Sull’Heimat appenninica di Gian Luca Diamanti – Giovanni Sessa
Mi scusi il lettore, ma per una volta inizio con una nota biografica. Sono nato in Lombardia. Trasferitomi da bambino in Ciociaria, più precisamente ad Alatri dove giunsi la sera del 23 dicembre 1962, sceso dall’automobile fui immediatamente attratto dal lucore delle nevi dei Monti Ernici che, con le stelle, parevano illuminare l’oscurità dell’imminente notte invernale. Da allora sono diventato assiduo frequentatore dei sentieri appenninici, ne ho subito, prepotentemente, la fascinazione. Dopo aver letto il bel libro di Gian Luca Diamanti, Una patria in salita. Dèi e meraviglie in Appennino, nelle librerie per Rudis Edizioni (per ordini: rudisedizioni@gmail.com, pp. 234, euro 17,00), credo di poter sostenere, pur non conoscendo di persona l’autore, di aver trovato in lui un adelphos, un gemello spirituale, in forza della profonda sintonia tra la sua visione dell’Appennino “interiore” e la mia.
Con Ovidio, infatti, l’autore esclama: «numen inest, qui abita un dio» (p. 34). L’Appennino di Diamanti, prima che luogo dello spazio, spina dorsale orografica italiana, è ierofania, manifestazione del sacro, abito metamorfico meravigliante, abbagliante ma anche terrifico del divino. Merito dello scrittore è quello di condurci, con notevole abilità scrittoria, con prosa lieve, dinamica e appassionata, a ri-scoprire, heideggerianamente, i “sentieri interrotti” di queste montagne. Industrializzazione e globalizzazione hanno creato nell’Appennino interno, a muovere dagli anni Sessanta, il vuoto demografico, determinando lo spopolamento dei paesi e dei borghi, senza riuscire però a intaccare l’anima profonda di questi luoghi: essa palpita e riecheggia anche in chi, allora, è stato costretto a scendere a valle. La prosa di Diamanti corrisponde al passo dei “vagabondi” che, lentamente e con rispetto, si inoltrano nei boschi di querce o di faggi secolari, ma trascrive altresì la voce di queste montagne, della tramontana che bacia impetuosa d’inverno il viso del camminatore, tempestandolo di aghi di ghiaccio o che fa stormire dolcemente, in primavera, le foglie degli alberi. L’autore sceglie per sé e il lettore, due guide d’eccezione. Ulisse ed Enea: «Di Ulisse prendiamo la voglia di tornare, la nostalgia di Itaca [….] tutti i sentieri […] riconducono da dove sei partito […] Di Enea onoriamo la scelta di lasciare la casa in fiamme, ma di portarne in sé la memoria» (p. 19). La memoria delle transumanze dei pastori, delle lunghe permanenze nelle selve antiche dei carbonai, delle musiche e dei dialetti mai tacitati del tutto in cui ri-suona l’origine, come nelle tarante e nei salterelli.
Andare per Appennino è pacificarsi con la Civiltà dei Padri e con quella delle Madri, con Saturno, Giano, Giove e Marte, ma anche con Cerere, Bona Dea, Diana, Sibilla, per non dire delle loro incarnazioni, le silenziose madri appenniniche, instancabili e affettuose custodi della prole o di quei padri che, con il duro lavoro contadino-pastorale, hanno tramandato il valore della Tradizione, rendendoci uomini: «Il fuoco del culto familiare era quello acceso in ogni casa, ravvivato dal pater familias, custodito dalla consorte» (p. 21). Un Appennino, quello di cui si dice in queste pagine: «scrigno di roccia, di foreste e di fiumi, percorso e seminato dai popoli all’alba della storia: terra di aborigeni, di visitatori e d’invasori, terra d’incontro e di scontro […] di meraviglia e d’idee» (p. 17). Nel suo vagabondare, Diamanti ci permette di rintracciare i “segnavia” dell’antica civiltà italica, ponendoci a confronto con gli dèi indigetes, gli dèi dei luoghi e le tracce che, nel tempo, hanno lasciato sule montagne. Secondo Varrone gli originari Italici veneravano 30.000 dèi. Per questo, vero protagonista del racconto è il genius loci appenninico. Il primo insegnamento, che il suo ridestato contatto induce in chi sappia ascoltarlo, è la ri-scoperta del limite. Lo si sperimenta di fronte all’infinito che anima, dall’interno, l’Appennino. L’Io è zittito, tacitato, nel confronto con Pan, dio aleggiante sulle forme naturali: esso rivela l’insignificanza della dicotomia soggetto-oggetto e la pienezza dell’essere.
L’autore tratteggia, con pertinenza argomentativa, la “geografia sacra”di queste montagne. Così: «L’Appennino trasmuta […] da terra interna a terra interiore […] della ricerca, del dialogo con il metafisico» (p. 28). Diamanti prende per mano il lettore conducendolo su vette dove sono visibili tracce di templi o resti sacri dei popoli d’Appennino: Umbri, Piceni, Sabini, Sanniti, Irpini. Giunge ad Agnone, città di una tavola degli dèi non dissimile da quella di Gubbio: «La tavola di Agnone ci racconta di Cerere e delle feste primaverili, i Floralia, intorno all’altare del fuoco» (p. 37). Ci fa visitare il tempio di Ercole Curino, sopra Sulmona, e ci sospinge lungo le pendici della Maiella, montagna consacrata alla Ninfa Maia: «Alla fine i vostri piedi su questi sentieri, son quelli dei vostri antenati» (p. 39). Racconta, inoltre, del monte Soratte, dove regnava Apollo Sorano, la cui paredra era Feronia, il cui culto si celebrava a Capena nel Locus Feroniae, ma anche a Terracina e a Roma. Di contro, sui monti Martani, sono visibili i resti di un tempio italico a 1120 metri d’altezza, dedicato a Marte. I monti della Sabina, erano cari a Vacuna che: «rappresentava lo spirito femminile della fertilità e della natura» (p. 45). La physis per i Greci e Romani era scaturigine, luogo della vacuitas, della esenzione dai tormenti. Chi sia in grado di ascoltarne l’eco, vive in pienezza la ierofania della natura. All’inizio della rinascenza primaverile, in terra d’Appennino aveva luogo il Ver sacrum: «I giovani sacrati a Marte erano preceduti da un animale totemico: il primo fu il Picus, il Picchio verde, che guidò i Sabini verso […] il Piceno» (p. 51). E così via in un interminabile excursus nel quale lo scrittore ci costringe a confrontarci con luoghi, culti e con autori, antichi e moderni, di grande rilevanza.
Una patria in salita è libro che vivamente consigliamo. Nelle sue pagine viene proposta, sulla scorta di Daumal ed Evola, una via realizzativa alla montagna aperta al futuro, come si evince dalle conclusioni. Si tratta di un volume animato da un auspicio esistenziale. Camminare in Appennino rende fratelli di briganti, pastori e contadini ma soprattutto: «di chi immagina queste montagne quale luogo da ri-abitare e le considera come terra che ci potrà sfamare […] e riempire di nuovo l’anima, che ci potrà lavare lo spirito, che ci fa intravedere un altro futuro» (p. 223). Un ritorno all’Heimat appenninica davvero condivisibile in toto.
Giovanni Sessa