Sul libro biblico del profeta Daniele – Luigi Angelino
Il testo, attribuito al profeta Daniele, è uno dei più misteriosi e ricchi di simbologia dell’intero Antico Testamento biblico. Esso forma uno dei “libri” accolti nel canone sia della Bibbia masoretica (1) che di quella cristiana. L’individuazione dell’appartenenza sistematica risulta, tuttavia, differente: il Canone ebraico inserisce il libro di Daniele tra i ketuvim, che si può tradurre in italiano con “Scritti”, comprendendo al suo interno 13 testi di vario genere, come i salmi, i libri sapienziali ed alcuni annali storici; il Canone cristiano, invece, annovera Daniele tra i libri profetici. In linea generale, il testo di Daniele racconta alcune vicissitudini del popolo di Israele accadute durante la deportazione babilonese, tra il 587 ed il 538 a.C., nonché alcune visioni apocalittiche che preannuncerebbero la futura venuta del Figlio dell’Uomo-Messia e l’instaurazione del Regno di Dio. Alla luce delle numerose descrizioni oniriche e visionarie, il libro di Daniele è considerato, a giusta ragione, un testo rientrante nel genere “apocalittico” o “della rivelazione”, dispiegando una significativa influenza, qualche secolo dopo, sull’elaborazione del più famoso libro dell’ Apocalisse (Rivelazione), attribuito in maniera pseudo-epigrafica all’apostolo di Gesù di Nazareth, di nome Giovanni (2).
Gli studiosi hanno, a lungo e con diverse argomentazioni, dibattuto sul periodo di composizione del testo, anche se l’ipotesi attualmente più accreditata ritiene che la stesura definitiva del libro di Daniele sia avvenuta in Giudea, durante il periodo “maccabeo” e, più precisamente, negli anni appena antecedenti alla morte del sovrano Antioco IV Epifane, registrata nel 164 a.C.. Gli esegeti, infatti, hanno individuato nel testo numerosi riferimenti storici che possono essere ragionevolmente riferiti soltanto all’epoca della monarchia ellenistica dei Seleucidi (3). Oltre a motivazioni di carattere storico, per suffragare l’ipotesi di composizione sopra-citata sono stati addotti anche evidenti indizi sociali e culturali, come la presenza di una trattazione sulle creature celesti molto diversa da quella originaria del mondo religioso ebraico, nonché la descrizione della resurrezione corporea dei morti, che sarà ereditata nella dottrina cristiana, ma assente nelle precedente tradizione giudaica. Vi è da aggiungere che, trattandosi di un libro accolto nel Canone masoretico, esso è stato redatto gran parte in ebraico, nonostante ampie sezioni siano state composte in lingua aramaica. Il confronto con la versione cristiana si complica, se si considera che in quest’ultima, a noi pervenuta tramite la traduzione dei Settanta e la Peshitta siriaca (4), vi sono parti non presenti nel testo masoretico e scritte direttamente in greco, come la Storia di Susanna, la Preghiera di Azaria, il Cantico dei tre giovani della fornace e l’enigmatica vicenda di Bel e il drago, su cui torneremo in seguito.
Il testo, dunque, notevolmente posteriore ad altri libri profetici, come quelli di Ezechiele e di Geremia, sarebbe stato scritto per dare coraggio al popolo ebraico durante la persecuzione messa in atto da Antioco IV, intenzionato a combattere la fede religiosa giudaica e ad imporre un tipo di cultura di stampo ellenistico. Come si diceva, il libro di Daniele può essere considerato uno scritto apocalittico e, pertanto, si sofferma sui grandi temi della lotta del bene contro il male, con la contrapposizione tra Dio ed i suoi angeli da una parte ed i demoni dall’altra, assicurando, tuttavia, la speranza della vittoria finale dei primi a sfavore dei secondi. Alcuni frammenti del testo, ritrovati alcuni decenni fa a Qumran, hanno contribuito a rassicurare la comunità accademica sul fatto che la versione bilingue del libro, in ebraico ed in aramaico, fosse già consolidata nel I secolo a.C.(5).
Senza entrare nei dettagli della complicata storia testuale del libro di Daniele, è opportuno sottolineare come gli studi più recenti abbiano confermato che i capitoli da 8 a 12 risalgano all’epoca maccabea, mentre le vicende narrate nei capitoli precedenti derivano verosimilmente da tradizioni pregresse. Il libro sembra presentare una struttura piuttosto unitaria, anche se gli episodi sono collegati in maniera alquanto confusa e frammentaria. Uno dei più significativi problemi interpretativi legati al testo è l’esatto inquadramento dell’enigmatico personaggio del profeta Daniele, a cui si riferiscono alcune vicende delineate nella prima parte del libro. Ciò che subito balza agli occhi è lo schema descrittivo che riguarda il profeta, ovvero l’evidente parallelismo agiografico che lo unisce al patriarca Giuseppe. Per molti autori le similitudini narrative tra i due personaggi costituisco un espediente per poter introdurre uno dei temi principali del testo: il ritorno del popolo eletto nella terra promessa. Nell’epoca di Giuseppe ciò si sarebbe verificato dopo la schiavitù in Egitto, in quella di Daniele a seguito della deportazione di Babilonia.
Per una serie di elementi discordanti, sull’effettiva storicità del profeta si è molto discusso. Riferimenti a Daniele, infatti, che dall’ebraico potrebbe essere tradotto con l’espressione italiana “Dio è il mio giudice”, si rinvengono anche nei testi ritrovati nella località di Ras Shamra (6), dove si parla di lui come il “giudice saggio e giusto” per antonomasia. Inoltre, anche nel libro del profeta Ezechiele, Daniele è descritto come un uomo profondamente saggio, paragonato ai grandi patriarchi del passato come Noè e Giobbe. Secondo alcuni critici, Daniele potrebbe essere un personaggio leggendario, utilizzato come esempio di virtù in alcuni racconti dei popoli del Medio Oriente, poi divenuto “messaggero di Dio” nella cultura giudaica. Questa interpretazione, peraltro, potrebbe giustificare il fatto che nel canone ebraico il testo attribuito a Daniele non sia inserito tra quelli “storici” o “profetici”, ma appunto tra i ketuvim, gli scritti che, pur essendo considerati ispirati da Dio, deriverebbero pur sempre da una creazione letteraria.
Quanto ai generi letterari, si può osservare che, mentre le parti scritte in greco ed in aramaico presentano caratteristiche narrative molto simili ai “racconti di corte”, come la storia di Giuseppe narrata nella Genesi o il libro di Ester, la parte scritta in ebraico offre molteplici chiavi di lettura analoghe ad altri testi della letteratura apocalittica giudaica. Questi ultimi, tuttavia, sono per la maggior parte libri apocrifi e, pertanto, non accolti nel canone masoretico e nemmeno in quello cristiano. Si pensi al Testamento dei Dodici Patriarchi, all’Apocalisse siriaca di Baruc, al libro dei Giubilei o all’affascinante raccolta nota con il nome di libro di Enoch. Nell’ambito dei testi biblici canonici, invece, gli unici altri testi che possono essere considerati appartenenti al genere apocalittico, sono in modo parziale il libro di Gioele e quello di Zaccaria,in maniera più marcata il libro di Ezechiele ed, in modo totalizzante la già citata Apocalisse di Giovanni. Questi libri presentano alcuni elementi che li distinguono nettamente dagli altri testi biblici, come la tendenza al linguaggio esoterico, riservato solo ad un numero ristretto di iniziati o a persone che possiedano la pre-comprensione ermeneutica adeguata, l’uso frequente della pseudonimia, mediante l’attribuzione della redazione a personaggi molto antichi ed autorevoli ed, in maniera particolare, lo strumento delle visioni, collocate in altri ambiti spazio-temporali, spesso condite di elementi fantastici e soprannaturali con alta valenza simbolica (7).
Come si è avuto già modo di anticipare, lo scopo principale del redattore o dei redattori del libro di Daniele è quello di dare coraggio al popolo di Dio, oppresso da brutali e blasfeme persecuzioni, attraverso la rievocazione di importanti gesta della tradizione ebraica e mediante visioni ricche di significati simbolici che si legano agli “ultimi tempi”. Tra le immagini emblematiche del testo, spicca la “cronologia qualitativa del tempo” suddiviso in “settanta settimane”, come espediente narrativo per indicare una sequenza ben precisa di avvenimenti in grado di travolgere la sorte dei credenti e dell’intera umanità. Gli studiosi hanno ipotizzato, a tale proposito, una profezia che riguarderebbe gli “ultimi tempi” prima del giudizio finale, quando sul mondo si abbatterebbe “l’abominio della desolazione” (8) con “l’elevazione in alto di un idolo” al posto di Dio. E’ abbastanza chiaro come, nei moniti apocalittici sulla fine dei tempi, l’autore voglia in realtà esortare il suo popolo a resistere davanti alle persecuzioni sacrileghe delle dinastia seleucida. Lo stesso schema sarà utilizzato da Giovanni di Patmos nella redazione del libro dell’Apocalisse, adoperando le sue presunte visioni terrificanti ed apocalittiche per sferrare una durissima critica alla politica dell’impero romano e dei suoi governatori.
La corrispondenza tra la trama del libro di Daniele e quello dell’Apocalisse è davvero singolare: alle settanta settimane del primo, si legano i “42 mesi” del secondo, nel corso dei quali la “bestia” (l’Anticristo) avrebbe perseguitato i seguaci di Dio, inducendo un suo emissario, lo pseudo-profeta o “bestia che viene dalla terra”, ad elevare una sua immagine idolatrica e costringendo tutti ad adorarlo. Ed i 3 anni menzionati nel libro dell’Apocalisse sono esattamente speculari ai 1290-1335 giorni di cui si parla nel capitolo dodici del libro di Daniele. Come il tempo delle settanta settimane si chiude con il solenne trionfo di Dio, ben reso con l’immagine del sigillo posto sul male che porta alla definitiva instaurazione del tempo della “giustizia eterna”, così Giovanni, nel libro dell’Apocalisse, introduce la figura dell’angelo clavigero che, dopo aver sconfitto l’Anticristo, rinchiude Satana nell’abisso, tenendolo prigioniero per un tempo di “mille anni”, da considerarsi ancora un “tempo storico”, una sorta di età dell’oro (9).
Sull’esatta scansione temporale delle “settanta settimane”, i più fantasiosi si sono scatenati nelle più sfrenate, quanto inutili speculazioni, in considerazione del valore altamente simbolico del numero “sette” nella numerologia dei popoli antichi e, soprattutto, in ambito giudaico. Per alcuni si tratterebbe di un tempo pari a 3.430 anni (70*49), partendo dal presunto periodo storico del profeta Daniele (tra la fine del settimo e l’inizio del sesto secolo a.C..). Questa teoria attribuirebbe importanza al cosiddetto “giubileo”, un periodo di tempo proprio della tradizione ebraica, composto a sua volta da sette cicli di sette anni. Secondo altri, invece, ogni “settimana” indicata nel testo equivarrebbe ad un’epoca di 400 anni, pari ai quattro secoli di permanenza del popolo d’Israele in Egitto. Se si seguisse questa azzardata quanto affascinante ipotesi, l’intera storia del mondo si dispiegherebbe in 28.000 anni, pur permanendo il dilemma di dover retrodatare l’inizio di essa ad un momento indefinito. Altri ancora rievocano un’antica preghiera ecclesiale, chiamata “Inno della Kalenda”, secondo la quale il “tempo della salvezza”, iniziato con la nascita storica di Gesù di Nazareth, sarebbe da collocarsi nella settimana nr. 65, con la conseguenza che occorrerebbe un complicato calcolo matematico, tra sottrazioni ed addizioni, per capire quanto tempo resterebbe all’umanità per prepararsi al Regno di Dio. Pur essendo superfluo, si ribadisce l’oziosità di un simile procedimento ermeneutico se applicato a testi che rientrano nel genere letterario apocalittico del libro di Daniele (10).
Nell’economia generale del testo, assume una valenza altamente didascalica la narrazione, considerata deuterocanonica, riguardante Bel e il Drago (11). La maggior parte degli studiosi ha stabilito che questa parte sia stata elaborata alla fine del secondo secolo a.C. e, pertanto, aggiunta successivamente rispetto al resto della stesura. Si tratta di una leggenda popolare che tende a ridicolizzare il culto praticato in maniera superstiziosa e per sfruttare le risorse dei fedeli. Il redattore dimostra come il pasto sacro preparato per la divinità Bel sia in realtà consumato dai settanta sacerdoti addetti al culto del dio e dalle rispettive famiglie. La narrazione prosegue con il profeta Daniele che, accorgendosi che i Babilonesi adorano perfino un drago, ottiene l’autorizzazione dal re di ucciderlo, ma senza usare né la lancia e nemmeno la spada. Il profeta, allora, in maniera astuta, decide di nutrire il mostro con focacce di pece, grasso e peli, fino a farlo soffocare. Il messaggio è chiaro: la saggezza è di gran lunga più efficace della forza fisica. Alla morte del loro beniamino, il drago, i Babilonesi reagiscono con una violenta sommossa, accusando il sovrano di aver tradito le divinità tradizionali e di essersi convertito alla dottrina ebraica. Il re, impaurito, sconfessa il suo precedente intento e, per dimostrare di essere fedele alle tradizioni dei suoi antenati, consegna Daniele alla folla, perché possano giustiziarlo. A quel punto si innesta l’elemento soprannaturale: Daniele, con l’aiuto del Signore resiste nella fossa dei leoni, dove viene condannato al supplizio, ma sopravvive per sei giorni, nonostante le belve siano tenute digiune, a differenza del profeta che è affidato alle cure dell’angelo e di Abacuc (12) che gli porta il cibo.
Nel libro di Daniele troviamo l’espressione “figlio dell’uomo” che sembra riferirsi ad un personaggio trascendente che scende dall’alto ed al quale viene attribuita la dignità del regno, della potenza e della gloria. E’ evidente che ad esso si siano ispirati i redattori dei vangeli sinottici, mettendo tale espressione sulla bocca di Gesù di Nazareth, con un inequivocabile significato messianico. Tuttavia, è nel libro di Ezechiele che il titolo “figlio dell’uomo” è usato più volte (in ben 95 occasioni), assumendo un significato diverso: quello, cioè, di chi “è solidale con gli uomini” e, pertanto, in maniera traslata, ne rappresenta l’essenza. La maggior parte dei commentatori biblici ritiene che il “figlio dell’uomo” menzionato nel libro di Daniele sia una metaforica personificazione dei “santi dell’Altissimo”(13), interpretata poi dagli esponenti della Chiesa primitiva come l’anello di congiunzione tra l’Antico ed il Nuovo Testamento. In questo senso, l’ascensione di Gesù al cielo, intesa come ricongiungimento con Dio, non sarebbe altro che l’esatto compimento della profezia di Daniele. Aggiungo l’interessante e controverso uso dell’espressione “figlio dell’uomo” nel Libro delle Parabole che costituisce la seconda sezione dell’apocrifo ed enigmatico Libro di Enoch che merita una trattazione a sé stante. In tale citazione il figlio dell’uomo sembrerebbe riferirsi ad una persona di natura superumana, creato prima del tempo e che ha la piena conoscenza di tutti i segreti dell’universo. Questa figura avrebbe il prestigioso compito di coordinare il grande giudizio finale, funzione che i vangeli canonici attribuiranno in maniera esplicita a Gesù di Nazareth, in chiave messianica (14).
Il testo attribuito all’enigmatico Daniele, personaggio simbolico quasi certamente extra-biblico, ben riassume lo stato di angoscia individuale e collettivo che informa l’esistenza umana dagli albori fino ad arrivare all’epoca contemporanea. Nel sogno del profeta, infatti, quasi in una visione cinematografica, possiamo immaginare il potente re di Babilonia, Nabucodonosor, che passeggia sulla terrazza del suo palazzo reale, forse munita dei celebri “giardini pensili”, compiacendosi della maestosità della sua gloria. I sapienti Greci avrebbero denominato questo delirio di onnipotenza, “hybris”, un misto tra i sentimenti dell’orgoglio, della superbia e della tracotanza. Il grande potere del re di Babilonia, a cui non corrisponde un’equivalente nobiltà d’animo, si traduce nella sua più profonda debolezza. Come cercherà di ammonire Giovanni di Patmos nel libro dell’Apocalisse, anche Daniele tenta di esprimere il concetto che ogni potere politico assoluto diventa “ateo”, cioè senza “dio” ed, estendendo il concetto a religiosità nobili non abramitiche, “senza scintilla divina”: un involucro materiale senz’anima. L’opera pedagogica di Daniele ci ripete come la storia conosca una quasi “regolare” legge evolutiva, prevedendo l’ascesa ed il declino di quelle civiltà che non riescono a gestire con equilibrio le proprie risorse e, soprattutto, i propri valori. Si può parlare della cosiddetta “maledizione dell’abbondanza”, in quanto nel momento stesso in cui si forma quel pensiero di eccessiva sicurezza e di autocompiacimento, il regno ti è tolto, come riporta testualmente e saggiamente il libro di Daniele.
Il profeta spinge il re alla conversione: “perciò, o re, accetta il mio consiglio: sconta i tuoi peccati con la giustizia e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti, perché tu possa godere lunga prosperità” (Daniele 4, 24-25). L’esortazione di Daniele può essere letta in chiave ermetica, come la necessità per ogni uomo e per ogni donna di scoprire il proprio io interiore, accendendo la scintilla divina che in ciascuno è racchiusa. Quando ciò non accade si rischia che si verifichi il compimento della parola pronunciata dal Cielo verso il potente sovrano: “Egli fu cacciato dal consorzio umano, mangiò l’erba come i buoi ed il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, i capelli gli crebbero come le penne alle aquile e le unghie come agli uccelli” (Daniele 4,30). L’uomo, pertanto, può andare incontro ad un triste destino, perdendo l’anima.
Note:
1 – Si tratta della versione ebraica della Bibbia, considerata canonica dalla tradizione giudaica;
2 – John Collins e Peter W. Flint, The book of Daniel. Composition and Reception, Leiden, Brill 2002;
3 – La dinastia seleucide fu inaugurata da Seleuco I dopo la disgregazione dell’impero di Alessandro Magno e si concluse nel 64 a.C., con la vittoria romana ad opera di Gneo;
4 – La Peshitta rappresenta ancora oggi la versione di riferimento per le Chiese di lingua siriaca;
5 – Marco Settembrini, Daniele. Traduzione e Commento, San Paolo Edizioni, Milano 2019;
6 – Ras Shamra sorge nei pressi dell’antica città di Ugarit, dove furono ritrovati diversi archivi di tavolette d’argilla scritte in quattro lingue: il sumerico, l’accadico, l’hurrita e l’ugaritico;
7 – Giuseppe Guarino, Il libro del profeta Daniele- Commentario storico-biblico, su https://www.giuseppeguarino.com , consultato in data 06/06/2022;
8 – Il riferimento all’”abominio della desolazione”, intendendo con tale espressione una sostituzione idolatrica del Dio d’Israele, si trova nel Vangelo di Matteo (24,15);
9 – Cfr. Il libro di Daniele e l’apocalittica ebraica, su https://core.ac.uk, consultato in data 07/06/2022;
10 – Benito Marconcini, Daniele. Nuova versione, introduzione e commento, Paoline Editoriale Libri, Torino 2004;
11 – L’episodio è trattato nel cap. 14 del testo di Daniele;
12 – Abacuc è considerato uno dei 12 “profeti minori”;
13 – Con l’espressione “santi dell’Altissimo” si indica ragionevolmente un gruppo collettivo, molte volte identificato con il “popolo di Dio”;
14 – Mogens Muller, The expression “Son of Man” and the Development of Christology. A History of Interpretation, New York, Routledge 2012.
Luigi Angelino,
nasce a Napoli, consegue la maturità classica e la laurea in giurisprudenza, ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione forense ed un master di secondo livello in diritto internazionale, conseguendo anche una laurea magistrale in scienze religiose. Nei primi mesi del 2022 ha pubblicato con la Stamperia del Valentino 7 volumi (Caccia alle streghe, Divagazioni sul mito, L’epica cavalleresca, Gesù e Maria Maddalena, L’epopea assiro-babilonese, Campania felix, Il diluvio). In precedenza con altre case editrici ha pubblicato vari libri, tra cui il romanzo horror/apocalittico “Le tenebre dell’anima” e la sua versione inglese “The darkness of the soul”; la raccolta di saggi “I miti: luci e ombre”; i thriller filosofici “La redenzione di Satana I-Apocatastasi” e “La redenzione di Satana II- Apostasia”; il saggio teologico/artistico “L’arazzo dell’apocalisse di Angers” ; il racconto dedicato a sua madre “Anna”; la raccolta di storie “Viaggio nei più affascinanti luoghi d’Europa”; un viaggio onirico nel sistema solare “Nel braccio di Orione”; una trattazione antologica di argomenti religiosi “La ricerca del divino”. Di recente è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica italiana.