Mithra e la misteriosofia romana della Luce – Luca Valentini
Schopenhauer come educatore musicale – 5^ parte – Stefano Eugenio Bona
“Vi sono tre immagini dell’uomo che la nostra epoca moderna ha eretto una dopo l’altra e dalla cui visione i mortali prenderanno ancora a lungo l’impulso per una trasfigurazione della loro vita: l’uomo di Rousseau, l’uomo di Goethe e infine l’uomo di Schopenhauer. Di queste la prima è la più ardente e può contare su di una azione più popolare; la seconda è fatta soltanto per pochi, per coloro cioè che sono nature contemplative in grande stile, ed è fraintesa dalla massa. La terza esige di essere considerata dagli uomini più attivi: giacché soltanto costoro la contempleranno senza danno, essa infatti snerva i contemplativi e spaventa la massa. Dalla prima è derivata una forza che ha spinto ed ancora sospinge a tempestose rivoluzioni; infatti in ogni fremito e terremoto socialista è sempre l’uomo di Rousseau che si muove…L’uomo di Goethe in un certo senso è addirittura il correttivo e il calmante proprio di quei pericolosi eccitamenti, di cui l’uomo di Rousseau è in balìa…L’uomo di Goethe è una forza conservatrice e tollerante: con il pericolo che degeneri in filisteo, così come l’uomo di Rousseau può facilmente diventare un catilinario….L’uomo di Schopenhauer assume su di sé il dolore volontario della veridicità, e questo dolore gli serve per uccidere la sua volontà personale e per preparare quel completo rovesciamento e quella completa conversione del suo essere, nel cui raggiungimento sta il senso vero e proprio della vita…Colui che volesse vivere schopenhauerianamente assomiglierebbe probabilmente più a un Mefistofele che a un Faust: per gli occhi deboli dei moderni, cioè, i quali dalla negazione scorgono sempre il contrassegno della cattiveria…“(1). Per lanciare un’ultima occhiata sul lascito schopenhaueriano, occorreva questa tripartizione dell’umanità attraverso Rousseau – Goethe – Schopenhauer (istinti – anima – intelletto realmente emancipato, nella visuale del primo Nietzsche…), dallo scritto da cui abbiamo mutuato il titolo del nostro saggio. Mossi da un unico anelito: tracciare l’ordito, la rilettura della musica come fase preparatoria all’ascesi personale di ognuno, quest’ultima libera da dogmi e religioni, poiché di proprietà personale di chi la conquista, attraverso una netta emancipazione dallo stato di ragion sufficiente. Su quella soglia A.S. si ferma, ma fino ai cancelli accompagna come pochissimi pensatori moderni hanno saputo fare. Viene da riflettere: avesse avuto in sé anche una fase esoterica su ciò che si spalanca dopo la fine della ratio, staremmo parlando di un Maestro tout court, anche davvero a livello sperimentale-operativo. A dire il vero non in tal guisa ma in termini di studio attentissimo, alcuni frammenti del mondo occulto e della magia sono stati da lui affrontati, lo vedremo in altra occasione.
Abbiamo accennato ai molti che si sono riallacciati alla concezione musicale in Schopenhauer, ma non tanti si sono soffermati sulle gradazioni in cui si oggettiva la volontà attraverso di essa. Ovvero su ciò che è in movimento nei diversi stili musicali. Davvero ogni musica fortemente percussiva è indice della più bassa oggettivazione della volontà, l’esatto contrario del rapimento in levitas, nell’estetica schopenhaueriana. Quante conferme, vedendo il modo in cui si di-verte l’Occidente sfatto: il ritorno alla tribalità vuole suoni ossessivi, portati avanti dalle vibrazioni elementari di una ritmica scatenante l’opposto del vero dionisismo, schizofrenia con cui si celebra il nichilismo. Il basso continuo è indice di una volontà di affermazione del ctonio, la spina dorsale portante del mondo che si compiace della sua pulsione animale. Praticamente è dai toni più gravi a quelli flebili ed eterei che si oggettiva la volontà e si traccia la scala ascetica attraverso la musica, e su questo crediamo che ognuno possa intendere quale sia la natura che si continua a rispecchiare nella musica per le masse… Eppur così come la musica è l’arte più immateriale, all’interno di essa stessa bisognerà ricercare le composizioni aurorali, quelle sole che possono far abbandonare le pulsioni elementari, rappresentate dalla sezione ritmica portata all’eccesso. Non dobbiamo scoraggiarci in nome di conservatorismi sterili, poiché come scriveva Plinio “Io, che pur ammiro gli antichi, non son tuttavia, come certuni, dispregiatore degli ingegni del tempo nostro, come se la natura quasi fosse stanca e rifinita e non procreasse più nulla d’insigne” (2).
Se negli esempi più nobili all’interno del rock abbiamo avuto possibilità espressive e di ricerca che, in contaminazioni, hanno prodotto arte, così non si può dire per l’accompagnamento da basso ventre che prende via via i nomi di rap, reggae o altro. Se analizziamo qui gli elementi non sono di fuga dal reale in quanto illusione, ma sono essi stessi la colonna sonora di un permanere configurati nei bisogni e nella rappresentazione. Ovvero accompagnamento e volontà di perpetrare la propria individualità egolatrica, separata e nella brama di affermazione dei meccanismi di sopravvivenza, in un branco piuttosto che in un altro. Così si estirpa questo modo di procedere: “Se il compositore ha saputo tradurre nel linguaggio universale della musica i moti della volontà che formano il nocciolo di un avvenimento, allora la melodia della canzone, la musica dell’opera, saranno espressive. Ma bisogna che l’analogia trovata dal compositore derivi da una conoscenza immediata (cioè tale che non sia presente alla ragione) dell’essenza del mondo; e non sia già un’imitazione costruita per via di concetti (ci si conceda: tutta la musica della gravitas…), e con una consapevolezza intenzionale: altrimenti la musica non esprimerebbe l’essenza intima, la volontà in sé, ma non farebbe che imitare imperfettamente il fenomeno “(3) – La musica non deve descrivere alcunché ma porsi in carica evocativa di ciò che trascende le possibilità espressive delle altre arti, quelle sì sempre in rapporto mimetico col mondo; se si imita il fenomeno, prosegue, si ha rappresentazione come “nelle Stagioni di Haydn e della sua Creazione, dove in molti luoghi sono imitati direttamente i fenomeni del mondo intuitivo; come pure nella musica descrittiva di battaglie: tutta roba da buttar via” (4). Se ci spostiamo sulla gerarchia d’arte, avremo delle conseguenze metafisiche specifiche…Un intelletto non-liberato e incatenato alla Volontà non può comprendere la sua teoria musicale, ci direbbe Arturo da Danzica, e non differisce da quello di quei sofisti che non ricercavano la cosa in sé, ma incarichi ministeriali.
La destinazione della musica nel percorso storico ha però portato ad un ribaltamento generale contro la musica tonale: dodecafonia, serialismo, minimalismo, sperimentazione elettronica, la micropolifonia di Stockhausen, tutto un fiume in cerca di nuove connessioni, spesso estremamente complicate ad un primo ascolto. Chissà se Schopenhauer avrebbe visto questa esplosione del cromatismo musicale (anche sulla scorta della dilatazione estrema del Tristano, opera cruciale per navigare verso l’atonale) come un allargamento delle potenzialità o come una cerebralizzazione e una disarmonia. Certamente l’impatto della musica tonale è più organico e diretto, ma anche fuori dagli sviluppi della classica, non sono davvero da schedare le possibilità del moderno come mera musica da Kaly Yuga. Pensiamo ai trasbordi folk europei (tradizionali, apocalittici e anche mescolati al prog), ove predominano elementi bardici di arcana suggestione mescolati al moderno (Comus, Strawbs, Fairport Convention, ecc.), oppure alle peripezie space-psichedeliche (Pink Floyd, Hawkwind, Gong, ecc.): vortici sonori ove la generazione del dopoguerra, tra ’60 e ’70 riversava aneliti ben più alti, affrancati spesso dalla zona del puro divertimento di ventre, per un salto immaginale e creativo anche in maniera imprevista e non del tutto volontaria (il musicista è sonnambula magnetica quando è rapito nella creazione, dice Schopenhauer). Rispetto a molta musica considerata più alta, è nel folk che permane una capacità antipercussiva, in quell’echeggiare che va dal Mabinogion gallese ai flussi bretoni, dalle melodie solari italiche a quelle più cupe dei Carpazi, fino al tono crepuscolare di molta produzione norrena, noi abbiamo esempi saldi di vibrazioni non macchiate da eccessi di ritmo e basso. La new wave, la new romantic e il pop migliore (Ultravox, Depeche Mode) rappresentano una nostalgia per l’armonia in un tempo di irrigidimento delle forme…L’elettronica più raffinata (Klaus Schulze, Kraftwerk, Tangerine Dream) e l’ambient (Brian Eno) sfruttano le possibilità offerte dalla tecnologia per cercare di oggettivare le Idee sul futuro, o meglio sul futuribile immaginativo-scientifico a cui danno accesso alcune sonorità ora possibili. E poi la rappresentazione del disagio esistenziale o sociale (il punk, l’industrial, il metal estremo): musica della gravitas, ma con alcune intuizioni sulla lacerazione vissuta dalla gioventù occidentale nei territori della Morte di Dio. Ovviamente in tutti è pressante l’aspetto degenerativo, dopo i primi dischi, poiché forte la pressione del music business, pressante la tentazione di diventare macchiettistici e quindi essere mera rappresentazione (resistere a ciò determina il grado di liberà dell’artista), ma alcune opere al di fuori dal canone classico non demeritano un’oggettiva considerazione nella storia della musica.
Mentre nell’ottica schopenhaueriana il rap è davvero rappresentazione di una micro-volontà di sopravvivere. Accompagnamento testuale che soffoca e implode sotto un tema ridondante affermazione egoica, di chi si considera agente-medium dalle “altezze” delle barbarie dell’arena metropolitana. Reggae – musica in levare per ancorare la mente in una dispersione, in una solarità fasulla autoimposta da un vitalismo e da una sensibilità che non appartiene agli slanci metafisici europei.
La musica, come ogni altra arte, se rimane compiacimento tecnico è rappresentazione: non deve il musicista imparare uno strumento per dimostrare alcunché, ma per educarsi in simbiosi a sviluppare armonia dentro di sé e poi, circolarmente, ricondurla fuori, fluendo in una reale sospensione delle categorie abituali del pensiero razionale, dell’effetto sui sensi o dell’accompagnamento. La musica totale deve essere incomunicabile, essa stessa il contenuto del messaggio che vuole rivelare, un fluido magico capace di penetrare oltre la scorza e gli indurimenti dell’ego (il Nafs dei sufi). Perciò un “genere” ritenuto colto, se pomposamente impastoiato nell’esibizione, sarà meno profondo di un genere apparentemente più limitato, se quest’ultimo si sviluppa in un maggior abbandono delle categorie ordinarie, ovvero ove ”l’uomo è completamente distinto e separato dall’artista” – il vero atto del comporre non può prescindere da ciò. Mentre il ribaltamento dissolutorio è precisamente questo: rappresentazione dell’individuo nella sua varia umanità, come se essa fosse sufficiente ad esser materia e soggetto d’arte. Chi non compie una purificazione da tempo-spazio e causalità non può dominare e direzionare nel campo del puro intuito. L’artefice che si muove nel campo delle Muse, se non dotato di sufficiente centratura interiore, d’altronde, rischia di rimanere solo la “sonnamula magnetica”, a rischio di disperder il proprio potenziale.
L’astrazione dell’artista dalla società segue infatti queste dinamiche: tornando indietro allo stato abituale e dormiente dopo il lavorìo creativo, egli sarà certamente preda di nostalgia “per quel paradiso perduto”, come lo definisce Schopenhauer. Ritornare alla vita comune è dura perché l’artista, oggettivando la Volontà attraverso di lui, perde la propria via soggettiva e si è come dimenticato di farsi spazio nel regno dove domina l’orizzonte del principium individuationis, che nell’umanità corrente anzi, di necessità, porta a costruire un socialità illusoria in cui oliare ed affermare i propri meccanismi.
Anche la differenza tra talento e genio rientra in questo specchio: il primo viene rilevato come risultanza tra i propositi più alti del dato individuo e la effettiva realizzazione pratica di essi, una qualità che è un “tendere –a”, ma sempre attraverso uno sforzo di affermazione personale, con il secondo non ci si accorda tra volontà di una direzione ed un progetto, si è la propria visione (ennesimo non-concetto cardinale nell’estetica di Carmelo Bene…). Il pessimismo (ovvero il realismo) sull’impossibilità di inutili ammaestramenti per tirare fuori ciò che non v’è, richiama l’innatismo gnoseologico, poiché un talento si può esprimere anche all’interno di chiese e conventicole, mentre il genio non sopporta la vista degli incantatori di serpenti, è solo e apre le porte con la propria testa d’ariete (da prendere con le molle i seguenti termini di “salvezza” e “dannazione” e non intenderli solo in senso cattolico…): “Applicarsi alla pratica, regolare la condotta, riformare il carattere, sono vecchie pretese a cui, dopo una riflessione matura, si dovrebbe ormai rinunziare. Qui, dove si tratta del valore di un’esistenza, di salvezza o di dannazione, ciò che decide non sono già i morti concetti della filosofia, ma l’intima natura dell’uomo: il demone che lo guida, e che non scelse, ma ne fu scelto (come dice Platone), o il suo carattere intelligibile (come si esprime Kant). La virtù, come il genio, non s’insegna; per la virtù, come per l’arte, il concetto è sterile e può appena servire da strumento. Aspettarsi che i nostri sistemi di morale formino i virtuosi, i nobili e i santi, o che le dottrine dell’estetica formino i poeti, gli scultori o i musicisti, sarebbe del pari una pazzia” (5).
In chiusura noi crediamo una cosa sopra le altre: nella metafisica della musica di Schopenhauer non si soddisfa il lato d’evasione dal reale, come nell’esangue spirito di un qualche romanticismo deteriore, ma si applica un punto fondamentale in cui il vertice dell’esperienza umana è un fattore estetico, che non giustifica il mondo come nel famoso aforisma nietzscheano, ma lo sana momentaneamente. L’arte e la musica sono il vertice prima di inoltrare la propria esperienza in quel che lui chiama l’uscità dal Mondo come Volontà e Rappresentazione, ma che in altra prospettiva è pure fase preparatoria, di trasmutazione vera (ove si esca dal principium individuationis) per una via iniziatica. E lì, in quel punto, siamo nel regno che designa nel paragrafo 71, verso la fine del Libro, ove afferma che se si volesse concepire in maniera positiva lo stato illuminativo non si potrebbe “propriamente chiamare conoscenza, poiché non ammette più la forma della distinzione tra soggetto e oggetto, e appartiene solo all’esperienza personale; è assolutamente impossibile comunicarlo agli altri“. – E dal punto di vista della filosofia, dice “dobbiamo accontentarci della nozione negativa”. Di questo libro immortale rimane l’esatta cifratura in linguaggio intelligibile, nell’utilizzo della scepsi continua la ragione non perde di vista la sua parzialità e al contempo opera in modo congruo, come inquadrò opportunamente Giorgio Colli: “In Schopenhauer parla l’intelligenza matura di una civiltà. È l’ultimo possessore di una ragione sana, di una ragione cioè che sta con la sua origine metafisica – la volontà – in un rapporto ben definito, costante e armonico. Ciò è rappresentativo di civiltà matura, sul piano del pensiero, allo stesso modo che per una civiltà matura, sul piano politico, è rappresentativo il rapporto tra nomos e physis…”(6).
Le profonde intuizioni parimenti certificano una mente svincolata dalle pastoie della ragione associativa, una personale realizzazione, poiché anche se si permane sul piano della filosofia non si può fare a meno di notare come Arturo da Danzica sia su un piano differente, ad ogni lettura. Come Nietzsche può benissimo essere più poeta che filosofo (tale l’opinione di D’Annunzio), così Schopenhauer può essere considerato sapiente: colui che ha tracciato le più profonde coordinate sul senso del Nulla, nel cuore ormai formicolante e moderno dell’Occidente. Il senso di abnegazione e sacrificio a cui porta una visione profondamente ascetica, dovrà successivamente (e contemporaneamente) tradurre gli attimi di felicità estetica attraverso lo streben massimo e finale:
“Una vita felice è impossibile: il massimo che l’uomo può raggiungere è una vita eroica. Conduce questa vita colui che, in una maniera e per un motivo qualsiasi, combatte per ciò che in qualche modo giova a tutti, contro le più grandi difficoltà e alla fine vince, ma nel far ciò è male o niente ricompensato. Quando ha finito si trova pietrificato, ma, come il principe del Re Corvo di Gozzi, in nobile atteggiamento e magnanimo aspetto. La sua memoria rimane ed è celebrata come quella di un eroe, la sua volontà, mortificata per tutta una vita dalla fatica e dal lavoro, dai cattivi risultati e dalla ingratitudine del mondo, si dissolve nel Nirvana” (7).
Note:
1 – Friedrich Nietzsche, Schopenhauer come educatore – Considerazioni Inattuali III, Classici Adelphi, Vol. III – tomo I, Milano, 1972, pp. 367-370;
2 – Sum ego is, qui mirer antiquos, non tamen ut quidam temporum nostrorum ingenia despicio, neque enim, quasi lassa et effeta natura nihil jam laudabile parit – Plinio, Epistulae VI 21.1;
3 – Il Mondo come Volontà e Rappresentazione, Op. cit., p. 381;
4 – Ibid.;
5 – Ibid., p. 389;
6 – Arthur Schopenhauer, Parerga e Paralipomena I (Prefazione), Adelphi, Milano, 1981, p. 9;
7 – Citato in Schopenhauer come educatore, da Parerga e Paralipomena II.
Stefano Eugenio Bona