Sul mito misterico di Apollo e Dafne – Luigi Angelino
La vicenda della ninfa Dafne, figlia di Peneo e di Gea (1), o del dio fluviale Ladone e di Creusa, secondo un’altra versione, si intreccia con quella dell’eclettico e solare dio Apollo. La fanciulla era associata in prevalenza ai corsi d’acqua dolce, come i fiumi, i laghi, i ruscelli, ma anche a sistemi idrici costruiti dall’uomo come pozzi e fontane. Apparteneva, infatti, alla stirpe delle Naiadi, che custodivano tutte le acque dolci del nostro pianeta, con capacità sia nel campo della profezia che della cura medica (2). Il mito di Apollo e Dafne è raccontato soprattutto nelle “Metamorfosi” di Ovidio e trova la sua più compiuta espressione artistica nel gruppo scultoreo realizzato da Gian Lorenzo Bernini nel diciassettesimo secolo, mirabile opera conservata presso la Galleria Borghese di Roma.
Prima di parlare del significato eziologico della narrazione riguardante le due figure, riassumiamo di seguito i punti salienti della trama. I protagonisti iniziali della storia sono tre: Dafne, Cupido ed Apollo (3). Quest’ultimo non faceva altro che vantarsi della sua abilità nel tiro con l’arco, proclamandosi apertamente migliore di Cupido, altro abile arciere fra le divinità classiche. Il vanto di Apollo raggiunse l’apice quando riuscì a trafiggere con le sue frecce il tanto temuto serpente Pitone. Cupido si risentì per la continua derisione da parte del rivale e decise di ordire una tremenda vendetta. Egli prese due frecce dalla faretra, forgiandone ciascuna con lo scopo di determinare un effetto opposto all’altro, ma con l’intento di attuare un progetto di rivalsa unitario. La prima freccia, con la punta acuminata d’oro doveva essere rivolta ad Apollo, che sarebbe stato destinato ad innamorarsi perdutamente di Dafne; l’altra, con la punta di piombo, doveva colpire la fanciulla e spingerla a rifiutare con costanza e determinazione l’amore di Apollo nei suoi confronti. Così il dio cercò in tutti i modi di raggiungere la fanciulla, animato da un desiderio travolgente ed irrazionale, mentre questa per potersi nascondere dal dio si rifugiò nella fitta vegetazione dei boschi. Quando Apollo era sul punto di raggiungerla, la ragazza stremata chiese soccorso a Peneo e a Gea affinché l’aiutassero ad evitare ogni contatto col dio. I due genitori, allora, concepirono uno stratagemma che era in grado di serbare in via definitiva la verginità della fanciulla. Intanto Apollo si era avvicinato, illudendosi di poterla ghermire. Ma la corsa di Dafne cominciò ad arrestarsi, le sue gambe si intorpidirono, il corpo si irrigidì e si protese verso l’alto, mentre dalle sue mani cominciarono a spuntare foglie d’alloro. La ninfa si trasformò in un albero di quel nobile vegetale ed Apollo sbigottito non potè fare altro che abbracciare quel tronco inerme, giurando che da quel momento il lauro sarebbe diventata la sua pianta sacra. Da quel momento le foglie della pianta furono adoperate per adornare il capo di grandi poeti e di celebrati condottieri. Ancora oggi è diffusa l’usanza di cingere la testa di coloro che conseguono un titolo accademico con le foglie di alloro. Il termine “laureato” deriva chiaramente dal nome della pianta di lauro.
A ciò si aggiunge un ulteriore filone narrativo del mito che inserisce nella vicenda anche un quarto protagonista. La bella Dafne era contesa anche da un mortale, un tal Leucippo, figlio del re Enomao (4) che, per riuscire ad ammirarla mentre la fanciulla faceva il bagno nell’acqua con le altre ninfe, decise di travestirsi da donna. Lo stratagemma però non funzionò, anzi fu fatale per il giovane. Quando le compagne di Dafne scoprirono l’inganno di Leucippo, lo trucidarono atrocemente, a voler punire un gesto così sconsiderato e sacrilego delle virtù verginali. A Leucippo, quale essere umano, la passione irrealizzabile per Dafne costò la vita, mentre ad Apollo, come dio immortale, fu data la possibilità di sublimare il proprio amore nel culto dell’albero del lauro.
La vicenda di Apollo e Dafne non configura soltanto una struggente storia d’amore, come potrebbe sembrare in apparenza, ma ci offre un prezioso paradigma per misurare il complessivo intreccio delle relazioni interpersonali e del destino che è riservato a ciascuna donna e a ciascun uomo. La storia, inoltre, si universalizza, assumendo le caratteristiche di un mito naturalistico, che mira ad evidenziare la costante tensione tra la passione carnale e la purezza della realtà che ci circonda. Apollo è chiaramente l’emblema del desiderio umano, a cui corrisponde il potere arrogante delle divinità, mentre Dafne si erge a paladina dell’innocenza e della libertà, in un gioco di specchi di forze contrastanti che si attraggono e si respingono nello stesso tempo. Non a caso, Dafne è presentata, oltre che come ninfa legata all’elemento acqua, anche come sacerdotessa dei rituali associati all’elemento terra, come seguace di Artemide. Il mito di Apollo e Dafne, inoltre, può essere letto anche come confronto tra oppressore ed oppresso: da un lato il potente Apollo che con la sua autorità ed autorevolezza divina cerca di prendere ciò che vuole con la forza, dall’altro Dafne delicata e vulnerabile alla quale, come unica via di salvezza, viene concessa quella della trasformazione. E’ una lotta reciproca, dove sconfitto ne uscirà proprio il soggetto in apparenza più forte, che sarà costretto a cedere davanti alle forze inarrestabili della natura.
Il racconto ci dimostra come l’amore e l’odio siano sentimenti comuni sia ai mortali che agli dèi, così come la stessa sofferenza a cui nessuno può sottrarsi. Apollo, infatti, non è l’unica divinità dell’Olimpo che viene travolta dalla passione. Tra gli esempi più significativi ricordiamo Artemide che si strugge per la morte di Orione, o Ade che si innamora di Persefone e la rapisce, provocando un immenso dolore alla madre Demetra, così come non si possono contare le innumerevoli maledizioni che la tradita Era scaglia contro le tante donne con cui Zeus si unisce (5). Seguendo tale orientamento interpretativo, un’analisi approfondita e contestualizzata nel periodo storico dell’evoluzione mitologica classica mette in luce come una lettura del mito, in senso esclusivamente psico-analitico, possa apparire limitativa e fuorviante. Pur riconoscendo che la vicenda di Apollo e Dafne possa essere interpretata come un serrato conflitto tra la castità della fanciulla e le pulsioni sessuali del dio, il suo significato eziologico non può essere ridotto ad una visione di stampo freudiano, alla maniera degli studi condotti da Geza Roheim (6) e di Joseph Eddy Fontenrose (7). La tesi psico-analitica sarebbe avvalorata dal fatto che Dafne, di frequente, è identificata come “Artemis Daphnaia”, ossia come la sorella del dio Apollo, adombrando l’ipotesi di un desiderio incestuoso represso. Tuttavia, questa tesi appare poco verosimile, in quanto l’identificazione di Dafne con Artemide, nell’evoluzione del mito, suona come troppo forzata.
Una storia d’amore così struggente ha da sempre colpito l’immaginario collettivo, ispirando artisti e letterati di ogni epoca, che ne hanno, ciascuno a suo modo, trasfigurato e plasmato il messaggio originario. Tra le splendide ville di Pompei, ad esempio, sono state ritrovate diverse raffigurazioni di questo mito, di cui alcune sono attualmente conservate presso il Museo Archeologico di Napoli. Nella “Casa dei Vettii” è stato individuato un dipinto che intende rappresentare un istante della folle corsa di Apollo: il dio seminudo munito della solita faretra e di due lance si dirige verso Dafne che, invece, rimane immobile e cerca di respingerlo. La pittura appare come la fotografia dell’inizio della metamorfosi, l’istante esatto in cui la fanciulla comincia a trasformarsi in albero. Diversa è la scena a tempera della “Casa dei Capitelli colorati” che presenta marcate caratteristiche erotiche, dove Dafne è raffigurata adagiata in posa languida su una roccia, mentre Apollo solleva l’ultimo velo che le copre il corpo. Un’altra importante rappresentazione del mito la ritroviamo nel bel mosaico custodito nel “Museo di Antichità di Rouen”, un resto, comunque, che proviene con ogni ragionevole probabilità, dalla costa campana, in quanto presenta dettagli abbastanza simili alla tradizione artistica dei lidi prossimi a Neapolis. Il mosaico fu rinvenuto nella località di Lillebonne (8) presso un tempio consacrato ad Apollo e Diana. L’opera vuole immortalare il momento in cui Apollo si avvicina alla ninfa, le agguanta il braccio e lei, ormai sfinita, cade a terra. Di particolare pregio sono gli elementi iconografici del mosaico, che evidenziano l’indomita volontà della fanciulla che non vuole arrendersi al proprio inseguitore e si volta a guardarlo con un’ intensità quasi ipnotica.
La rappresentazione artistica più famosa del mito di Apollo e Dafne è senza dubbio il gruppo scultoreo eseguito dal Bernini tra il 1623 ed il 1625, a cui abbiamo già accennato in precedenza. Così come aveva fatto nel 1622 per il Ratto di Proserpina, altra scultura berniniana, papa Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini (9), volle apporre un cartiglio sul quale era inciso un distico moraleggiante, con l’intento di attribuire un improbabile significato cristiano ad un’opera che rievocava il mondo classico. La scultura riscosse subito un clamoroso successo, come testimonia Pierre Cureau de la Chambre, autore della più antica biografia stampata del Bernini. Nel gruppo scultoreo è immortalato l’estremo tentativo di avvicinamento del dio alla fanciulla. Apollo è ripreso nel preciso momento in cui sta terminando la sua corsa, una scena interpretata con un dinamismo scultoreo mai realizzato prima. Il dio sfiora Dafne con la mano sinistra, quasi come se volesse afferrarla, mentre mirabile è la rappresentazione della tensione anatomica: i muscoli di Apollo guizzano come in una sequenza cinematografica, così come spiccano i tendini tesi per lo sforzo. Il suo sguardo presenta una vivacità straordinaria e la sua chioma folta e ondulata è mossa all’indietro, a voler sottolineare la dinamica della corsa appena conclusa. Colpiscono alcune immagini visive del volto di Apollo come lo spessore delle palpebre, l’iride incavato e la pupilla in rilievo che, per questo gioco di ombre, risulta la sola ad essere illuminata. La ninfa Dafne, per sfuggire al suo inseguitore, sembra fermarsi all’improvviso in tutta la sua nudità, in modo da poter proseguire la fuga sbilanciando l’aggressione del dio. Ma la parte inferiore del busto di Dafne agisce ormai separata dalle azioni volontarie della fanciulla, poiché è inesorabilmente cominciata la metamorfosi. Il piede sinistro è già diventato radice, mentre il destro lo è solo in parte. In maniera magistrale il Bernini raffigura l’estremo tentativo di Dafne di sollevare il piede destro che, tuttavia, è già saldamente ancorato al suolo con alcune appendici che fuoriescono dalle unghie, lasciando intendere il formarsi del successivo apparato completo delle radici dell’albero di alloro. Il corpo delicato della fanciulla è nell’atto di essere avvolto dalla corteccia, mentre le mani rivolte verso il cielo si stanno tramutando in ramoscelli della pianta. Fortemente suggestiva è l’espressione del volto della ninfa: da un lato traspare il terrore per essere stata raggiunta da Apollo, dall’altro il sollievo, perché ha compreso che i genitori hanno esaudito il suo desiderio di mantenere intatta la propria verginità, compiendo il miracolo della metamorfosi. Di contro, lo sguardo del dio appare stupito, per la cocente ed inaspettata delusione. Il gruppo scultoreo del Bernini, in sintesi, raggiunge un mirabile pathos, grazie soprattutto al ben congegnato gioco di luci e ombre, che conferisce un plastico dinamismo figurativo sia alla dimensione fisica che a quella psicologica. L’estensione spaziale dell’opera non pregiudica il suo armonico equilibrio, suggerendo i modelli scultorei dell’età ellenistica a cui si ispirò il Bernini, in particolare la scultura, conosciuta con il nome di Apollo del Belvedere (10).
Tra gli elementi simbolici più significativi della vicenda di Apollo e Dafne, come già si è detto in precedenza, vi è sicuramente la pianta di alloro. Le sue fronde sempre verdi indicano la vittoria della vita spirituale eterna sulla caducità mortale, nonché l’assoluto trionfo della luce sulle tenebre. La Pizia, la sacerdotessa dell’oracolo di Delfi, usava masticarne alcune foglie che l’aiutavano ad entrare in trance. Alla pianta, così amata e santificata da Apollo, dio anche della medicina e padre di Asclepio, venivano attribuite proprietà portentose nella cura delle malattie. Ancora oggi l’alloro è noto nella farmacopea popolare: un decotto ricavato dalle foglie di questa pianta, in aggiunta ad altri ingredienti specifici, è considerato un ottimo rimedio naturale contro le patologie da raffreddamento. Nell’antica Roma l’alloro era simbolo della vittoria: il condottiero che vinceva un conflitto attraversava la città su un carro trainato da quattro cavalli bianchi, con il capo cinto da una corona d’alloro e con una sua elegante fronda nella mano destra. In epoca tardo imperiale, l’alloro diventò un vero e proprio orpello riservato agli imperatori.
La metamorfosi di Dafne è senza dubbio un simbolo di catarsi spirituale, un viaggio interiore da affrontare con tenacia e determinazione. La trasformazione giova ad entrambi i contendenti: Dafne preserva la sua verginità, che potremmo trasfigurare nelle sue qualità femminili più pure e naturali, volendo andare oltre un significato puramente sessuale; Apollo sublima le proprie incontrollabili pulsioni, abbracciando l’albero e con esso l’intera natura, che irradia con la sua luce divina.
Note:
1 – Si tratta della genealogia preferita da Igino e da Ovidio, rispettivamente nelle Fabulae e nelle Metamorfosi;
2 – Pierre Grimal, Mitologia, Edizioni Le Garzantine, Bergamo 2007;
3 – La rivalità tra Apollo e Cupido costituisce una sorta di prologo del mito;
4 – Enomao regnava sull’Elide;
5 – Maurizio Bettini, Il grande racconto dei miti classici, Edizioni Il Mulino, Bologna 2018;
6 – Geza Roheim, Origine e funzione della cultura, traduzione di F. Belfiore, Feltrinelli editore, Milano 1972;
7 – The Ritual Theory of Mith (1966);
8 – E’ un comune francese che si trova nel dipartimento della Senna Marittima in Normandia;
9 – Fu il 235° papa della Chiesa Cattolica dal 1623 al 1644;
10 – L’opera risale al II secolo d.C., attualmente conservata nei Musei Vaticani.
Luigi Angelino,
nasce a Napoli, consegue la maturità classica e la laurea in giurisprudenza, ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione forense e due master di secondo livello in diritto internazionale, conseguendo anche una laurea magistrale in scienze religiose. Nel 2022 ha pubblicato con la Stamperia del Valentino 8 volumi: Caccia alle streghe, Divagazioni sul mito, L’epica cavalleresca, Gesù e Maria Maddalena, L’epopea assiro-babilonese, Campania felix, Il diluvio e Sulla fine dei tempi. Con altre case editrici ha pubblicato vari libri, tra cui il romanzo horror/apocalittico “Le tenebre dell’anima” e la sua versione inglese “The darkness of the soul”; la raccolta di saggi “I miti: luci e ombre”; la trilogia thriller- filosofica “La redenzione di Satana” (Apocatastasi-Apostasia-Apocalisse); il saggio teologico/artistico “L’arazzo dell’apocalisse di Angers”; il racconto dedicato a sua madre “Anna”; un viaggio onirico nel sistema solare “Nel braccio di Orione”ed una trattazione antologica di argomenti religiosi “La ricerca del divino”. Con Auralcrave ha pubblicato la raccolta di storie “Viaggio nei più affascinanti luoghi d’Europa” ed ha collaborato al “Sipario strappato”. Nel 2021 è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica italiana.