemico, ad un luogo oscuro, buio, lontano dalla luce e dal mondo, come erano, per rimanere alla simbologia più conosciuta, sia la mangiatoia della natività che il sepolcro della deposizione di Gesù: nella prima muore, con la nascita del bambino, il vecchio Dio, simbolo di forza e potenza, di attributi numinosi, mentre nel secondo, con la morte dell’uomo crocifisso, nasce il nuovo uomo reintegrato e rettificato. Quando è così, quando ciò avviene, allora il tempio diviene il luogo luminoso per eccellenza: il sanscrito loka, mondo, deriva dalla radice lok- (vedere, da cui l’analogia con il latino lux), mentre in latino mundus è nitore, ma anche perfezione e circolarità. Il tempio diviene, così, matrice del mondo e simbolo dello stesso, nella misura in cui consente di approdare alla luce, alla perfezione dell’eterno ritorno. In detta prospettiva, fondamentale e centrale è, in ogni esperienza templare, il rito: rita, dal sanscrito rtu-, è la conformità all’ordine immutabile, la circolarità eterna e senza posa della ruota che gira e si ripresenta, è l’uroboro temporale. Il tempio assolve alla sua funzione se il rito che in esso si celebra approda al mundus, cioè se permette di vedere, se rischiara e, di conseguenza, consente un viaggio il cui scopo finale è l’autofecondazione.
La ritualità templare è, in sintesi, diretta a recuperare l’originaria unità perduta dentro se stessi, la primigenia natura del REBIS, allusiva ad una eterna, costante, dinamica e attiva sacralizzazione della persona: è destinata alla autofecondazione, giusto il motto alchemico: ” Nessuno può essere fecondato se non da se stesso”. Cielo, civitas, tempio e individuo sono così accomunati dalla metafora analogica, emulativa, costruttiva, nostalgica (nel senso del nòstos greco: lo spazio e il rito consentono il viaggio, che è anzitutto ritorno a se stessi, non privo di pericoli, come ci rammentano Dante, Ulisse, Ercole, Enea e Gilgamesh, il messia-mesh- che ritorna ciclicamente-gilgl o gilgul, con forte carica onomatopeica- nella storia), creativa, in una dimensione contemporaneamente eterna, immutabile eppure sempre rinnovata. Lo spazio, il rito e il tempo modulano l’attività liturgica (divisione dello spazio celeste e terrestre), l’atto costruttivo (innalzamento del tempio e costruzione della civitas) e l’azione ritualizzata (il complesso di gesti, canti, parole, movimenti, apparati esteriori come l’abbigliamento, silenzi e simboli che connotano il rito nello spazio sacro).
Diviene così cruciale delineare il rapporto tra rito e tempo. Rinviando sul tema ad una pubblicazione congiunta con l’amica Costanza Bondi (3), mi limito in questa sede all’essenziale. Nel tempio, il rito si struttura attraverso il tempo sacro. Rito e tempo sono, nel tempio, circolari, eterni e ciclici: modellato sull’uroboro temporale, il rito si ripete, sempre nuovo e contemporaneamente uguale a se stesso e il tempo trascorre senza consumarsi. La necessità universale di praticare costantemente e con precisione il rituale nello spazio sacro non serve solo alla creazione di uno spirito identitario e comunitario tra officiante e partecipanti, a rinsaldare una comunità, a costruire codici comportamentali e valori da condividere, ricordare e tramandare, a rimarcare la frattura col mondo pro-fano; prima ancora, il rito serve alla riattualizzazione costante del tempo sacro. Ecco perché non ci si può bagnare per due volte nello stesso fiume, per dirla con il filosofo: chi si inserisce consapevolmente, attraverso il rito, nella ricapitolazione infinita, nel ciclo eterno, rende nuove tutte le cose, che contemporaneamente restano uguali a se stesse. E cosa è, in fondo, il miracolo della natura, se non un rinnovamento sempre uguale a se stesso? Il tempo lineare (successione ordinata e organizzata di stati in movimento vettoriale) diviene, grazie alla ritualità templare, tempo circolare, nel quale l’uomo gode del privilegio di passare dal tempo profano, storico e lineare, all’eterno presente, renitegrato e inverato attraverso il rito officiato nello spazio sacro. Dalla retta (tempo profano irreversibile e consumabile) si passa, mediante il rito nel tempio, al cerchio (tempo eterno riproducibile, sempre nuovo e sempre uguale a se stesso): in questo modo, il tempo primordiale diviene immanente e consente all’uomo di partecipare al tempo sacro, di tuffarsi, mediante il rito, in un frammento di eternità attualizzata, grazie all’accesso ad una dimensione temporale, che, ritualizzata e sacralizzata, trascorre senza consumarsi, non varia pur rinnovandosi, non si esaurisce perché perennemente autentica e ontologicamente vergine. Come dice l’amica Costanza Bondi, la riattualizzazione attraverso la ritualizzazione è lo scopo del calendario sacro: aggiungo solo che il tempo storico e lo spazio profano non cedono il passo, ma si inverano nel tempo sacro, si esaltano nell’eterno presente, si avvicinano alla dimensione dell’eternità, si inseriscono magicamente nell’Essere, di cui svelano l’eternità, l’impermanenza e l’imperitura attualità. Non vi è alcuna contraddizione tra il tempo profano e quello sacro. Esistono entrambi, come esistono contemporaneamente i due stati della luce (luce ondulatoria e corpuscolare). Non vi è insanabile contrasto, come non vi è tra il concetto quantistico di spazio e tempo e ciò che emerge dalla nostra esperienza sensoriale comune. In entrambi i casi (la fisica quantistica e la Tradizone), abbiamo ‘solo’ bisogno di occhi nuovi con cui guardare il mondo, di un nuovo modo di pensare (non più cose, ma relazioni e interazioni) e conseguentemente di esprimerci sul piano linguistico.
Chiudo con un’ultima osservazione sulla persona, di cui è ben nota l’etimologia (persona è maschera in latino). Il lemma allude alla necessità di mascherarsi, anzitutto, per godere della libertà offerta dalla rappresentazione scenica e teatrale: anticamente, la persona è anzitutto la maschera teatrale. La persona consacra la libertà di fingere, o, meglio ancora, la libertà, garantita dal personaggio, di sottrarsi al gioco e alla dinamica della vita reale, per immergersi, attraverso la fictio, nel ruolo, di cui sfruttare tutte le possibilità, ampiamente testimoniate già dal teatro greco-romano: dire la verità, bersagliare i potenti, irridere i costumi, i vizi, le debolezze, le meschinità e le piccolezze umane. La persona, impiegando la fictio, si solleva rispetto al piano ordinario delle convenzioni, dei rapporti familiari, delle gerarchie sociali, cioè, di nuovo, si eleva e si innalza per ottenere una prospettiva più ampia e godere di un orizzonte più vasto (4). Così, acquista uno status, uno spazio supplementare di indipendenza, che consente di provare a giungere alla verità senza compromessi e condizionamenti, dai quali la rappresentazione mette in salvo e permette di fuggire. Per poter essere liberi, per iniziare il cammino verso la verità, è necessario mascherarsi e ciò è esattamente l’ulteriore prospettiva offerta dal tempio, nel quale l’edificio con i suoi significati allegorici ed analogici, lo spazio riservato e sacralizzato, le nozioni di tempo, luogo e spazio, l’insieme di riti, linguaggi e codici culturali, permettono di oltrepassare la normalità; la maschera, cioè la necessità di indossare letteralmente abiti diversi per lasciare alle spalle il peso della quotidianità, il fardello della normalità, la gabbia delle convenzioni sociali, è ulteriore elemento imprescindibile per l’instaurazione della dialettica legata al viaggio e alla conoscenza. La maschera, in definitiva, è quella che siamo costretti ad indossare ogni giorno a causa dei rapporti sociali, che ci obbligano a recitare davvero uno o più ruoli nel mondo pro-fano, cioè il mondo che sta fuori dal tempio. Solo la persona-maschera è autenticamente essere umano. La metafora del tempio ci interroga. Quando indossiamo davvero la maschera? Quando tentiamo di inserirci, secondo la logica del tempio, nel tempo sacro, inconsumabile, eternamente presente ovvero quando siamo chiamati alla nostra quotidianità, dove siamo costretti dalle convenzioni e dagli schemi a recitare un ruolo lavorativo, sociale e familiare? Quando recitiamo e quando siamo davvero noi stessi? E’ davvero possibile viaggiare per cambiare? O restiamo, in fondo, sempre uguali a noi stessi? E’ possibile il viaggio o anche il viaggio altro non è che una ricapitolazione, un ritorno al punto di partenza?
Nell’Anfitrione di Plauto, si legge la nota affermazione di Sosia (davvero, niente è per caso): ”Quis sum ego saltem si non sum persona?”. Gurdjeff suggerisce: “Mai mentire, recita un ruolo. Sii qualcos’altro rispetto a ciò che hai l’abitudine di essere. Scopri ciò che non sei e saprai ciò che tu sei. Anche Dio recita ruoli. Recitare una parte insegna la sincerità e provoca un cambiamento negli atteggiamenti”. Solo nel tempo e nello spazio sacralizzato del tempio, la persona-maschera può eternamente compiere un viaggio autentico, iniziatico e finalisticamente orientato grazie ai simboli e al rito: verso se stessa, verso gli altri, verso la verità. Il tempio è, dunque, davvero all’origine della civiltà; il tempio è, dunque, davvero capace di rinviarci, come in uno specchio, la vera immagine di noi stessi. L’idea e l’utilizzo del tempio, del rito e dello spazio sacro, oltre a dirci chi siamo, annuncia chi vogliamo essere: svolge, in conclusione, una funzione profetica, predittiva e anticipatrice del futuro.
Note:
1 – Si veda, sul punto, M. SCHNEIDER, La musica primitiva, Milano 1992, dove si dimostra in modo mirabile che, nella Tradizione Universale, la cosmogonia equivale al canto come forma di movimento: gli Dei sono canti, cioè movimenti permeati di simmetria, armonia, proporzione e rapporti di analogia tra le grandezze che compongono la musica o le figure che costruiscono la danza;
2 – Mc. 6, 31: “Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’ ”;
3 – C.BONDI-M.MIGLIORINI, Tempo profano e tempo sacro: dalla retta al cerchio, in Fenix n.140/2020;
4 – Non a caso, il diritto romano conosce la fictio iuris civilis, con cui l’attore invita il giudice a condannare (o ad assolvere) il convenuto, dando per scontata e come avvenuta l’esistenza di un requisito previsto dal ius civile, in realtà assente. Si considera, dunque, o, meglio, si autorizza il giudice, nella decisione, a considerare avvenuto un fatto non accaduto (ovvero, al contrario, non avvenuto un evento compiutosi): lo scopo è l’estensione della disciplina di una fattispecie giuridica civilistica, nota e disciplinata, ad una fattispecie analoga, carente di un requisito di integrazione della fattispecie civilistica, ovvero la tutela di una fattispecie civilistica nonostante il verificarsi di un fatto estinitivo rilevante per il ius civile. Anche il diritto, disciplina pragmatica per eccellenza, sente il bisogno e la necessità di sollevarsi rispetto al livello normale degli accadimenti, di porre a fondamento della decisione un evento situato su un piano ‘altro’ rispetto a quello offerto dalla ordinaria percezione del reale. Il diritto fa un ‘salto quantico’ per approdare alla definizione di un problema, alla risoluzione e disciplina di un caso concreto.
Marco Migliorini,
professore di Storia del Diritto Romano (Corso di Laurea di Giurisprudenza) e Storia Romana (Corso di Laurea in Scienze del Turismo) presso l’Università degli Studi dell’Insubria, sede di Como, dove in passato ha insegnato Diritto Greco Antico, Esegesi delle Fonti del Diritto Romano e tenuto seminari ed esercitazioni in Istituzioni di Diritto Romano.