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Silent Hill 2: squarci nel soggettivo e strappature nella psiche – Simone Santamato
Compendiare l’intimo significato di un’opera tanto stratificata quale Silent Hill 2 è un’operazione davvero ardua, e richiede grande rispetto delle poliedriche tematiche che il gioco inscena, in quanto, nella sintesi, si deve avere cura che ognuna non perda importanti dettagli. Credo davvero che chi scrive debba essere fervidamente coinvolto dalle tematiche di cui parla: è una caratteristica imprescindibile dell’autorialità, e nell’ambito delle scienze umanistiche è quantomai necessaria affinché i propri lavori siano ribollenti di una scalpitante vitalità. È un lusso che noi umanisti possiamo e dobbiamo permetterci.
Nel corso delle righe che seguiranno, il mio obiettivo è di presentare le impellenti questioni di natura generalmente filosofica, ma più specificatamente bioetica e psicoanalitica, intavolate dalla raffinata narrazione di Silent Hill 2.
Gioco di genere horror psicologico, Silent Hill 2 è stato pubblicato nel 2001 per il sistema hardware Sony PlayStation 2. Spesse volte erroneamente accostato ad altre produzioni all’apparenza analogiche, quali Resident Evil, Silent Hill come serie in generale, e come seconda iterazione particolarmente, propone un ambiente diegetico in cui non è un orrore soprannaturale il protagonista ma, diversamente, uno tremendamente umano. La destabilizzazione cui si è soggetti durante l’esperienza di Silent Hill 2 deriva specie dai sopraffini – e mai artificiosi – simbolismi coi quali è ritmato l’andamento narrativo. Silent Hill 2 è, in buona sintesi, un perturbante prospetto dell’intimità inconscia dell’essere umano che si esprime attraverso dei segni comunicati dalla stessa architettura della città omonima.
Difatti, i simboli proposti dal titolo sono esposti attraverso una scelta registica singolare: la città di Silent Hill è, in realtà, un ecosistema pieno di vita la cui topologia riflette il contenuto psichico del soggetto. Ogni singolo interno visitato dal videogiocatore, compresa la nebbia onnipresente all’esterno, è una manifestazione della situazione emotiva del protagonista. Ogni luogo che visiteremo è desunto dalla psiche di James, il personaggio principale.
Le premesse narrative sono le seguenti: James riceve una lettera da Mary, sua moglie, nella quale lo invita a farle visita a Silent Hill, nel loro posto speciale. La particolarità di questa lettera sta nel fatto che Mary sia in realtà deceduta ben tre anni prima della missiva. Ciononostante, mosso da una irrefrenabile curiosità e da un importante desiderio di rivederla, James parte per Silent Hill non sapendo che infine dovrà inaspettatamente fare i conti con sé stesso.
La città, infatti, lo ha chiamato – nel gioco ricorre più volte come i vari personaggi siano stati chiamati dalla città – perché potesse scrutare nell’abisso della sua psiche così da poter far luce su alcune scomode verità rimosse. Silent Hill, pertanto, può sostanzialmente pensarsi come una sorta di cittadina senziente nella quale vengono attratti tutti quelli che hanno dei fardelli importanti che pesano sulla loro persona. Silent Hill è una terra di peccatori per i peccatori. Al contempo non è però un luogo di punizione o perdizione, come lo è ad esempio l’inferno dantesco: Silent Hill, nella geografia della Commedia, potrebbe essere paragonabile più al monte purgatoriale che alla voragine infernale.
Metaforicamente parlando, è come se l’intera città fosse, per James e gli altri coprotagonisti, una sorta di grande terapeuta freudiano indagante i meandri del loro animo. L’emersione dei contenuti rimossi e dei conflitti intrapsichici perché dalla loro comprensione possa esserci una catarsi dell’animo è, dunque, l’obiettivo finale sia della Silent Hill città che di Silent Hill 2 come gioco, il quale è espressamente al giocatore oltre la soglia che punta il dito.
Complessità è, con mia grande convinzione, la categoria di volta del contemporaneo con cui poter interpretare l’umano tanto calato nella storia quanto nella sua considerazione singolare. L’umano è una cosa complessa, la cui pluralità è stata esposta soprattutto con gli studi psicoanalitici freudiani. Nondimeno, la sua stratificazione lo rende non solamente una sfinge, una sorta di enigma attraente da risolvere, ma anche un’entità che chiusa nell’ingarbuglio della propria coscienza eccede la sua stessa consapevolezza di sé. Sotto un certo profilo, l’umano è un essere manchevole della sua umanità, ed è proprio questa caratteristica di mancanza – data da una modalità inconscia della propria psiche – a caratterizzarlo forse in quanto cosa al mondo unica e curiosa. Ma anche rotta, alle volte psichicamente cortocircuitante, e spesse volte irrequieta.
Silent Hill 2 parla proprio di questo strappo presente nell’umano, e perciò presenta dei protagonisti che definirei, a ragione di quanto sopraddetto, individualità bucate. James, Angela, Eddie, Mary e Maria sono delle personalità sofferenti della loro stessa umanità: patiscono il fatto di essere rotti, la qual cosa è ciò che al contempo li rende ontologicamente umani. Sono indissolubilmente legati alla loro stessa sofferenza e quindi sostanzialmente spaccati. Così come il terapeuta, nelle sedute di analisi, tenta di risanare i conflitti intrapsichici del paziente facendogli riemergere i contenuti inconsci rei delle nevrosi, così Silent Hill, intesa come grande infrastruttura terapeutica, cerca di ricongiungere i personaggi con la loro umanità inconscia.
Come accennato, James non è il solo a trovarsi in Silent Hill, ma con lui ci sono almeno altri tre coprotagonisti: Eddie, Angela e Maria. È naturale domandarsi come sia possibile che nella Silent Hill di James si trovino altre persone, se ogni struttura della città è influenzata dallo stato emotivo del protagonista: ci sarebbe una confusione ingestibile a causa dei vari livelli psichici appartenenti ad ogni persona. Una soluzione si estrapola proprio dal buco che costituisce ogni persona: per quanto le individualità bucate sprofondano nella loro stessa psiche, aprendo una voragine per il proprio inconscio, è anche vero che, rispetto al buco, vi è un al di qua dal quale possono affacciarsi gli altri soggetti. Siamo bucati, ma invero non propriamente imperscrutabili.
James incontrerà più volte gli altri personaggi e, con ciò, stipulerà con loro un rapporto di confidenza abbastanza stretta perché, infine, ognuna delle loro storie si possa risolvere in una locazione di Silent Hill interna alla psiche non più di James ma degli altri coprotagonisti. Le storie di Eddie ed Angela, infatti, terminano in alcune stanze singolari, fuorvianti rispetto all’architettura a cui si sarà fatta l’abitudine. E questo accade proprio perché, nei vari incontri, ogni individuo si sarà avvicinato di più all’altro e, lentamente, si sarà formata una relazionalità abbastanza confidenziale da far avvicinare gli animi quanto basta per vederne l’abisso. È un simbolismo costruito su base architettonica che penso ben restituisca il modo dei rapporti umani: non credo si sia troppo lontani dal vero asserendo che la verità delle relazioni si fonda su quanto ogni soggetto conosca gli abissi aberranti dell’altro.
Disponendo di una narrativa infarcita di questi elementi, è deducibile come gli eventi del gioco portano costantemente a rivelazioni inquietanti circa la figura del protagonista. Verso la fine del gioco si verrà messi alle strette: dopo aver recuperato una videocassetta girata da James stesso anni addietro, il televisore al quale la proietteremo rivelerà che sì, Mary è morta, ma per mano di James stesso. Al contempo, quello di James non è un assassinio animato da intenzioni maligne, come scopriremo nel finale. Infatti, bisogna premettere come Mary fosse gravemente malata e che non riuscisse ad accettare né la sua condizione né la sua morte certa. Per queste motivazioni, inveiva contro James, gli era diventata scontrosa: non riusciva più a testimoniargli l’amore che provava nei suoi confronti.
La dinamica della malattia e soprattutto del fardello di essere malati è una delle questioni fondamentali intavolate da Silent Hill 2. Una malattia importante che compromette le funzioni vitali di base, negando ogni forma di socialità e la cui accettazione è difficile, invalida non solamente la vita di chi ne soffre direttamente ma anche l’esistenza di chi ne patisce indirettamente. James era asservito a Mary, ai deliqui provocatili dal peso di star inesorabilmente morendo. Un lungo corridoio prima dell’area finale evidenzia, con un dialogo al solito tanto semplice quanto elegantemente conturbante, le contraddizioni emotive di Mary:
“– Mary…
– Cosa vuoi, James?
– Io, uh… ti ho portato dei fiori.
– Fiori? Non voglio nessun dannato fiore. Va’ a casa e basta.
– Mary, ma che cosa dici?
– Guarda! Sono disgustosa! Non merito alcun fiore. Tra la malattia e le medicine, sono diventato un mostro. Che cosa stai guardando? Vattene via! Lasciami da sola e basta! Non servo a nulla. Tanto sarò morta a breve. Forse oggi, forse domani… sarebbe più semplice se mi uccidessero. Ma penso proprio che l’ospedale ci stia guadagnando bene da me, è nei loro interessi che io viva. Sei ancora qui? Ti ho detto di andartene! Sei forse sordo? Non ritornare! James… aspetta… ti prego, non andartene… rimani con me… non mi lasciare sola. Non intendevo dire davvero quello che ho detto. Per favore, James… dimmi che andrà tutto bene. Dimmi che non morirò. Aiutami”.
Com’è immaginabile, sulle spalle di James preme una responsabilità ingente data sia dal doversi puntualmente prendere cura di una persona la cui vita è in bilico, sia dalla sensazione di claustrofobica impotenza. James non può aiutare la moglie e dovrà anche imparare a vivere nella sua mancanza. Dovrà caricarsi dell’assenza di chi più amava, e dovrà fare i conti con la terribile memoria delle sofferenze e delle difficoltà passate. Così, l’atto estremo: al giocatore l’interpretazione, James soffoca Mary con un cuscino. Dunque, l’intero viaggio del protagonista per le lande nebbiose di Silent Hill è necessario perché riporti alla mente questa verità che aveva rimosso. Ma soprattutto, è un viaggio che ha a che vedere con l’accettazione degli eventi: Mary, come si evince dalle – me lo si lasci dire – bellissime scene oniriche finali, voleva morire, ed anzi prega James di smetterla di arrovellarsi sull’accaduto, di vivere la sua vita senza rimorsi. Di vivere, finalmente, per sé stesso. Non solamente Mary dichiara così un amore autentico nei confronti di James, ma comunica un’umanità sincera, descriventesi in emozioni genuine: Mary più di tutti concepisce l’abisso in James, più di tutti considera il suo buco voraginoso, e con spassionati sentimenti tenta di salvare la persona che più ama dal suo stesso baratro. In questo modo, Silent Hill ha completato il suo processo di terapia abreativa: James ha ricordato ed accettato le sue colpe rimosse.
È chiaro che, nonostante il perdono di Mary, l’uccisione di James apre a delle riflessioni di natura bioetica interessanti, specie in relazione alla bontà del suo gesto estremo come forma di eutanasia. Prima di tutto, mi sento di dire che Silent Hill 2 sia una storia sull’eutanasia. Le esternazioni di Mary circa la sua sofferenza ed il fatto che avrebbe preferito morire sono un plausibile movente di convincimento per James all’atto del soffocamento. Tant’è che, ad esempio, nel finale lui stesso sostiene come «È per quello che l’ho fatto, amore. Non potevo più vederti soffrire».
Tuttavia, i caratteri etici della scelta di James sono controversi, partendo dal presupposto per cui l’eutanasia sia una procedura medica, non certamente un’azione rimessa all’individuo. E questo è tanto più vero se la morte viene data violentemente come nel caso di James: non è neanche più considerabile un’eutanasia, giuridicamente parlando. Bisogna dirlo senza mezzi termini: l’atto di James è eticamente problematico perché rasenta l’omicidio. James afferma la sua volontà uccidendo Mary, e questo è chiaro soprattutto quando, nel finale, confessa come la sua malattia lo avesse ostruito, negandogli una vita. Aveva addirittura cominciato ad odiare la sua esistenza castrata. Questo tinge di sfumature ancora più grigie la questione.
Ad oggi, l’eutanasia non è legale in molti stati dell’Unione Europea. In Italia nello specifico, vi sono un agglomerato di leggi dalla insicura interpretazione che sconfinano nel giudizio penale. Addirittura, secondo l’art. 575 del c.p., l’eutanasia attiva – quella farmacologicamente indotta – è una forma di omicidio volontario, e pertanto perseguibile come vero e proprio reato. Le motivazioni dietro l’inaccettabilità giurisprudenziale dell’eutanasia sono molteplici, e spesso e volentieri riconducibili a cause di natura tanto religiosa quanto culturale. Sostanzialmente, sarebbe impensabile che vi sia una copertura di diritto sulla morte laddove lo Stato tenta di preservare la vita attraverso una regolamentazione certosina.
Dal mio canto, credo che una riconsiderazione strutturale del concetto di vita sia imprescindibile affinché si giunga ad un punto di svolta nel discorso sull’eutanasia di diritto. Il diritto all’eutanasia è comunemente accostato al diritto alla morte. Mi trovo d’accordo, soprattutto se una contestualizzazione più puntuale del significato di essere-in-vita porta ad una revisione positiva del senso della morte. Mi spiego meglio, prendendo spunto dalla filosofia heideggeriana: la vita autentica dell’uomo si rivela attraverso il fatto di essere-per-la-morte. Quando prendo consapevolezza del mio essere transeunte, ricodifico il valore della mia esistenza esponendola al progetto: mi rendo conto di essere una cosa sottoposta alla temporalità e tento di descrivermi consapevolmente nel tempo di cui dispongo. Penso ad un obiettivo che identifico come fondante la mia presenza: sapendomi per la morte, configuro il senso della mia vita su un progetto in vista del quale possa determinarmi come individuo sensato.
L’argomentazione alternativamente ontologica ed esistenziale di Heidegger cede una visione bioetica del senso della morte particolare: la morte è quanto ricostituisce autenticamente il valore della vita. Per questa motivazione, l’eutanasia è un modo del soggetto di potersi disporre consapevolmente nei confronti di una condizione invalidante. Sia essa una malattia perniciosa, o una disabilità compromettente le funzioni vitali e/o sociali di base, l’individuo che rispetta la forma della vita è portato a considerare la morte come possibilità di scelta. Se la vita come tale si esplica attraverso la forma del progetto, ma anche attraverso la forma della socialità e dello stare-insieme, è evidente che una compromissione totale di queste possibilità sopprima non solo la soggettività stessa, ma anche la vita della quale dovrebbe essere piena. Fattualmente, non ci sarebbe alcuna vita né alcuna forma di vitalità.
Chiaramente, non miro ad una risoluzione perentoria della discussione sull’eutanasia di diritto, che rimane un argomento rimesso in ultima battuta alla giurisprudenza. Ciononostante, credo che una analisi filosoficamente ponderata possa aiutare a vederci chiaro. In questo caso, penso sia una buona idea partire da una riformulazione di concetto che indaghi nel senso della vita e nel concetto della morte: attraverso queste righe, ho tentato di formulare un’ipotesi di lavoro che potrebbe, in futuro, essere oggetto di uno studio maggiormente organico e diffuso.
Silent Hill 2 è una storia sull’eutanasia. Ma sarebbe riduttivo. Silent Hill 2 è una storia sui complessi di colpevolizzazione di un marito che autonomamente pratica una discutibile forma di eutanasia. Ma sarebbe semplicistico. Silent Hill 2 è una storia di amore, ma sarebbe superficiale. Silent Hill 2 è una storia sul dolore ed il peso di essere malati, ma sarebbe facilone. Silent Hill 2 è una visione videoludica sui processi di rimozione freudiani. Ma sarebbe limitante. Silent Hill 2 è un’esperienza, ed in quanto tale deve essere vissuta con lo stesso ampio respiro con cui si vivono quegli eventi che, dopo, non ci lasciano essere più gli stessi.
Simone Santamanto