Schopenhauer come educatore musicale – 3^ parte – Stefano Eugenio Bona
“Lo studio della musica, nel vasto senso platonico, secondo il quale la “musica” abbraccia tutte le arti su cui presiedono le muse nella mitologia greca, dovrebbe portarci a saper intendere con finezza tutti i caratteri superiori della natura dell’uomo” (1)
L’estetica di Schopenhauer iniziò a diffondersi fin dai suoi ultimi anni di vita, in cui usciva dall’isolamento, e l’esaltazione della musica influenzerà il romanticismo più maturo. Tra gli idealisti tanto vituperati, al solo Schelling concede una qualche sensibilità (e possibilità), visto che nel Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) l’arte è strumento primario nel giungere agli oggetti della contemplazione: “l’arte è organo massimo della filosofia”. Infatti l’intuizione estetica, in lui, è sopraelevata rispetto alla filosofia e se Fichte ammoniva circa un Io assoluto irraggiungibile, che si realizzerebbe solo in tutte le esperienze, cioè nell’infinito, per Schelling è l’arte l’unico mezzo per avere manifestazione tangibile di questo assoluto. D’altronde se la filosofia non si erge a sapienza, è con l’arte che potremo avere notizia del vibrazionale in cui getta l’azione mercuriale, essa trasforma, mentre il concettualismo imbriglia e irrigidisce.
Il genio creativo è connesso in Schopenhauer alla facoltà di trascendere il fenomenico, in direzione della contemplazione delle idee, ovvero l’attitudine a mantenersi nella pura intuizione, perdendovisi; a redimere dalla schiavitù della volontà la conoscenza che le era originariamente asservita; in altre parole, bisogna perdere affatto di vista il proprio interesse, la propria volontà, i propri fini; bisogna per un certo tempo estraniarsi completamente dalla propria personalità, per non restare che puro soggetto conoscente e limpido occhio del mondo; e ciò non per un attimo, ma per tanto tempo e con tanta riflessione, quanto è necessario per poter riprodurre le proprie concezioni con i mezzi ben meditati dell’arte, e “per fissare in pensieri eterni ciò che fluttua nell’onda dei fenomeni” (Goethe, Faust, I, vv. 348-49). (2) Nel secondo Ottocento che si emancipa dalla quadratura hegeliana e lo inizia a recepire, la metafisica delle arti di Arturo da Danzica è presente in tanta letteratura (e pittura) simbolista (insieme a Baudelaire è un polo sicuro per ogni sì all’intuizione, contro positivismi, naturalismi e varie “religioni” del sociale…) e poi in Nietzsche, che se critica, integra e supera alcune istanze, perviene alla propria marcata concezione tragica pur passando dal Maestro: in entrambi essa coincide con il dramma dell’individuazione, ove lo spleen tutto greco è quello del contrasto tra l’esser confitti in una forma e l’aspirazione a superar se stessi. Da questi due poli si apre la scena e si squarcia il velario sulle possibilità di determinar la propria volontà: nell’uscita da essa come uscita dal mondo (chiaramente per argomentare solo questa questione, ci vorrebbe un libro a parte) v’è risoluzione, per Schopenhauer, mentre per Nietzsche la Volontà di potenza (Wille zur Macht) è la legge nel fondo del fondo dell’eterno ritorno. Inoltre il tragico è, nel terzo libro del Mondo, l’obiettivazione suprema della volontà in conflitto con il sé: esso getta luce sull’inconsistenza del fenomenico e induce a momenti in cui si intravede un sommovimento dietro il velo di Maya. Proprio in queste scosse, nella momentanea chiarificazione in cui l’individuo getta uno sguardo profondo sulla sua limitatezza, si mette in moto il sublime, su cui è pertinente una breve trattazione.
Aristotele usa il termine in modo contiguo con il tragico, visto che per lui la tragedia costituisce la “mimesi di un’azione seria” e suscita “pietà e terrore”. Altro concetto chiave di ogni estetica e dalla storia lunga; il punto d’avvio di ciò che rota qui attorno viene fatto risalire a un passo del Fedro di Platone ove si parla di una “forma di esaltazione e delirio che quando occupa un’anima tenera e pura, la sollecita e rapisce nei canti e in ogni forma di poesia…”. Per distinguere la categoria del bello da quella di sublime la chiave di volta è però Edmund Burke, con l’Indagine filosofica delle nostre idee sul sublime e sul bello (1757); persino Kant riproporrà le sue analisi nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764) e poi nell’Analitica del sublime della Critica del giudizio (1790). In Burke sublime è “ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia in grado di sentire”. Il pleasure è un piacere positivo e armonioso, il sublime negativo-indiretto delight, paragonabile all’adrenalina per uno scampato terrore: preciso punto per comprendere quadri portentosi come quelli di Martin e Turner… “La mente è così assorta nel suo oggetto, che non può pensarne un altro, e per conseguenza non può ragionare sull’oggetto che la occupa” – Prospettiva quindi aperta al tragico che davvero convoglierà fino a Nietzsche…Del resto l’esistenza giustificata sol come fenomeno estetico, è nella linea Schopenhauer-Wagner-Nietzsche a sostanziarsi. Questo è prender le distanze da un significato morale del mondo – Il Dio artista nominato nella Nascita della Tragedia, ove per Nietzsche (sardonicamente) si annunzia, forse per la prima volta, un pessimismo al di là di bene e male (3), nel filosofo del superuomo in realtà mai tale, poiché sempre colà ricorderà la diversità con il vecchio maestro, nel Tentativo di Autocritica: Come pensava infatti Schopenhauer sulla tragedia? “Ciò che dà alla visione tragica il particolare slancio di elevazione (Mondo come volontà e rappresentazione II, 495) è il farsi strada della conoscenza che il mondo, la vita non possono dare nessuna vera soddisfazione, e che per conseguenza non meritano il nostro attaccamento: in questo consiste dunque lo spirito tragico – esso dunque conduce alla rassegnazione”. Oh quanto diversamente parlava Dioniso a me! (4) – D’altronde sentirà sempre più distanza da Wagner, proprio nelle divergenze sulla ricezione di Schopenhauer, perno su cui svilupperanno una visione estetica molto differente, fino alla famosa rottura del Parsifal, quando il compositore fu accusato di aver abbracciato la consolazione vera e proprio: il cristianesimo. Emanciparsi da Schopenhauer e Wagner, così essenziali nella prima fase della sua produzione, fu d’altronde il colpo di reni necessario alla sua fase più matura. Sempre sul significato del tragico, in Nietzsche si ha il cambio di prospettiva: dalle ceneri del Mondo sì, ma non come tappa prima dell’affrancamento ascetico, visto che la tragedia è strumento per conoscere il mondo veramente, non solo per affrancarsene. Non v’è nulla di consolatorio e il fondamento metafisico, squarciando il principium individuationis, così disvelato dall’arte, non ha bisogno del salto ascetico, che per Nietzsche è rinuncia alla vita.
Tornando a Burke, dobbiamo notare come sia originale anche rispetto a Kant (per l’assenza di una teodicea nella sua estetica tragica). Nel grande inglese il sublime è una suprema pacificazione del mentale, ma ha anche un fascino ambiguo, minaccioso, perturbante nel profondo dell’animo per la forte emozione a cui sottopone; in Hegel poi il sublime costituisce la seconda fase dello sviluppo dell’arte simbolica ove si rivela compiutamente (pensiamo ai salmi ebraici – ripete egli stesso) l’avvenuta emancipazione del contenuto spirituale dalla forma sensibile. Infine nel Mondo come Volontà e Rappresentazione (completamente ignorato dalla cultura dell’epoca, ebbe nel dicembre 1818 la prima edizione, ma con apposta la data dell’anno successivo) il sublime trascende la posizione kantiana, per prospettarsi come un momento in cui avviene l’intuizione delle forze cieche che dominano l’andamento della natura e dell’universo stesso. La volontà individuale (nei suoi inganni di proiezione dell’io), viene annullata nell’oggetto estetico, mentre se ci si volge indietro, al modo di procedere nel Mondo come Rappresentazione, si avrà l’effetto di una stimolazione su altre rappresentazioni e mai un’uscita dalle categorie razionali. Siccome la mera rappresentazione produce una reazione rientrante nel modo di sentire ordinario, avremo questa conclusione consequenziale: Il sentimento del sublime deriva dal fatto che una cosa recisamente ostile alla volontà, diviene oggetto di contemplazione pura; contemplazione che si può prolungare soltanto in virtù di un completo distacco dalla volontà e di un elevazione al di sopra del proprio interesse…L’eccitante, al contrario, distoglie lo spettatore dallo stato di contemplazione pura che si richiede alla concezione del bello, seducendo la volontà con la vista di oggetti che immediatamente la lusingano; così lo spettatore non si mantiene più all’altezza di puro soggetto di conoscenza, ma si riduce a semplice soggetto del volere, asservito a tutti i bisogni e a tutte le dipendenze. (5) In estrema sintesi: il contrario del sublime è l’eccitante, melliflua sfera che non quieta l’interiorità ma la getta nella brama, ove l’anestetizzazione del gusto e il bisogno di una eccitazione della sfera sensibile sfocia inevitabilmente in un decorativismo borghese, poiché mancando il brivido del sublime, non è neppure di categoria estetica che si può parlare.
Sublime dunque come scotimento profondo della comprensione, a contatto con il tragico, ma la musica in Schopenhauer è ancora di più: La musica non è dunque, come le altre arti, una riproduzione delle idee, ma è una riproduzione della volontà stessa, una sua oggettivazione al pari delle idee[…]In quanto espressione del mondo, è una lingua universale al massimo grado, che ha con la generalità dei concetti più o meno lo stesso rapporto che i concetti hanno con le cose particolari. Ma l’universalità della musica non ha nulla a che fare con la vuota universalità dell’astrazione: è di tutt’altra natura ed è unita ad una determinatezza, ad una chiarezza insuperabili. Somiglia, in ciò, ai numeri e alle figure geometriche. Benché siano forme universali di tutti gli oggetti possibili di esperienza, benché applicabili a priori ad ogni cosa, gli enti geometrici e i numeri non possono dirsi cose astratte; anzi, sono intuitivi e pienamente determinati. Le aspirazioni della volontà, i suoi impulsi, le sue possibili estrinsecazioni; tutto ciò che vibra e si agita nell’intimo del cuore umano e che la ragione abbraccia col vasto concetto negativo di sentimento, tutto può essere espresso dalle innumerevoli possibili melodie… (6) E qui si entra nel preciso stacco rispetto ad ogni altra espressione umana, ovvero quel muoversi nella reale e viva essenza; l’ánemos che soffia e delinea le corrispondenze del mondo, non passa dal travaglio della corporeità dei materiali, non è mimesi come il resto delle arti, ma emanazione che potrebbe esistere anche al di là del fenomenico, nell’intuizione di Arturo S. – la musica è indipendente dal mondo fenomenico; lo ignora, e potrebbe in certo modo continuare ad esistere anche quando l’Universo non fosse più: il che non si può dire delle altre arti. (7) Poiché il suo dominio è nell’universalità della pura forma, senza che vi si mescoli la materia; sempre nell’in sé, non nel fenomeno: l’espressione musicale ci dà, per così dire, l’anima senza il corpo. (8) La musica non si perde mai nei motivi in cui si incarna una tal gioia o un tal dolore, ma emana dalla sorgente metafisica stessa da cui sgorgano le forme di date emozioni, al di là del piano naturale (ovvero del fenomenico), nella quintessenza, perciò non partecipa neppure al gioco delle analogie tracciabili, come invece accade con le altre arti: La musica non ha, con le nostre analogie, che una relazione indiretta: la musica, infatti, non esprime il fenomeno, ma soltanto l’intima essenza, l’in sé di ogni fenomeno, la volontà stessa. (9)
La musica schopenhaueriana ricorda davvero l’Armonia di cui parla il sufismo di Khan, ovvero quella unione di tutte le vibrazioni, da quella più fine a quella più grossolana, fuse in codesta armonia, così come atomo della manifestazione, e sia la creazione che la distruzione avvengono per confermarla. La sua potenza attrae alla fine ogni essere verso la pace eterna. (10) L’uomo è attirato in due direzioni opposte dalla forza dell’armonia, dice Khan: l’infinito e il manifestato, ma la sinfonia perfetta è la consapevolezza di ciò che si sprigiona nella musica nel suo potenziale più alto, e si mastica come cibo dell’anima (Giza-i Ruh) che libera dal corpo e poi dalla mente. Tutto ciò che appartiene al manifestato esce dall’immobilità eterna e silenziosa che i Sufi chiamano Zàt: ogni cosa che non è dato stato produce vibrazioni ed i vari Regni minerale, vegetale, animale e umano sono cambiamenti graduali di esse. Nella musica esiste una differenza di strumenti ad organare il tutto e “nella Valle del fare Anima” è solo una questione di modulazioni di frequenza, che si approssimano eternamente alla scaturigine, facendo presentire in apparente paradosso il Silenzio assoluto, poiché dal punto di vista metafisico non esiste nulla che possa toccare il Senza Forma, tranne l’arte della musica (ci dice a più riprese Khan), intrinsecamente, abissalmente senza forma…Si palesa così una anticipazione della metafisica schopenhaueriana: Possiamo certamente vedere Dio in tutte le arti e in tutte le scienze, ma solamente nella musica possiamo vedere Dio libero da ogni forma e pensiero. In tutte le altre arti c’è idolatria. Ogni pensiero, ogni parola ha la sua forma. Solo il suono è libero dalla forma. Ogni parola di una poesia crea un’immagine nella nostra mente. Solo il suono non fa apparire alcun oggetto dinanzi a noi[…]Fra tutti gli aspetti della conoscenza, quella del suono è suprema, poiché tutti gli aspetti della conoscenza dipendono dalla conoscenza della forma, tranne la conoscenza del suono che è al di là di ogni forma. (11)
La musica non è solo quella che viene codificata come tale, visto che ad un ascolto attento, dovremmo considerare quel “tutte le arti tendono alla condizione della musica” di Walter Pater come la ricerca del vino, nel sufismo – la bellezza che comunica amore e consonanza perfetta, nel rispetto delle proporzioni: Per quanto riguarda ciò che chiamiamo musica nel linguaggio di tutti i giorni, l’agricoltura è musica, la pittura è musica, la poesia è musica. In tutti gli altri aspetti della vita dove la bellezza è stata ispiratrice, dove il vino divino è stato versato, si trova musica. Ma fra tutte le varie arti, quella della musica è stata particolarmente considerata divina, perché è l’esatta miniatura delle leggi che operano attraverso l’intero universo. Per esempio, se osserviamo noi stessi, scopriremo che i battiti del polso e del cuore, l’inalare e l’esalare del respiro, sono tutte attività del ritmo. La vita dipende dall’attività ritmica di tutto il meccanismo del corpo. Il pensiero si manifesta come voce, come parola, come suono. Il suono è udibile in continuazione, il suono esteriore e quello all’interno di noi: ciò è musica. Questo ci mostra che c’è musica sia all’esterno che all’interno di noi stessi. (12)
Elevarsi a comprendere il potere della musica porta a Rumi: ove il flauto accende il fuoco del cuore, non l’intelligenza. La musica è parallela ad una conoscenza più elevata di quella discorsiva e l’orecchio dell’ascolto è lo stesso occhio che vede attraverso un’ottica depurata, fino a sciogliere del tutto il cuore – fino a trovare la propria musica, la propria ri-sonanza.
Note:
1 – Walter Pater, Mario L’Epicureo, Einaudi, Torino, 1970, p. 104
2 – Il Mondo…, Op. cit., p. 274
3 – La nascita della tragedia, Classici Adelphi, Milano, 1972, p. 9
4 – Ibid., p. 11
5 – Il Mondo, Op.cit., p. 304
6 – Ibid., pp. 373 e 379
7 – Ibid., p. 373
8 – Ibid., p. 379
9 – Ibid., p. 378
10 – Hazrat Inayat Khan, Il misticismo del suono, Edizioni Mediterranee, Roma, 1994, p. 23
11 – Ibid., pp. 80 e 108-109
12 – Ibid., pp. 81-82
Stefano Eugenio Bona