Sulla pre-supposta eternità degli affetti – Simone Santamato
A Stella, mia
Certamente non è segreto il fatto che nei confronti di un certo testo possa, l’autore, avere maggiore affettività, maggiore riconoscenza, passione, risonanza; non è poco comune come una produzione musicale possa essere per il musicista occasione di catarsi, di pulizia d’animo. Non è, generalizzando il ragionamento, quindi, impossibile che, nei confronti del prodotto di un moto dell’animo — possa essere questo dettato dalla curiosità, dall’amore, o dalla disperazione, dall’angoscia —, il produttore possa, anche nell’apparente caducità del nascente, covare una forma di grande affettività poi insita nella cosa stessa prodotta. Non faremo, perciò, certamente passare per inosservato il fatto che questo che stiamo presentandovi sia importante per colui che ne scrive. Il ragionamento che trarremo dal tasto facente da scorta per la nostra riflessione è fonte di un fortissimo coinvolgimento intimo, passionale, erotico, sensuale: la logica che fa da sfondo ed al contempo da base, pertanto, è una che strizza l’occhio ad un repentino movimento spasmodico dell’animo che tenta forte, fortissimo, di abbracciare nel modo più elegante — ma non per questo poco stretto e sicuro, quanto sente di avere necessità di esprimere; la raffinatezza veniente dalle necessità più personali dell’animo di ognuno è sempre quella che fa capo alla più interiore essenza dei singoli: se la singolarità si esprime nelle sue più disparate possibilità auto-determinative, tutto quanto sente l’animo nei suoi meandri più profondi è sintomo della più aulica delle sensazioni riguardanti l’espressione individuale. E non vediamo per quale motivazione non starla a sentire, non farci infatuare da essa — non farci omericamente invasare da questa nelle sue tanto gentili capacità d’ispirazione.
Per quanto questa introduzione possa sembrare orientata romanticamente nel senso più sentimentale, il testo che proponiamo come lettura, seppure sicuramente esprimente un’insaziabile pressione delle passioni ad uscire, ha, come orizzonte, un fortissimo dolore, una fortissima angoscia, un’abissale sensazione di imbuto che, partendo dalla testa — dalla mente, finisce fittamente, strettissimamente ed asfissiantemente per ingoiare l’interezza dell’interiorità dell’individuo, sfociando nello stomaco; lì, dove tutte le sensazioni si fanno “di pancia”, si fanno pulite dalle intossicazioni razionali — laddove (e se) possibile. “Diario di un Dolore”, infatti, pubblicato negli anni ’60 (1961) da C.S. Lewis — famoso per i racconti d’infanzia “Le Cronache di Narnia”, ma al contempo accademico e soprattutto medioevalista di ammirabile rispetto —, è un testo le cui parole ed i cui concetti risuonano in sé stessi con l’accompagnamento di una sinfonia andante a ritmo dapprima tenue, poi calzante; bilanciandosi attraverso una placida quiete, riprendendosi poi impetuosamente con motivetti forti. La dinamica della salita e della ridiscesa ripide, rapide e repentine, infatti, è — credo — decisamente confacentesi al senso del dolore: esso è sonoro, in un certo qual senso musicale, coinvolgente le proprietà intellettive e sensitive del corpo a tutto tondo e, per questo, percepito come alto, meduseo, distaccato, assoluto; eppure, è al contempo tutto radicato nei più imperscrutabili (e per questo inesplorati) meandri dell’individualità di ognuno: un grido sordo veniente da dentro ma risaltante sia partire dalla percezione negativa dell’intera costituzione; un inaridimento secco che, come risultante, dà una carestia d’animo — un incenerimento del senso delle passioni e per riflesso del mondo. Diario di un Dolore è un intenso e cavernoso — forse anche inconscio — viaggio nelle viscere più sinistre della psiche di un uomo, l’autore, che tenta di superare — giustificandoselo — il Dolore, appunto, della morte dell’amata[1]: dapprima pubblicato attraverso uno pseudonimo, il testo si configura come una serie di confusi pensieri[2] i quali, seppure legati da un filo conduttore alle volte evidente alle altre più sottile, tentano di esprimere il disordine che governa i pensieri di chi, avendo perso chi la sua esistenza la sostanziava, tenta, di quest’ultima, della sua esistenza, un riposizionamento autentico, sensato, coerente. Al contempo, non è l’«andare-avanti» quanto viene ricercato: bensì, tutt’altro, l’«andare-indietro» o, meglio, il tentativo — da subito consapevolmente ritenuto velleitario — di riportare quanto è stato, in quanto è — e soprattutto sarà. Quanto più squassa e dilania con orrore l’animo, pertanto, è intuibilmente la tremenda certezza dell’aver-lasciato-andare quel qualcosa che, dapprima, si dava per scontato come permanentemente-presente, e che, poi, si è invece rivelato — come tutte le cose — transeunte e diveniente, corruttibile e cangiabile; vivente, ma poi, di necessità, morente.
Acutamente, già Seneca, nel “De Brevitate Vitae”, ma anche nelle “Epistulae moralesa d Lucilium”, sottolinea il fatto che, da un punto di vista meramente esistenziale, il tempo sia una variabile dall’uomo considerata sempre in modo poco intelligente: “Tamquam semper victuri vivitis, numquam vobis fragilitas vestra succurrit, non observatis[…]”[3];si vive «inautenticamente» con la percezione temporale per cui si debba esistere senza fine, senza morte, senza tempo. Invece, per quanto si tenti di esorcizzare ed ostracizzare la questione, quest’ultimo, infine, viene a chiederci il conto di tutto quanto ci ha gentilmente concesso, fortunatamente elargito; vivere «autenticamente» era prerogativa decisionale ed esistenziale dell’umano, non certamente di che ne dà l’ipotetica condizione di possibilità. Viviamo — contestualizzando — i nostri affetti più sicuri attraverso la consapevolezza insensata per cui debbano permanere indefinitamente — anzi, infinitamente —, non rendendoci conto di come siamo sempre tendenti ad un’inoppugnabile fine, ad una catastrofica — poiché inevitabile —, ma più lieta, se compresa ed accettata, conclusione. E quando se ne vanno, questi affetti, per quanto potesse essere stato previsto che andassero via, il vuoto che lasciano, per quanto potessimo prepararci attraverso processi di legittimazione dell’accadimento venturo, è insanabile e, struggente nel suo posizionamento orgoglioso, aspro, sicuro e possente, lascia l’amara presenza di quanto c’era e, disperatamente, non ci sarà più.
Ed è l’assoluta percezione maledettamente vigile per cui quanto c’era non c’è più, a rifinire la scelta delle parole con le quali Lewis compone questo suo processo letterario del quale fine è tentare una terapia dell’animo (ma vorrei dire: quale opera letteraria o filosofica che sia, non ha questo come fine?): “La sua assenza[…] non è localizzata. […]La sua assenza è come il cielo: si stende sopra ogni cosa.” (C.S. Lewis, Diario di un Dolore, Adelphi, Milano, 1990, pp. 17-18); l’assenza qui descritta da Lewis, incredibilmente, ha maggiormente i toni di una presenza: come potrebbe mai un’assenza estendersi “sopra ogni cosa”, come fosse cielo? È un’assenza dannatamente pervasiva, incredibilmente persistente ed impudicamente presente, questa: il tono col quale si presenta è svergognato e tronfio, istrionico, potente e selvaggio, sfrontato, superbo e borioso, regale, ostentativo — è un’assenza che si fonda essendo presente (perché quanto quell’assenza esprime, in realtà, è proprio quello-che-manca il quale, per il fatto di mancare, rende quell’assenza un’«assenza-di»). Sono suggestioni particolarmente heideggeriane, queste — senza alcun dubbio: l’essere heideggeriano si comprendeva, di fatti, attraverso la sua assenza, nella misura in cui, ivi, si trova il cospetto di quanto è tolto (nel caso heideggeriano, il tolto sarebbe l’essere); nel senso, poi, esistenzialista, il ragionamento heideggeriano assume i tratti per cui, la «vita autentica», sarà quella la quale fonderà la sua verità nel suo comprender-si-per-la-morte[4].
In questo modo, l’esistenza di colui (o colei, in questo caso) che è «venuto-a-mancare» sarà perennemente percepita come presente — anche se colui (o colei) che manca è onticamente non-più-presente: così, il momento della morte non viene aborrito e negativamente definito, anzi, diventa parte di un’esperienza genuinamente totalizzante — quale quella amorosa —, che, anziché chiudere a cerchio quanto è stato e mai più potrà essere, apre un ventaglio di possibilità le quali, seppure certamente non regalanti quella stessa letizia dapprima esperita, restituiscono una placida ed amena quiescenza d’animo che riappacifica il dolore dell’assenza con l’armonia del ciclo della vita. Non a caso, infatti, nelle fasi finali di questo disperato soliloquio che ricerca in sé stesso la sua armonia, Lewis perviene alla conclusione per cui “[…]la perdita della persona amata non è il troncamento dell’amore coniugale, bensì una delle sue fasi normali, come la luna di miele. Quello che vogliamo è vivere bene e fedelmente il nostro matrimonio anche in questa fase. Se fa male (come inevitabile), accettiamo la sofferenza come sua parte necessaria” (ivi, p. 63). È lapalissiano come, sullo sfondo lewisiano, ci sia una fortissima ebbrezza cristiana (l’autore, infatti, era apertamente credente, e la figura di Dio è pervasiva nel testo) — il matrimonio, per cui, viene visto non tanto come patto intercorrente tra due individui che decidono di condividere l’esistenza e le sue sfaccettature, bensì come forma di sacramento del quale la morte di uno dei due coniugi è una fase congenitamente contemplata —, eppure, anche sotto un’ottica laica, la logicità sostanziante la conclusione è coerente rispetto alle posizioni prima enucleate: la morte è un momento «necessario» della vita, e, di questa, non è la conclusione che per chi ne viene direttamente colpito, ed è, per chi la esperisce consapevolmente standone-fuori (in una forma, quindi, direttamente indiretta), un territorio di possibilità esteso che s’armonizza melodicamente con il concetto stesso di Vita.
L’accettazione stessa della vita, pertanto, diviene accettazione della morte: accettazione della temporalità insita nel concetto stesso di venire-al-mondo — diventa comprensione di quanto ci viene affidato (il poter-essere-vivi, che sia da Dio, o da chi per Lui) nella sua forma più autentica la quale in quanto tale è consapevolezza massima del fatto che la vita sta nella morte tanto quanto la morte nella vita. È un punto di massima convergenza logica ed ontologica che, chi ne soffre — il vivente, non potrà che vedere sempre e solo come un dissidio, una frattura inguaribile, una rottura per la quale non esiste nessun collante che riassesti lo strappo: la vita porta con sé lo spettro della morte, e la morte, nel senso più sano intendibile, porta con sé quello della vita. Reputiamo, proprio alla luce di queste considerazioni, la traduzione della titolazione originale in Italiano, infatti, ben poco felice: “Diario di un Dolore”, avrebbe dovuto, si pensa, coerentemente tradurre il ben più poetico e sofisticato “A Grief Observed”, letteralmente: “Un’afflizione Osservata”; l’osservazione, infatti, è quanto porta alla luce il senso del dolore stesso, il senso dell’assenza evocantesi in modo assolutamente onnipresente in tutte le fasi che accompagnano la digestione del cordoglio angoscioso di qualcuno al quale viene tolto l’oggetto del suo amore più incondizionato.
L’aspirazione più alta alla quale può ambire il sofferente di pene tanto profonde e perniciose è, pertanto, l’accettazione: il dolore va combattuto con le armi della comprensione e del rispetto di quest’ultimo; l’osservazione che Lewis intende intitolando le sue note è sorprendentemente precisa: il distacco, la distanza necessaria all’oggettivazione della cosa (del Dolore, in questo caso), ne permette una sua fruizione conoscitiva efficace la quale, al contempo, rende possibile una contemplazione rispettosa del momento della sofferenza — ed il momento di patimento è sempre momento di grande rispetto ed ossequio. Osserviamo, pertanto, il Dolore, diamogli un senso e lasciamolo lì essere senza che nei suoi confronti debbano farsi — inutili — prove di forza a chi riesce prima a sopraffare l’altro: se varie sono le occasioni di conoscenza e consapevolezza, il Dolore, con tutti i suoi maledettissimi patemi d’animo, ne è sicuramente una delle sue più massime espressioni.
Note:
1 – Nel testo, nominata sotto le mentite spoglie di “H.” — iniziale tra l’altro non direttamente inerente il nome della sua vera moglie (la quale, infatti, si chiamava Joy Davidman);
2 – Seppure attraverso delle tecniche letterarie differenti — i pensieri di Lewis sono coerenti nel loro essere slegati —, la sensazione trasudante dall’intero testo è molto vicina allo Stream of Consciousness joyceiano: riportare i pensieri così come vengono, così come si crede che, linguisticamente, possano essere espressi, mantenendo, però, non un ordine necessitato dalla sintassi, ma dalla modalità di pensare stessa. Se volessimo esprimere la differenza attraverso l’ausilio di immagini, se Lewis fa uso di pensieri paralleli i quali mantengono, in-sé, una certa coerenza, Joyce, invece, rapprende i pensieri più disparati e contraddittori, e li attorciglia contortamente e disordinatamente tra loro tanto da formare un gomitolo del quale si fa fatica a separarne le parti che lo costituiscono;
3 – Trad. it. a cura di Alfonso Traina: “Vivete come destinati a vivere sempre, mai vi viene in mente la vostra precarietà[…]” (De Brevitate Vitae, III, 4 — Fabbri, Milano, 1994/2000, pp. 46-47);
4 – Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano, 1971, p. 289.
Simone Santamato