Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
Su “Miseria simbolica e catastrofe del sensibile” di Bernard Stiegler – Giovanni Sessa
Pensare il presente, le sue drammatiche contraddizioni, è compito al quale la filosofia, quando risponda al suo originario statuto, non può, di certo, sottrarsi. La filosofia, infatti, rileva il pensatore francese Bernard Stiegler, ricordando un’affermazione di Hegel, fa, innanzitutto, uscire l’uomo: «dallo stato di quiete» (p. 19), al quale ci lega l’acquiescenza al senso comune. Chiunque abbia la ventura di leggere le pagine stiegleriane de, La miseria simbolica.2. La catastrofe del sensibile, nelle librerie per Meltemi, vivrà un’avventura teoretica tra le più significative degli ultimi anni (per ordini: redazione@meltemieditore.it; 02/22471892, pp. 226, euro 18,00). L’obiettivo dell’autore è chiarito fin dall’incipit del volume: «I miei libri vogliono servire da lotte, ma contro cosa? Il primo scopo […] è […] identificare le forze, le tendenze […] contro cui occorre condurre una battaglia» (p. 21). Esse sono individuate nella vis autodistruttiva del capitalismo culturale e iperindustriale: «che ha perduto ogni coscienza dei propri limiti» (p. 23), determinando la colonizzazione consumista dell’immaginario contemporaneo.
Nell’Introduzione, Rosella Corda precisa che l’obiettivo perseguito da Stiegler è la definizione di un’exit strategy dall’epoca iperindustriale intesa, con Deleuze: «quale società del controllo sul destino del simbolico, divenuto oggetto di una guerra estetica» (pp. 9-10). In sintesi, per il pensatore transalpino si tratterebbe di trasformare la figura del consumatore, deprivata sotto il profilo simbolico e maggioritaria nella società contemporanea, in quella del cultore. Quest’attesa metamorfosi antropologica e politica è introdotta nel Prologo, da un tema musicale. La musica ha oggi tratto paradigmatico, essa è oggetto-temporale, al pari del cinema, ma ha avuto, per il suo originario legame con la strumentazione, una storia “tecnica”, più lunga di quella vissuta dalla cinematografia. In Stiegler, stante l’inaggirabilità del dominio tecnico, l’organologia, da disciplina musicologica mirata alla descrizione degli strumenti musicali, diviene riferimento indispensabile per l’analisi antropologica.
La “guerra estetica” in atto la si combatte muovendo dagli “strumenti”, è a muovere da essi che la stessa dimensione estetica va riscritta, ripensata. La nuova tecnologia digitale potrebbe re-installare: «nuove modalità di sentire» (p. 11). L’organologia stiegleriana esplora i legami defunzionalizzanti tra corpi e tecnica (nelle logiche dell’immaginario iperindustriale) e, al contrario, rifunzionalizzanti (nelle nuove logiche instaurate dal cultore). Alla musica viene attribuito il duplice ruolo di captazione e controllo delle coscienze reificate (la musica quale prodotto dell’industria culturale), ma anche di stimolo del risveglio dall’universo catecontico della produzione-consumo: «Il passaggio da consumatore a cultore sarebbe da intendersi […] come trasvalutazione della svolta macchinica della sensibilità da un assoggettamento […] alla sua soggettivazione» (p. 11), in funzione del recupero di una diversa individuazione psichica e comunitaria, in virtù di una recuperata: «partecipazione creativa» (p. 11). Tale partecipazione sarebbe, a dire del filosofo, concessa dalla nuova tecnologia atta a porre: «chiunque in grado di suonare la propria musica in una riformulazione nuova» (p. 12).
La téchne induce un legame ambiguo, tra aisthésis e semiosis, tra sensazione e significato, che può “chiudere” o “liberare” la condizione umana. Laddove il pericolo della catastrofe regna sovrano, ed è possibile ascoltare il “risucchio” dell’abisso sul quale siamo esposti, come nell’epoca attuale, lì, lo sapeva già Hölderlin, si mostra la possibilità di un nuovo inizio. Recensendo il primo volume de, La miseria simbolica, soprattutto per la preminenza concessa alla “guerra estetica”, avevamo detto della prossimità delle sue tesi con l’idealismo magico evoliano. A proposito di questo secondo volume, facciamo rilevare la vicinanza alla posizione di fondo del volume di Evola, Cavalcare la tigre, centrato sulla necessità di trasformare il veleno postmoderno in farmaco. Data tale cornice interpretativa, un ruolo di rilievo nella proposta di Stiegler è svolto da Beuys, il quale ebbe contezza della fine della modernità e, allo stesso tempo, di una possibile ripartenza: «Che vuol dire questa fine?Significa uno sfinimento di cui si deve prendere atto […] oppure l’inizio di un’altra cosa, di un’arte che “rimane ancora da inventare”?» (p. 105). Il pensatore francese rileva la necessità di costruire una nuova partecipazione, avente al proprio centro l’idea beuysiana di arte allargata.
Per comprendere tale modello di partecipazione, Stiegler muove dalla frase che, fino al 15 febbraio scorso, ha campeggiato sulla facciata del Centre Pompidou a Parigi: «Che c’è tra di noi?», un’installazione di T. Etchelles. La frase problematizza in uno, il rapporto amoroso e quello fondante il “noi” comunitario, lacerati dall’immaginario iperindustriale. In tali rapporti il desiderio si supera, si in-taglia in una neo-visione che consente il passaggio dal transindividuale (io-tu) al comune: «Il “tra” (di noi) è allora il lavorio che fa scorrere il flusso (della libido) dal livello sensitivo al livello noetico dell’anima» (p. 13). Nell’attraversamento del: «Che c’è tra di noi?», esperito in termini polemologici e inconclusi da Stiegler, egli guarda al lascito teoretico del duo Simonodon-Deleuze, fornendo una lettura non scolastica del De Anima di Aristotele e si confronta con l’estetica del sublime, letta anche attraverso Freud. Tale passaggio dà luogo a una lettura inquieta della condizione umana, sempre esposta alla catastrofe del sensibile e all’oblio del “noi”. Un “certezza” sostiene tale senso inquieto: le relazioni umane sono rette da una forza trasduttiva, vale a dire dalla: «capacità della relazione di passare, tra i termini che la costituiscono, non come rapporto, ma come dinamica trasformativa di questi stessi termini» (p. 14).
Si transita, così, dalla mera sussistenza all’esistenza e, se il caso, alla fine del processo alla consistenza. Si badi, consistenza (persuasione michelstaedteriana) sempre esposta al suo contrario, alla sua possibile catastrofe, come nelle corde dell’individuo assoluto evoliano. Consistenza, peraltro, non alimentata da regressio, deprecatio temporis, critica antimoderna della téchne, ma possibile esito in fieri di quest’ultima. Tale ricorso al tecnico, non fa aggio su una metafisica dell’essere, anzi: «è la metastabilità di un eccesso pulsionale a divenire risorsa» (p. 15). Essa mira, comunque, a conservare un potenzialità, a cogliere l’essere nel divenire. Tale compito è assegnato all’artista, “orribile lavoratore”, come rilevò Rimbaud.
Giovanni Sessa