Roma non fu costruita in un giorno: l’epos di Andrea Gualchierotti tra Spada ed Inferi – Camilla Scarpa
Negli anni ’60 il musicista jazz Johnnie Taylor cantava “Rome wasn’t built in a day”, detto divenuto celebre nel mondo anglosassone già nel ‘500 grazie al drammaturgo cattolico John Heywood. Ma, se è ben vero che Roma non è stata costruita in un giorno, è vero anche che, nell’ultimo romanzo di Andrea Gualchierotti “I campioni dell’inferno” (Edizioni “Il Ciliegio”, 14 euro), nel 110 d.C. – il cosiddetto Grande Anno, in cui si compie il ciclo cosmico che ha visto la spartizione dell’universo tra Ade, Zeus e Poseidone – la Roma che tutti conosciamo potrebbe cambiare volto o perfino perire. Per evitare una guerra cosmica senza quartiere, i tre dèi decidono dunque di scegliere ciascuno un proprio campione, e di farli scontrare tra loro per determinare il vincitore.
L’umano che vincerà – invero ormai non-più-umano, cioè non-morto, visto che i tre campioni vengono fatti morire in circostanze curiose per convocarli a rapporto in vista dell’impresa – avrà in dono, a mo’ di premio, l’agognato ritorno alla vita, come in una sorta di ribaltamento speculare della scena finale del “Gladiatore”, anch’essa girata in un’arena. Perché “scendere agli Inferi è facile: la porta di Dite è aperta notte e giorno; ma risalire i gradini e tornare a vedere il cielo – qui sta il difficile, questa è l’impresa”, come scrive Virgilio nell’“Eneide”.
Abbiamo usato il termine “vero”, che però, finanche in senso lato, è bandito in riferimento a un romanzo così schiettamente “fantastico” (heroic fantasy del genere “Sword and Sorcery”, a voler essere precisi): piuttosto, l’obiettivo dell’autore è di risultare verosimile nella descrizione del contesto storico – la Roma di Traiano, Urbe multietnica come lo sono i tre protagonisti, un romano, un trace e un isaurico, differenti anche per indole ed estrazione sociale – e soprattutto nella ricostruzione dei pensieri dei personaggi, uomini in carne (un po’ putrida, a dirla tutta!) ed ossa (molte ossa!) della loro epoca e non cloni stereotipati di noi contemporanei.
Ciò che in prima battuta impressiona, e forse inizialmente disorienta, il lettore un po’ digiuno delle ramificazioni (anche… interplanetarie, si pensi al planetary romance di Abraham G. Merritt) e degli sviluppi del genere, infatti, è in primis l’ambientazione, evidentemente frutto di una scelta deliberata: non il solito nord vichingo di “The Northman” o il medioevo arturiano, più o meno “contaminato”, a cui ci hanno abituato i più noti autori di S&S su carta e su pellicola, dai film di Dungeons & Dragons a “The Witcher” e “Neverwinter Nights”, bensì l’Antica Roma, altrettanto gravida di miti e riti, nel caso de “I campioni dell’inferno” e, nel caso di alcuni precedenti racconti dell’autore, il brulicante impero bizantino. Un heroic fantasy mediterraneo, dunque, di ispirazione classica howardiana nello stile, a tratti grandguignolesco e privo della pretesa didattica, comune a molti romanzi storici (da Valerio Massimo Manfredi al “Pompei” di Robert Harris), di “insegnare qualcosa di culturale” a tutti i costi, da leggere con foga ed entusiasmo – nel senso greco del termine, di enthousiasmòs, ossia “avere il dio dentro”.
D’altra parte, anche Lord Byron sentenziava che “L’entusiasmo non è che ubriachezza morale”, e Baudelaire nei suoi versi rincarava: “Bisogna che vi ubriachiate senza tregua. Ma di che? Di vino, di poesia o di virtù, a piacer vostro. Ma ubriacatevi”. E chi siamo noi lettori, poveri umani e forse, chissà, pedine degli dèi come Antonius Block e come i tre protagonisti del libro, per smentirli?
Camilla Scarpa