Religionum sanctitates: a proposito di Cicerone, De natura deorum II 5 – Claudia Santi
L’opera di Cicerone, oratore, magistrato, sacerdote e filosofo, occupa un posto centrale ai fini della ricostruzione del lessico del “sacro” di Roma antica, non solo per la grande e approfondita dottrina riversatavi dall’autore, ma anche perché offre una potente sintesi delle dinamiche storiche del pensiero religioso romano nel periodo repubblicano. Un caso particolarmente interessante riguarda il termine sanctitas, derivato nominale astratto di sanctus (1), voce del lessico religioso di Roma dal contenuto semantico piuttosto vasto, che in senso tecnico religioso-giuridico esprimeva l’idea di “inviolabilità”, e in senso generico etico-morale l’idea di “costumatezza/morigeratezza” (2). Di questo termine, Cicerone usa almeno in due casi una forma plurale sanctitates, che non trova riscontro, allo stato attuale della documentazione, negli autori latini a lui precedenti e contemporanei (3). Una prima occorrenza si incontra nell’orazione pronunciata nel 57 a.C. in occasione del suo reintegro nel senatus: Cicerone denuncia davanti all’assise dei senatori lo stato di sovvertimento totale realizzatosi nella res publica a seguito del suo allontanamento: insieme a lui, sarebbero scomparse ogni forma di ordine, legalità, giustizia, libertà, prosperità, tutte le deorum et hominum sanctitates e tutte le pratiche religiose:
“mecum leges, mecum quaestiones, mecum iura magistratuum, mecum senatus auctoritas, mecum libertas, mecumetiam frugum ubertas, mecum deorum et hominum sanctitates omnes et religiones afuerunt”(4).
Innanzi tutto dobbiamo osservare come l’intero periodo presenti una struttura piuttosto articolata formata da più kóla, da più membri; in particolare, l’espressione in esame si trova correlata paratatticamente con religiones, categoria del pensiero religioso romano al quale in senso positivo si può attribuire, di norma, il significato di “pratiche religiose”(5); in aggiunta, sanctitates e religiones condividono l’attributo omnes. In questo caso, a nostro giudizio, il sintagma deorum et hominum sanctitates sembra costituire una sorta di zeugma, dal momento che il termine sanctitas si trova correlato sintatticamente ai due genitivi deorum et hominum che si può ritenere abbiano influito sul suo significato, determinandone un contenuto semantico non omogeneo. In altri termini, si può intendere l’espressione deorum et hominum sanctitates omnes come una sorta di binomio formato da: (omnis sanctitas deorum) + (omnis sanctitas hominum), binomio in cui il plurale in questione sarebbe il risultato della “somma” dei due sintagmi. Se ciò è vero, in questo caso, il senso dell’espressione, con buona approssimazione, sarebbe “ogni rispetto degli dei e morigeratezza degli uomini”. Diverso appare, invece, ai nostri occhi, il caso della seconda occorrenza, che si rinviene nel secondo libro del De natura deorum, dialogo filosofico composto, come è noto, tra la fine del 45 a.C. e i primi mesi del 44 a.C., prima della morte di Giulio Cesare (6).
In quest’opera ciceroniana, Q. Lucilio Balbo, uno dei protagonisti del dialogo, appoggiandosi sugli argomenti elaborati della scuola stoica e confutando le posizioni della scuola epicurea, si propone di dimostrare l’esistenza della providentia deorum, della natura provvidenziale degli dei (7): essa sarebbe, tra l’altro, provata, secondo Balbo, dal costante diffondersi e perfezionarsi delle manifestazioni di culto presso tutti i popoli della terra. Ecco le parole che Cicerone fa pronunciare a Balbo a proposito:
“in nostro populo et in ceteris deorum cultus religionumque sanctitates exsistunt in dies maiores atque meliores” (8).
Il contenuto semantico del plurale sanctitates, ribadito dal legame sintattico con religiones (anch’esso al plurale) non è stato sinora, a quanto sembra, definito in modo soddisfacente (9). Basta scorrere in rapido esame alcune edizioni nelle principali lingue europee per constatare come all’incertezza esegetica corrispondano traduzioni spesso banalizzanti, talvolta anche prive di senso: Charles Appuhn traduce: “les pratiques religieuses” (le pratiche religiose) (10); Martin Van Den Bruwaene: “le respect des lois religieuses” (il rispetto delle leggi religiose) (11); Harris Rackham e Chris Bouter: “respect for religion” (rispetto per la religione); Wolfgang Gerlach traduce: “Heilighaltung der religiösen Gebräuche” (la sacralità delle usanze religiose) (12); Ángel Escobar: “devociones religiosas” (devozioni religiose) (13). Nella maggior parte dei casi, la presenza del plurale sanctitates viene risolta traducendo il termine al singolare, singolare che nelle traduzioni inglesi attrae al suo numero anche il plurale religiones, che finisce quindi per assumere il significato moderno di “religione”. Perciò, in un modo o nell’altro, tutte le traduzioni considerate sembrano attribuire a religionum sanctitates un significato molto simile a deorum cultus (il culto degli dei) creando una sorta di endiadi che a nostro giudizio non rispetta appieno il pensiero di Cicerone: riteniamo, infatti, che il sintagma religionum sanctitates, paratatticamente correlato a deorum cultus (laddove, sia detto per inciso, anche cultus potrebbe essere un plurale), esprima un’idea che il nostro autore non voleva esprimere diversamente e non poteva esprimere meglio. Anche la proposta ermeneutica formulata da Ernst Feil, nella sua opera dedicata alla storia del termine religio, pur rilevando la sfumatura “concreta” del termine sanctitas, sembra rimanere ancorata al significato di sanctitas come “Wissen”, ossia come “scientia” (v. infra p. 7), come “sapere”, finendo così per proporre un’interpretazione intellettualistica, difficile da riconoscere nel testo in questione (14). In modo analogo, J. Rüpke, nel suo volume From Jupiter to Christ, concentra la sua attenzione sulle variazioni di significato di religio, non soffermandosi sul valore semantico da attribuire a sanctitates (15). Per cercare di comprendere meglio il senso dell’espressione ciceroniana sarà necessario allora condurre una ricognizione preliminare degli usi semantici e delle scelte stilistiche rinvenibili nell’opera di Cicerone per quanto attiene a sanctitas e religio, per poi procedere, sulla base dei risultati, a formulare una proposta di interpretazione valida – è questo il nostro auspicio – sia sotto il profilo filologico che storico-religioso.
Cicerone e il termine “sanctitas”: significato giuridico-religioso, etico – religioso, filosofico.
Nel significato giuridico-religioso, sanctitas esprime il concetto di inviolabilità e può essere riferito sia a res che a personae (16). Nei riguardi delle cose, la sanctitas corrisponde a “inviolabilità” e pertiene ai luoghi preservati da ogni atto illegale (iniuria), in stretta dipendenza dal significato di sanctum, secondo la nota definizione del Digesto:
“Sanctum est, quod ab iniuria hominum defensum atque munitum est” (17).
Cicerone, in particolare, attribuisce la sanctitas ai sepolcri, che la riceverebbero dalla terra alla quale sono stati fissati e dalla quale non possono essere rimossi (18). Sempre in ambito giuridico-religioso, passando dalle cose alle persone, la sanctitas, in Cicerone, appare una prerogativa in particolare dei tribuni: è la sanctitas tribunatus (inviolabilità del tribunato), che fin dalla sua istituzione qualifica il tribunato della plebe, ponendo la persona dei tribuni al riparo da ogni possibile forma di abuso, violenza o coercizione (19). Questa nozione di sanctitas propria dei tribuni plebis, e dunque di esponenti non di un sacerdozio ma di una “magistratura” (20), esclude qualsiasi attribuzione o riconoscimento di un carisma individuale: è solo la misura giuridico religiosa di tutela di un organo della res publica particolarmente esposto, a causa della sua connotazione sociale e “politica”. Dunque, come già notato da H. Delehaye, “la reputazione di «santità» non implica necessariamente, presso i Romani, una qualche relazione privilegiata dell’uomo con la divinità” (21).
Nella sua accezione più generale, sanctitas riferita a persone mostra uno stretto legame di dipendenza dal mos maiorum, dai costumi degli antenati, e qualifica e definisce ogni “comportamento morale corretto” riconosciuto come tale dalla collettività. Quanto al carattere prescrittivo del mos, P. de Francisci notava:
“I mores prescriventi determinati obblighi di condotta, non erano, come si pensa da molti (che si lasciano sedurre dal tardo significato del termine) semplici regole di morale e di buon costume prive di imperatività, ma norme giuridiche, che si riconnettevano alle strutture dell’organizzazione precivile” (22).
Traendo la sua origine dal mos, la sanctitas assumeva, per l’uomo e per la donna, forme diverse determinate a livello culturale. Per un uomo, la sanctitas sembra esprimere, in Cicerone, una qualità assimilabile alla “morigeratezza”, intesa come correttezza della condotta, che si va ad associare naturalmente con altre qualità del vir e del civis, come la prudentia (saggezza) e la dignitas (dignità) (23). Cicerone riteneva che, come tutte le qualità positive, la sanctitas fosse molto più diffusa nei tempi passati e che si fosse di fatto persa nell’epoca di crisi morale in cui egli si trovava a vivere: ciò nondimeno egli pensava di poter rinvenire nel giovane Ottaviano un “exemplum veteris sanctitatis” (24). Sempre nel significato etico, sanctitas, nel caso di una donna, sembra equivalere a “costumatezza”; si accompagna ad altre qualità apprezzate nelle donne, quali pudor, modestia, pudicitia, temperantia (25). Perciò, la sanctitas non qualifica lo stato di verginità, che implica la nozione religiosa di purezza, quanto piuttosto la condotta onesta nei confronti del coniuge, dei figli, della famiglia; conviene pertanto in particolar modo alle matronae, alle donne sposate e con figli, ma in generale è la qualità di tutte le donne morigerate (26). Nel suo significato filosofico, il più recente in ordine di tempo nella produzione ciceroniana, sanctitas sembra presentare una varietà di valori semantici. In almeno due casi, il confronto con il testo greco ne rende sicura la natura di calco semantico del termine greco ὁσιότης, derivato nominale, di ὅσιος che, secondo l’analisi semantica condotta da Antonino Pagliaro, indicherebbe: “Il momento (scil. morale religioso) soggettivo, quello che uno pone a se stesso sia nel rapporto con gli dei, sia nel rapporto con gli uomini”(27);
“ὅσιος – osserva ancora Pagliaro – è anche colui che porta un sentimento di rispetto, di ritegno morale nei rapporti con gli uomini; a questo titolo Apollo nell’Alcesti di Euripide v. 10 dà la qualifica di ὅσιος ad Admeto e di lui si dichiara ὅσιος” (28).
Cicerone traduce con de sanctitate (29) il titolo dell’opera di Epicuro περὶ ὁσιότητος, nota attraverso il catalogo degli scritti epicurei di Diogene Laerzio (30); in aggiunta, nell’ambito dello stesso contesto, definisce la sanctitas come la scientia colendorum deorum (31), riproducendo concettualmente le definizioni ὁσιότης = ἐπιστήµη τις τοῦ θύειν τε καὶ εὔχεσθαι (una conoscenza dei sacrifici e delle libagioni) e ὁσιότης = θεῶν θεραπεία (culto degli dei), nel dialogo platonico Eutyphro (32).
Il valore semantico di questo calco, tuttavia, nonostante il suo interesse ai fini di un percorso di semantica storica, va circoscritto entro limiti ben precisi, tenendo conto del fatto che l’origine del concetto di ὁσιότης si trova nella cultura e religione greca, e che dunque il termine latino sanctitas usato come calco si deve adattare ad esprimere un concetto che non si è formato all’interno della realtà culturale e religiosa romana: se Cicerone può utilizzare sanctitas per esprimere la nozione di ὁσιότης è perché ritiene di potervi cogliere un contenuto semantico in larga parte (ma non perfettamente) assimilabile. Tali precisazioni appaiono necessarie per non commettere l’errore di prospettiva di prendere per definizioni autenticamente romane le glosse che accompagnano il termine (come quelle che abbiamo citato in precedenza), e credere che esse coprano l’intero spettro dei valori semantici del termine, quando al contrario ne evidenziano solo il punto esatto di contatto con l’originaria nozione espressa dal greco. Lo spettro dei valori semantici di sanctitas a livello filosofico appare, infatti, a nostro giudizio, più ampio. Nel complesso dei trattati filosofici di Cicerone il termine sanctitas ha una presenza sporadica (solo tre occorrenze) (33), mentre nel De natura deorum esso ricorre ben otto volte: in particolare, disaggregando i dati, risulta che di otto occorrenze complessive, tre compaiono nell’esordio (34), quattro nel I libro (35), una nel II (36) e nessuna nel III. Se si tiene presente la struttura dell’opera, si può concludere che il tema della sanctitas dovesse avere una certa importanza per l’autore, per l’accademico Cotta e per gli stoici, dei quali Cotta riprende talvolta gli argomenti in contrapposizione con le tesi epicuree. Come nota Rüpke, l’epicureo Velleio non usa mai il termine sanctitas (37). In una gerarchia delle fonti interna alla produzione ciceroniana ci sembra, dunque, che il punto di vista autenticamente proprio dell’autore sia da ricercarsi in via prioritaria nell’esordio del dialogo, dove, tra l’altro, è maggiormente probabile che il significato tecnico di questo termine compaia in una forma perspicua e inserito in una serie di relazioni analogiche o contrastive. Proprio nei paragrafi iniziali, allorché viene impostato il tema del dialogo, ossia l’esistenza o meno della provvidenza divina, Cicerone colloca sanctitas in rapporto solidale con due concetti romani peculiari e specifici della sfera religiosa, pietas e religio; in particolare, si critica la posizione dei filosofi che negano l’esistenza della provvidenza divina e si obietta che, se fosse vero il loro parere, non potrebbero più esistere né pietas né sanctitas né religio:
“Sunt enim philosophi et fuerunt qui omnino nullam habere censerent rerum humanarum procurationem deos. quorum si vera sententia est, quaepotest esse pietas quae sanctitas quae religio? quorum si vera sententia est, quae potest esse pietas, quae sanctitas, quae religio? (38).
In queste parole appare chiaramente come Cicerone concepisca pietas, sanctitas e religio come virtutes solidali tra loro, idea ribadita poche righe più avanti:
“In specie autem fictae simulationis sicut reliquae virtutes item pietas inesse non potest; cum qua simul sanctitatem et religionem tolli necesse est” (39).
Dal passo in esame emerge chiaramente che, nel pensiero ciceroniano, in questo caso fedele interprete della tradizione, sanctitas e religio sono manifestazioni della pietas e che la pietas è fondamento sia dell’una che dell’altra. In definitiva, Cicerone afferma che la provvidenza degli dei è un’espressione della pietas, dell’ordine cosmico di interrelazioni dio-uomo (e uomo-uomo), che come tale implica una reciprocità di rapporto tra gli dei e gli uomini e sostanzia anche le altre virtutes umane, in particolare sanctitas e religio, ma anche fides (lealtà) e iustitia (giustizia) (40). Di conseguenza, la sanctitas appare saldamente ancorata all’ambito etico-religioso in relazione verticale con la pietas, e orizzontale con la religio e trova forma solo in queste relazioni. Non a caso sanctitas, nell’enumerazione ciceroniana, occupa la posizione centrale della sequenza, a testimoniare la sua dipendenza da pietas da una parte, ma anche il legame con religio, come espressioni particolari di una predisposizione più larga e complessiva (41). Secondo Cicerone, quindi, non può esistere una morale “laica”, ossia una morale che non discenda e non sia sostenuta dal principio religioso della pietas, in quanto la pietas si va a configurare come principio di giustificazione di una retta condotta (sanctitas) e di un comportamento religioso corretto autenticamente ciceroniana (e romana) di sanctitas.
* * *
A questo punto, si può dire che emerga ancora più chiara la peculiarità dell’espressione religionum sanctitates, dove il legame di solidarietà e il rapporto di paratassi tra sanctitas e religio si è trasformato in rapporto di subordinazione di un termine sull’altro (e di una nozione sull’altra). Può darsi che la frase di Cicerone deorum cultus religionumque sanctitates rappresenti semplicemente un’endiadi, e che quindi deorum cultus e religionum sanctitates abbiano a un di presso lo stesso significato, o che il plurale religiones, nel significato generale di “pratiche religiose”, abbia influenzato e determinato anche il plurale sanctitates. Ma può anche scorgersi un significato più originale di sanctitas e più tecnico di religio. A tale proposito, dobbiamo ricordare come la prosa ciceroniana offra almeno un altro esempio in cui una qualità morale declinata al plurale assume il significato di collettivo concreto (42), venendo a indicare l’insieme delle persone che possiedono quella qualità: si tratta di honestates civitatis che deve correttamente intendersi “i cittadini onesti” (e non “le onestà della città”) (43): in altri termini, il concetto principale è espresso dal sostantivo che si trova in caso genitivo, rispetto al quale l’altro sostantivo svolge una funzione quasi attributiva. Applicando questo stesso criterio al sintagma religionum sanctitates, si otterrebbe la forma “sanctae religiones”; lasciamo per ora in stand by questa forma, perché è necessario rivolgere la nostra attenzione al significato di religio. È fuor di dubbio che in questo contesto il termine religio abbia un valore positivo, confrontabile con quello dei loci succitati, ma soprattutto con la definizione in Cicerone De natura deorum I, 117:
“Superstitionem tollunt, in qua inest timor inanis deorum, sed etiam religionem, quae deorum cultu pio continetur” (44).
Correlato a questo, tra i valori che religio viene ad assumere, ci sembra più coerente con il contesto, il significato posto ben in evidenza da Dario Sabbatucci, in cui religio, in Cicerone, equivale a “devozione rivolta ad una divinità esclusiva” (45) o anche “particolare”, come nell’espressione religio Cereris:
“Mira quaedam tota Sicilia privatim ac publice religio est Cereris Hennensis” (46).
In questo caso, Cicerone, con religio Cereris Hennensis vuole intendere la particolare forma di devozione e tutti i riti ad essa correlati che i cittadini della antica Enna tributavano alla forma locale della dea Cerere, qualificata pertanto con l’epiclesi epicorica Hennensis. Allo stesso modo, ricordando le vicende dei culti della città di Segesta, Cicerone sottolinea come la devozione verso la statua di Diana si sia mantenuta anche dopo il trasferimento di questo oggetto cultuale nella città Cartagine (47). In tal senso, come è noto, il termine religio sarà adottato dai Cristiani per definire la loro fede (già denominata religio dai Romani perché avente i caratteri di venerazione di un unico Dio) (48).
Se la nostra proposta è giusta, il sintagma religionum sanctitates potrebbe allora indicare, con buona approssimazione, “le pie (sanctitates) devozioni verso una particolare divinità (religionum)”, potendosi in questo caso attribuire a religiones il significato tecnico prima ricordato e intendere sanctitates come equivalente di sanctae nel significato di “pie”, in senso moderno. Come si può osservare, se la nostra proposta coglie nel giusto, il significato di religionumque sanctitates non duplica, ma completa e integra il significato di cultus deorum, evidenziando, in coerenza con il contesto che raggiunge un’ampiezza ecumenica estesa a tutti i popoli e non solo limitata al popolo romano (in nostro populo et in ceteris), lo sforzo compiuto da Cicerone per comprendere tutte le forme devozionali, anche le più lontane dalla religione della civitas, anche quelle delle religioni di mistero, della monolatria, dell’enoteismo, del monoteismo. Ciò testimonierebbe della sensibilità religiosa ciceroniana (peraltro, come sappiamo, augure e iniziato ai misteri eleusini) e della consapevolezza che egli aveva del carattere dinamico delle religioni (cfr. nella stessa frase in dies maiores atque meliores). Nella profondità del suo pensiero storico, Cicerone, inoltre, sarebbe riuscito a cogliere il punto di svolta rappresentato, a livello religioso, dall’epoca sillana. Come è noto, infatti, il dialogo si immagina ambientato tra il 676 e il 679 a.V.c. (= 77-74 a.C.), ossia proprio in un arco di anni che si pone a ridosso di tale età. Silla aveva promosso l’integrazione, all’interno del pantheon romano, della dea Mâ, enigmatica e sanguinaria divinità venerata in Cappadocia, che i Greci avevano identificato ora con Enyô ora con Athena, e che i Romani, assimilarono a Bellona (49). A Roma esisteva, fin dalla prima metà del II sec. a C., una comunità giudaica, che dopo un secolo di permanenza (50), cominciava ad avere una certa visibilità; durante il periodo sillano sembra da collocarsi anche l’introduzione del culto isiaco a Roma (51). Nuove figure divine venivano accolte accanto agli dei patrii e divinità tradizionali venivano orientate nel senso di fornire il loro carisma non più alla civitas bensì ad un civis sovraordinato sugli altri: si pensi alla “personalizzazione” del rapporto che legava Silla ad Apollo ed alla particolare devozione che egli aveva per Venus, devozione ribadita tra l’altro dall’aggettivo Ἐπαφρόδιτος che rende in greco l’appellativo Felix di cui Silla amò fregiarsi (52). Questa atmosfera di incertezze e di nuovi orizzonti spirituali è, a nostro giudizio, ben rappresentata da Cicerone, con uno sforzo verso la comprensione dell’altro da sé, proprio nel momento cui cominciavano a manifestarsi i germi di importanti trasformazioni che avrebbero finito per stravolgere la fisionomia della religione tradizionale.
Note:
1 – Per lo spettro semantico del termine sanctus/sanctum, cfr. Santi 2004, pp. 52-55; pp. 175-185; pp. 199-213; pp. 217-224.
2- Il termine sanctitas, di formazione più recente, progressivamente sostituì sanctimonia e sanctitudo, più antichi e sostanzialmente equivalenti; si può indicare nell’epoca di Plauto il periodo in cui prese avvio in latino il processo di eliminazione dei suffissi equivalenti e concorrenti, con conseguente riduzione della presenza nella lingua latina degli astratti in -monia e in -tudo, già desueti all’epoca di Cicerone, Devoto 1987, p. 117; abbiamo esaminato i valori semantici di sanctitas in Santi 2002; cfr. anche Santi 2004, pp. 202-208.
3 – Un altro esempio del plurale sanctitates si incontra in Arn. Adv nat. I 6, 3.
4 – Cic. Red. in sen. XIV 34: “Con me scomparvero le leggi, con me i tribunali, con me i diritti dei magistrati, con me l’autorità del senato, con me la libertà, con me anche la prosperità delle messi, con me ogni rispetto degli dei e morigeratezza degli uomini e tutte le pratiche religiose”.
5 – Feil 1986, p. 46.
6 – Per il problema della composizione del dialogo, cfr. Pease 1955, pp. 5-106.
7 – Eccellente sintesi del dialogo e discussione dei problemi in Pease 1913; per i problemi relativi alla tradizione manoscritta, Auvray-Assayas 1997; per il pensiero teologico di Cicerone nel De natura deorum, Boyancé 1962; Goar 1972; Schmidt 1978; Brunt 1989; De Filippo 2000.
8 – Cic. De nat. deor II 5: “Nel nostro popolo e in tutti gli altri popoli il culto degli dei e le religionum sanctitates diventano ogni giorno più diffuse e apprezzabili”.
9 – Pease 1958, p. 552, rileva questa particolarità ma non si sofferma sul suo significato.
10 – Appuhn 1935, p. 169: “C’est pourquoi chez nous et chez les autres peuples les pratiques religieuses vont en augmentant et gagnent en valeur tous les jours”; una traduzione molto simile anche in Nisard 1875, p. 109a: “D’où il arrive parmi nous, et parmi les autres peuples, que le culte divin et les pratiques de religion s’augmentent et s’épurent de jour en jour” (Quindi accade per noi e per gli altri popoli che il culto degli dei e le pratiche della religione aumentino e diventino più pure di giorno in giorno).
11 – Van Den Bruwaene 1970, p. 28 “C’est pourquoi, et dans notre peuple et chez les autres, le culte des dieux et le respect des lois religieuses se présentent de jour en jour plus grands et meilleurs”; Clara Auvray-Assayas ha curato per la collana Les Belles Lettres nel 2002 un’edizione con traduzione in francese (non vidi).
12 – Gerlach 1990, p. 149: “Die Heilighaltung der religiösen Gebräuche von Tag zu Tag umfangreicher und besser”; questa traduzione sembra influenzata da Brooks 1896, p. 77: “Holy observances of religion”.
13 – Escobar 1999, p. 166: “Así, tanto el culto a los dioses como las devociones religiosas se afianzan cada día más y mejor, tanto en nuestro pueblo como entre los demás”.
14 – Feil 1986, p. 46.
15 – Rüpke 2014, p. 187.
16 – Sini 2001; Santi 2004, pp. 177-182.
17 – Dig. 1. 8. 8. pr. (Marcian. 4 regul.): “È sanctum ciò che è protetto e difeso contro gli atti illegali degli uomini”.
18 – Cic. Phil. IX 14 (44 a.C.): “Sed statuae intereunt tempestate, vetustate, sepulcrorum sanctitas autem in ipso solo est quod nulla vi moveri neque deleri potest, atque, ut cetera exstinguuntur, sic sepulcra sanctiora fiunt vetustate (Ma le statue si rovinano a causa delle intemperie e del trascorrere del tempo, l’inviolabilità dei sepolcri invece risiede nel suolo stesso che nessuna forza può spostare né distruggere, e come le altre cose periscono, così i sepolcri divengono più inviolabili col passar del tempo).
19 – Cfr. Cic. Sest. 79: “Itaque fretus sanctitate tribunatus” (E così fidando sull’inviolabilità del tribunato); cfr. Cic. leg. III 9: “Plebes quos pro se contra vim auxilii ergo decem creassit, ei tribuni eius sunto, quodque ei prohibessint, quodque plebem rogassint, ratum esto; sanctique sunto; neve plebem orbam tribunis relinquunto” (Siano suoi tribuni, quelli che in numero di dieci la plebe ha creato contro la forza e perché le portino aiuto, e ciò che essi hanno proibito, e ciò che abbiano fatto votare alla plebe, sia ratificato; e siano inviolabili e la plebe non sia lasciata priva di tribuni); sulla base dell’analisi del lessico religioso-giuridico in uso nelle opere di Cicerone, abbiamo argomentato che i tribuni plebis fossero definiti in origine sancti, che la loro qualità fosse definita sanctitas, e infine che la sacrosancta potestas che viene riconosciuta loro dagli autori posteriori a Cicerone sia un’innovazione da attribuirsi ad Augusto, cfr. Santi 2004, pp. 182-199.
20 – Il carattere magistratuale o meno del tribunato della plebe è da sempre oggetto di disputa; i due orientamenti, a favore o contro, sono esposti e discussi criticamente da Lobrano 1983, pp. 62-65.
21 – Delehaye 1927, p. 10: “Ainsi, le renom de “sainteté” n’implique pas nécessairement, chez les Romains, quelques relation distincte de l’homme avec la divinité” (tr. nostra); sull’attribuzione della sanctitas agli dei, cfr. anche Santi 2004, pp. 209-213.
22 – De Francisci 1967, p. 630.
23 – Cic. Phil. XIII 4; Cic. Mil., 90; Cic. ad fam. IV, 3, 2; Santi 2004, pp. 199-202.
24 – Cic. Phil. III 15: “un esempio dell’antica morigeratezza”.
25 – Cic. fin. II 22, 73; Santi 2004, pp. 203-206.
26 – Cic. Cael. 32; Santi 2004, pp. 206-207.
27 – Pagliaro 1976, p. 93; a tale proposito, lo studioso richiama l’etimologia che mette in rapporto ὅσιος (da *σFόθιος ) con ἒθος ‘costume’ (da *σFέθος ‘ciò che uno pone a sé’), Pagliaro 1976, ibid. n. 4.
28 – Pagliaro1976, p. 94.
29 – Cic. De nat. deor. I 115: “At etiam de sanctitate de pietate adversus deos libros scripsit Epicurus” (“E infatti anche Epicuro ha scritto trattati sulla sanctitas, sulla pietas nei confronti degli dei”); cfr. Cic. De nat. deor. I 122: “At etiam liber est Epicuri de sanctitate” (“Esiste anche un trattato di Epicuro dedicato alla sanctitas”).
30 – Diog. Laert. X 27; Diogene Laerzio, a proposito di Epicuro, riporta anche il trattato Περὶ θεῶν, che potrebbe corrispondere al de pietate adversus deos in Cic. De nat. deor. I 115, cfr. supra n. 28.
31 – Cic. De nat. deor. I 116: “La conoscenza del modo in cui venerare gli dei”.
32 – Plat. 14c e 13d; il tema fu trattato da Platone anche nel Protagora, Plato 330b, dove ὁσιότης rientra come aspetto dell’ἀρετή (virtù), in unione con ἐπιστήμη (conoscenza), δικαιοσύνη (giustizia), ἀνδρεία (valore) e σωφροσύνη (saggezza); nel dialogo Gorgia, Plato 507b, τὰ ὅσια e τὰ δίκαια (il giusto soggettivo ed il giusto oggettivo) sono aspetti dei τὰ προσήκοντα (le cose convenienti), il primo aspetto si riferisce al rapporto degli uomini con gli dei, il secondo al rapporto degli uomini con gli uomini; nella Repubblica, Plato 441c-443b, ὁσιότης non compare come qualità autonoma, ma è ricompreso nella sfera di δικαιοσύνη (giustizia).
33 – Cic. De off. II 11; De fin. II 73; Top. 90.
34 – Cic. De nat. deor. I 3; I 14.
35 – Cic. De nat. deor. I 115; I 116; I 122; I 123.
36 – Cic. De nat. deor. II 5.
37 – Rüpke 2014, p. 187.
38 – Cic. De nat. deor. I 3: “Vi sono infatti e vi sono stati filosofi che pensavano che dei non avessero nessuna preoccupazione per le azioni degli uomini. Ma se la loro opinione è giusta, come potrebbero esistere la pietas, la sanctitas, la religio?”.
39 – Ibid.: “Così come le restanti virtù, allo stesso modo la pietas non può essere racchiusa nell’aspetto di una falsa simulazione, e una volta eliminata la pietas, necessariamente saranno eliminate anche la sanctitas la religio”.
40 – Cic. De nat. deor. I 4.
41 – Il legame di solidarietà sanctitas-religio appare confermato da un locus della pro Plancio laddove Cicerone associa in un’unica definizione gli uomini sancti e religionum colentes: Qui sancti, qui religionum colentes, nisi qui meritam diis immortalibus gratiam iustis honoribus et memori mente persolvunt? (Chi possiamo dire buono e religioso, se non chi con giusti onori e mente che mantiene il ricordo ringrazia gli dei immortali come meritano?).
42 – Stolz 1894, p. 792.
43 – Cic. Sest. 109; il sintagma honestates civitatis può avere anche il significato di “cittadini magistrati”, stante honos = magistratura.
44 – “(Questi filosofi) non si limitano ad eliminare la superstizione che reca con sé un inconsistente timore degli dèi, ma anche la religio che consiste nel pio culto degli dei.
45 – Sabbatucci 1985, p. 43.
46 – Cic. Verr. II 4, 107: “La devozione a livello privato e pubblico di tutta la Sicilia verso la dea Cerere di Enna è degna di ammirazione”.
47 – Cic. Verr. II 4, 72: Hoc translatum Carthaginem locum tantum hominesque mutarat, religionem quidem pristinam conservabat (Questa statua, una volta trasferita a Cartagine, aveva cambiato soltanto sede e persone, ma conservava la precedente devozione).
48 – Sabbatucci 1985, ibid
49 – Dörner 1981, pp. 85-86.
50 – Simonsohn 2014, pp. 13-15.
51 – Per l’introduzione del culto di Iside durante il periodo sillano abbiamo la testimonianza di Apul. Met. XI, 30; Cicerone accenna al culto isiaco in de div. I, 132: Isiacos coniectores. In proposito rimane indispensabile Malaise 1972, part. pp. 362-365.
52 – Santi 1985, pp. 48-51.
Bibliografia :
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Prof. ssa Claudia Santi
Università della Campania Luigi Vanvitelli
Dipartimento di Lettere e Beni Culturali