Sul nodo di Gordio: brevi note – Giovanni Damiano
Prima di entrare direttamente in argomento, credo sia necessario contestualizzare un minimo l’opera di cui mi sto occupando, e cioè La struttura storica dell’attuale contrapposizione planetaria tra Oriente e Occidente. Note sullo scritto di Ernst Jünger, Il nodo di Gordio, che è appunto la risposta di Carl Schmitt, risalente al 1955, al testo jüngeriano Il nodo di Gordio, edito invece nel 1953 (entrambi gli scritti, originariamente usciti per il Mulino nel 1987, sono stati ripubblicati da Adelphi nel 2023).
Questo testo di Schmitt s’inserisce in quella che è stata definita la fase ‘internazionalista’ del suo percorso intellettuale, e che vede nel Nomos della terra (pubblicato nel 1950) l’indiscusso capolavoro. Ma questa fase s’intreccia a mio parere in modo strettissimo con quella del cosiddetto pensiero dell’ordinamento concreto, al quale Schmitt allude già nella Premessa, datata novembre 1933, alla seconda edizione di Teologia politica, per poi svilupparlo compiutamente nel testo del ’34 I tre tipi di scienza giuridica, nelle cui pagine, commentando il celebre detto di Pindaro sul nomos basileus, Schmitt scrive che il nomos significa “diritto, che è tanto norma, quanto decisione, quanto, soprattutto, ordinamento” (p. 11), e ancora che il nomos andrebbe inteso come “concreto ordinamento di vita e di comunità” (p. 12). D’altronde, che il nomos sia ordinamento concreto lo certifica fondamentalmente anche il suo essere qualcosa di spazialmente concreto e determinato (nomos come insieme di Ordnung, appunto ordinamento, e Ortung, vale a dire localizzazione/radicamento), ossia qualcosa che ha un suo luogo specifico, al contrario dello spazio inteso universalisticamente, cioè liscio, neutro, indifferenziato.
Ciò nonostante, anche il decisionismo non è privo di collegamenti con il pensiero dell’ordinamento concreto, già a partire dalla considerazione che il nodo di Gordio rappresenta quasi il paradigma, il modello stesso del momento della decisione, anche se Schmitt ricorda, proprio nella sua replica a Jünger, come il nodo possa essere tanto reciso in modo netto con un colpo di spada, quanto sciolto lentamente, con pazienza. Ma, più in generale, andando alle pagine del Nomos della terra, ci si avvede che l’atto posto da Schmitt a fondamento dell’intero processo di sviluppo del nomos, vale a dire l’appropriazione di terra, ha una sua componente decisionista, vista l’enfasi con cui Schmitt insiste sul taglio, senza il quale non c’è appropriazione, e sull’istituzione di confini che delimitano un dentro e un fuori. Nondimeno, è evidente che a decidere non sia più un sovrano, e che la stessa decisione sia condizionata da una fatticità del dato spaziale che smentisce il nulla antecedente la decisione, per cui il momento decisionista perde la sua caratteristica di attimo puntuale, per ‘annegare’ in uno sviluppo ordinamentale che, di conseguenza, non coincide più, tout court, con l’atto decidente. In breve, ci si trova di fronte a una decisione in qualche modo dimidiata e condizionata appunto dal pensiero dell’istituzione, dell’ordinamento.
(Ernst Jünger)
Per chiudere queste brevi osservazioni introduttive, va detto che la risposta a Jünger s’inserisce nel momento a mio parere più maturo e compiuto della fase internazionalista, nel senso che i primi lavori di questa fase, risalenti al finire degli anni Trenta, sono indubbiamente attraversati da ragioni contingenti, non essendo privi di una lettura ideologicamente motivata, anche se ovviamente ciò non significa fare di Schmitt l’ideologo dell’espansionismo hitleriano, cosa che fra l’altro gli venne imputata nel secondo dopoguerra dalla giustizia alleata. Anzi, se si legge il volume Risposte a Norimberga, incentrato proprio sulle accuse mosse a Schmitt di aver partecipato alla pianificazione della guerra ‘di aggressione’, nelle sue risposte lo stesso Schmitt insisterà sulla fondamentale differenza che passava tra la sua dottrina del Grossraum e quella, biologico-darwinista, dello spazio vitale. Per quanto riguarda poi una veloce ricapitolazione dei lavori di Schmitt attinenti a questa fase, ci sono i testi che chiudono la silloge schmittiana del 1940, Posizioni e concetti, così come il fondamentale lavoro sull’ordinamento dei grandi spazi e sul concetto di Reich, apparso in una prima versione nel 1939 e poi in edizione definitiva e accresciuta nel 1941, o ancora una serie di scritti usciti nel biennio 1942/1943 come Terra e mare, Acceleratori involontari e Mutamento di struttura del diritto internazionale. Nel secondo dopoguerra, accanto al Nomos della terra e a un altro importante gruppo di scritti tutti compresi nella silloge Stato, grande spazio, nomos, pubblicata dall’Adelphi nel 2015, bisogna ricordare appunto la replica a Jünger, e poi almeno L’ordinamento del mondo dopo la Seconda guerra mondiale, che risale al 1962, e Teoria del partigiano che è del 1963.
Passando ora alla risposta di Schmitt al Nodo di Gordio jüngeriano, ne esaminerò, ovviamente in maniera assai sommaria, tre punti, quelli cioè delle iconografie regionali, del pensare non per polarità come Jünger, ma servendosi di immagini storico-concrete che danno vita a una peculiare dialettica storica, a mio parere pensata in termini non hegeliani, e infine quello della tecnica che finisce per inglobare anche il discorso riguardante la contrapposizione (non la polarità) tra terra e mare.
1) Il concetto di iconografia regionale viene costruito grazie al concorso di “memorie storiche, saghe, miti e leggende, simboli e tabù, cenni e segnali del sentimento, del pensiero e del linguaggio” con in più, fattore assolutamente determinante, il suo essere “riconosciuta nella sua peculiare spazialità geografica” che la fa così apparire “localizzata e storicamente concreta”. Quindi, dopo il passaggio dallo Stato al Reich (che però era völkisch, non universalistico) annunciato nello scritto sui grandi spazi del ’39, a testimonianza del suo pensiero storico, quindi sempre in movimento, mai fossilizzato sulle medesime formule, a quest’altezza di tempo si potrebbe parlare di un passaggio dai grandi spazi alle iconografie regionali, anche se su uno sfondo incentrato, come già all’epoca del Grossraum e del Reich, sulla preservazione di un pluriverso di differenze di contro a ogni universalismo, pluriverso che mi sembra esca oltretutto ulteriormente rafforzato proprio dal rimando a queste iconografie nate “da differenti religioni, tradizioni, passati storici e organizzazioni sociali che formano spazi peculiari”.
2) Al secondo punto allude già l’attuale del titolo. Si tratta di una contrapposizione attuale ovvero priva, dice Schmitt, di “paralleli storici”. Questo perché Schmitt utilizza una dialettica storicamente concreta che determina la struttura delle varie epoche e situazioni storiche nella loro specificità e unicità. Una dialettica, e qui corre tutta la lontananza da Hegel, che “non può essere concepita né come una logica concettuale universale né come una legge universale dei processi temporali”, perché “pensare storicamente significa pensare situazioni uniche”, e perché, aggiunge Schmitt, col termine dialettico bisogna intendere “l’opposto di qualsiasi idea di polarità” che invece si fonda su di una verità “eternamente vera”, nel senso di eternamente ritornante. Quindi il pensiero storico-dialettico schmittiano è contraddistinto da concretezza e unicità. Da qui viene ad es. sia la messa in guardia nei confronti del “fraintendimento hegeliano di una universale dialettica del concetto”, sia la presa di distanze da Spengler, che avendo universalizzato la sua dottrina delle civiltà, avendola declinata in senso ciclico, “ne ha ucciso il peculiare nervo storico”. Da qui, infine, viene anche la certezza che ogni tentativo di attualizzare questo testo ne rappresenti un tradimento.
(Carl Schmitt)
3) La contrapposizione tra terra e mare non va letta come una polarità, come uno scontro metastorico; non a caso in un passo cruciale del testo Schmitt scrive che “il nomos della terra consisteva in un equilibrio tra terra e mare” e che la loro contrapposizione si cristallizza in “manifesta ostilità” solo col “Patto Atlantico del 1949”, tant’è vero che diverse pagine dopo, auspicando un nuovo “equilibrio delle forze e delle potenze quale base della pace” sarà necessario a tal fine un bilanciamento del mare rispetto alla terra, cioè la riproposizione dell’equilibrio tra questi due elementi. Ma lo snodo decisivo del testo riguarda la genesi di tale contrapposizione che Schmitt individua nello scatenamento della tecnica che accompagna la decisione per il mare dell’Inghilterra, in quanto la tecnica è oceanica e senza limiti esattamente come l’esistenza marittima cui si volse l’Inghilterra, dove non a caso si ebbe la rivoluzione industriale. Per cui, decisione per il mare, rivoluzione industriale e tecnica scatenata sono aspetti tra loro strutturalmente concatenati, ai quali va aggiunto il progresso, visto che la tecnica scatenata porta con sé necessariamente una “fede incondizionata nel progresso”. Ma così come lo Schmitt dei tardi anni Venti rovesciava la fede nella tecnica come processo neutralizzante il politico, come sfera “di pace, di comprensione e di riconciliazione”, nella ricerca del tipo di politica in grado di essere abbastanza forte da impadronirsi della tecnica creando così nuovi raggruppamenti amico-nemico (L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni del 1929), anche in questo caso paradossalmente la tecnica opera su due lati, nel senso che se da un lato allarga a dismisura la contrapposizione tra terra e mare, se non ne è addirittura l’origine, dall’altro però la smorza sin quasi ad annullarla, come si può vedere analizzando lo scritto L’unità del mondo. Si tratta di uno scritto (ne esistono due versioni, una più lunga del 1951 e una più breve del ’52) singolare sin dal titolo, perché in un mondo spaccato in due dalla cortina di ferro parla di unità, ma non nel senso utopico (e distopico) del Weltstaat jüngeriano, ma come un qualcosa di già esistente. Questo proprio grazie alla tecnica, perché è la tecnica a unire il mondo, in quanto tanto le masse occidentali quanto quelle orientali hanno fede nello stesso ideale di un mondo tecnicizzato, per cui esiste una comune filosofia della storia che “attraversa la cortina”. Non a caso, dice Schmitt, grazie al marxismo l’Est si è “impadronito della filosofia della storia” progressista di Hegel, così come si è “impadronito della bomba atomica”. Dunque, lungi dal contrapporsi, proprio nel nome della tecnica e del suo armamentario ideologico (la filosofia della storia progressista) l’Oriente comunista e l’Occidente capitalista trovano una loro segreta complicità. Anche se poi il testo si chiude con la constatazione essenziale del fatto che la storia è più forte della filosofia della storia, per cui, per sottrarsi a questa unità nel segno della tecnica sarà necessario pensare storicamente, cioè pensare nel senso indicato dalla replica al Nodo di Gordio di Jünger, in modo tale che il dualismo Est/Ovest invece di essere preludio all’unità del mondo tecnicizzato sia piuttosto “un passaggio in direzione di una nuova pluralità” che nello scritto del ’55 prenderà appunto il nome di iconografie regionali.
Giovanni Damiano