Mithra e la misteriosofia romana della Luce – Luca Valentini
Publio Cornelio Tacito e il fatidico limes settentrionale dell’Impero – Nicola Bizzi
Il De origine et situ Germanorum
Il De origine et situ Germanorum, comunemente conosciuto come Germania, è un’opera etnografica scritta attorno al 98 d.C. da Publio Cornelio Tacito, storico, oratore e senatore romano, considerato unanimemente dai moderni storici e filologi il più grande esponente del genere storiografico della letteratura latina. Interamente incentrata sulla storia, le usanze, i costumi, le istituzioni e le tradizioni religiose delle varie tribù germaniche che vivevano al di fuori dei confini dell’Impero, la Germania è infatti l’unica opera a carattere squisitamente etnografico su un popolo straniero che ci sia pervenuta integra dell’antichità romana (se si escludono altre opere che, nel proprio contesto, contengono anche fugaci excursus di simile natura). Essa si inserisce perfettamente all’interno di quella consolidata tradizione etnografica antica che va da Erodoto e Senofonte, fino a Giulio Cesare, a Strabone e a Pausania, e che affondava le proprie radici in autori come Ellanico di Lesbo e Dionisio di Mileto, le cui opere sono (almeno “ufficialmente”) andate perdute. Ciò non toglie che l’opera di Tacito si riveli anche come una creazione originale nell’ambito dei generi tradizionali delle letterature classiche, comprendendo anche parti storiche e geografiche, ma soprattutto “ideologiche”, quasi da pamphlet. Il testo del De origine et situ Germanorum inizia con la descrizione delle terre, delle leggi e del modus vivendi delle tribù di un vasto novero di popoli barbari, a partire da quelle confinanti con il limes imperiale e continua quindi con le descrizioni delle singole tribù, cominciando da quelle più vicine ai territori romani e terminando con quelle ai più estremi confini settentrionali, sul mar Baltico, con una descrizione dei primitivi e selvaggi Fenni e di sconosciute tribù al di là di essi. L’opera è divisa in due parti: dal capitolo I al XXVII Tacito ci descrive la Germania transrenana, con dovizia di particolari riguardo al clima, al paesaggio e alla struttura sociale dei vari popoli che a quel tempo vi erano stanziati, raccontandone l’origine. Dal capitolo XXVIII al XLVI c’è una rassegna più specifica delle singole popolazioni seguendo un criterio geografico, vale a dire iniziando da Ovest, procedendo poi a Nord, a Sud e infine ad Est. L’opera, che contiene oltre a quelli puramente descrittivi anche tratti sia moraleggianti che politici, aveva molto probabilmente, nelle intenzioni dell’autore, lo scopo non certo secondario di mettere in luce il potenziale pericolo rappresentato per la civiltà romana da genti fiere e indomabili che le legioni imperiali non erano mai riuscite a conquistare e ad assoggettare. La Storia infatti ci insegna quanto le popolazioni germaniche abbiano sempre rappresentato unaspina nel fianco di un Impero, quello Romano, che già al tempo di Tacito aveva conquistato buona parte del mondo allora conosciuto, dalle Gallie all’Egitto, dalla Britannia alla Grecia, dall’Asia Minore all’Arabia, ma che era ancora ben lungi dall’aver avuto ragione (e mai, di fatto, lo sarebbe stato) di quei popoli che vivevano e prosperavano oltre il fatidico limes settentrionale dei dominî imperiali. Popoli che si sarebbero fatidicamente rivelati, nei secoli successivi, l’ultima risorsa civile e militare di una pars occidentis imperiale ormai in pieno e inarrestabile declino e, al contempo, anche i protagonisti del suo finale e tragico tracollo. Popoli che, infine, nell’alto Medioevo, avrebbero di fatto ereditato e fatto propria la tradizione latina nell’Europa Occidentale, come ci insegnano le vicende carolinge e la costituzione del Sacro Romano Impero.
Carta geografica del 1832 raffigurante la Germania al tempo dell’Impero Romano
Ai tempi di Tacito, che visse fra la seconda metà del I° e i primi due decenni del II° secolo d.C., quindi in un periodo storico convulso e interessante compreso fra il regno di Nerone e quello di Adriano, era ancora ben aperta nella coscienza popolare e nella memoria collettiva dei Romani (e mai si sarebbe del tutto rimarginata) quella ferita rappresentata dalla fatidica sconfitta militare della Foresta di Teutoburgo, quando, fra il 9 e l’11 Settembre del 9 d.C., tre intere legioni e numerose coorti ausiliarie dell’esercito romano comandate dal generale Publio Quintilio Varo vennero completamente annientate in un’imboscata tesa loro dal capo germanico Arminio. Una sconfitta a dir poco cocente, un’onta incancellabile nel mito dell’imbattibilità di Roma,addirittura superiore nelle sue implicazioni alle batoste prese dalle legioni imperiali dagli invitti Parti, che portò lo stesso Varo a togliersi la vita sul campo di battaglia e che, di fatto, spezzò per sempre i sogni di gloria di una conquista romana di quelle terre settentrionali fra il Reno e il Baltico. Altra intenzione neanche troppo nascosta dell’autore fu quella di descrivere i puri e incorrotti costumi dei Germani per criticare indirettamente i corrotti e degenerati costumi romani del suo tempo. Ma non solo: Tacito intendeva anche istituire e rappresentare una sorta diparallelo tra quello che erano i Germani allora (un popolo rude e semplice e per ciò stesso valoroso in guerra) con quello che i Romani erano stati e ora non erano più, sempre a causa della loro decadenza morale. Una decadenza di cui l’autore, del resto, fu inascoltato accusatore e profeta. Tacito, nella Germania, esalta il coraggio in battaglia, la semplicità dei costumi, l’alto valore dell’ospitalità e la stretta monogamia dei Germani, e dimostra una sincera ammirazione per la limpidezza morale e l’austerità dei costumi di quelle tribù barbariche, mettendo in contrasto tutto ciò, come già abbiamo detto, con l’immoralità dilgante e la decadenza dei costumi romani. Ma ciononostante, lo storico non risparmia aspre critiche all’ubriachezza, alla pigrizia e ad altri difetti di questi popoli. Studiosi moderni, soprattutto (guarda caso) di area tedesca o nord-europea, hanno comunque messo in evidenza come molte delle affermazioni tacitiane non siano del tutto corrette, anche perché egli potrebbe, in alcuni casi, aver scambiato per Germani (cioè popoli parlanti lingue germaniche) tribù in realtà appartenenti ad una matrice culturale celtiche. Una questione, questa, che personalmente, come storico, reputo assai poco rilevante o comunque strumentale.
Publio Cornelio Tacito
Publio Cornelio Tacito nacque attorno al 55 d.C. (o fra il 46 e il 58, secondo alcune fonti) nella Gallia Narbonense (secondo altre fonti, però tarde e di scarsa attendibilità, sarebbe invece nato nella Gallia Cisalpina). Le poche informazioni sulla vita e sull’ambiente in cui visse e si formò in età giovanile ci sono offerte, principalmente, dagli indizi sparsi nel corpus delle sue opere, dalle lettere del suo amico e sincero ammiratore Plinio il Giovane, da un’iscrizione trovata a Mylasa, in Caria (nell’attuale area costiera egea della Turchia), e da altre deduzioni di storici del passato. Molti particolari relativi alle sue origini e ad alcuni episodi della sua vita restano però di fatto sconosciuti e sono ancora oggi oggetto di diatribe fra gli storici. Si ritiene rintracciabile una sua discendenza nobile da un ramo sconosciuto della gens romana patrizia Cornelia, ma non v’è alcun documento storico che attesti con certezza questa tesi. Tacito stesso affermò che molti senatori e cavalieri a lui contemporanei discendevano da liberti, ma l’ipotesi che anch’egli discendesse da un liberto non ha trovato nessun supporto oltre alla sua affermazione, in un discorso generico, che molti notabili del suo tempo discendevano da liberti. Tale ipotesi è stata infatti prontamente abbandonata dalla maggior parte degli storici. Il forte legame d’amicizia largamente testimoniato tra Plinio il Giovane e Tacito ha fatto supporre agli storici un’uguale, o quantomeno equivalente, estrazione sociale dei due: ceto equestre, ricchezza significativa e provenienza provinciale. L’ipotesi, largamente accettata, per la quale lo scrittore latino sarebbe nato da una famiglia di rango equestre oppure senatorio potrebbe essere comprovata anche dal disprezzo per gli arrampicatori sociali su cui insiste Tacito in alcuni passaggi delle sue opere. Si suppone che la posizione sociale di rilievo raggiunta dal nostro autore sia stata ottenuta grazie alla benevolenza degli imperatori Flavii, poiché con la conclusione dell’età repubblicana quell’impostazione gentilizia che aveva caratterizzato per secoli la società romana si era ormai dissolta e, con questa, anche i privilegi riservati alle gentes più influenti, sia nell’Urbe stessa che nei territori sotto il suo controllo. Suo padre si ritiene possa essere stato il Cornelio Tacito procuratore della Gallia Belgica e della Germania. Un’ipotesi, questa, assolutamente da non sottovalutare, in quanto indicherebbe la probabile fonte primaria del nostro autore, che del resto, a quanto risulta, non visitò mai di persona le terre e i popoli di cui parla, fornendoci di fatto informazioni di seconda mano. Lo storico neozelandese Ronald Symeha ipotizzato in alcuni suoi saggi che Tacito, per la stesura della Germania, possa aver attinto dai perduti Bella Germaniae di Plinio il Vecchio, cosa del resto assai probabile. Altre sue fonti furono molto probabilmente il De Bello Gallico di Giulio Cesare, la Geografia di Strabone, e le opere di autori come Diodoro Siculo, Posidonio e Aufidio Basso, al suo tempo molto note e diffuse negli ambienti colti della romanità. Un figlio di questo procuratore Cornelio Tacito è citato da Plinio il Vecchio nel VII° libro della sua Naturalis Historia come esempio, da lui stesso visto e studiato, di sviluppo e invecchiamento precocissimi, al pari del figlio di un certo Eutimene, che per tale causa sarebbe morto prematuramente a soli sei anni. È stato quindi ipotizzato che Plinio il Vecchio, in quel suo celebre passo, faccia riferimento ad un fratello dell’autore della Germania.
Sappiamo dalle fonti che da giovane Tacito studiò retorica a Roma, come preparazione alla carriera nella magistratura e nella politica e, come Plinio, potrebbe avere studiato sotto il retore Quintiliano. Nel 77 d.C. contrasse matrimonio con Giulia Agricola, la figlia tredicenne del potente generale Gneo Giulio Agricola, il quale era allora al comando di una legione operante in Bitinia. E, proprio attorno allo stesso anno, partecipò alle vicende di tale legione con l’incarico di tribuno militare, concessogli dall’Imperatore Vespasiano. Poco o nulla si sa della loro unione o della loro vita domestica, a parte il fatto che Tacito amava cacciare. Alla sua carriera diede sicuramente grande impulso Vespasiano, ma fu sotto Tito che entrò realmente nella vita politica, nell’81 d.C., con la carica di Questore. Proseguì poi costantemente nel suo cursus honorum divenendo Pretore nell’88 e entrando a far parte dei Quindecemviri Sacris Faciundis, un collegio sacerdotale che custodiva i Libri Sibillini e i Giochi Secolari. Si distinse negli anni successivi anche come avvocato e oratore, a dispetto del fatto che il suo cognomen, Tacitus, abbia in Latino il significato di “taciturno”. È attestato che abbia rivestito anche funzioni pubbliche nelle province dall’89 al 93, come si può intuire dal fatto che non fu presente alla morte e alle onoranze funebri del suocero Agricola, al quale fu sempre molto legato. Sopravvisse indenne al regime di terrore instaurato da Domiziano (93-96), ma l’esperienza lasciò in lui una cupa amarezza, forse per la vergogna della propria complicità, contribuendo allo sviluppo di quell’odio verso la tirannia che traspare in maniera evidente nelle sue opere di quel periodo. I paragrafi 44-45 dell’Agricola appaiono a riguardo paradigmatici:
«…la sua morte prematura gli regalò il grande conforto di sfuggire a quel tempo estremo in cui Domiziano distrusse la Repubblica, non più con qualche intervallo e pausa, ma senza soluzione di continuità e quasi con un unico colpo. […] Poi successe che con le nostre mani cacciassimo in carcere Elvidio, e successe anche che dovessimo provare vergogna alla vista di Maurico e di Rustico e davanti al sangue innocente di Senecione. Nerone aveva almeno distolto gli occhi e i delitti li aveva comandati, senza poi godere dello spettacolo: sotto Domiziano, invece, la maggior sofferenza consisteva nel vedere e nell’essere veduti […]».
Nel 97, durante il principato di Nerva, rivestì la carica di Console suffetto. Durante tale periodo raggiunse i vertici della sua fama di oratore nel pronunciare il discorso funebre per il famoso soldato Virginio Rufo. L’anno seguente scrisse e pubblicò sia l’Agricola (De Vita Iulii Agricolae), opera dedicata alla vita del suocero Gneo Giulio Agricola e alle sue imprese militari in Britannia, che la Germania, primi esempi di un’intensa attività letteraria che lo occuperà fino alla sua morte. Scrisse infatti diverse altre opere, tra cui è doveroso ricordare le Storie (Historiae), prima grande opera storiografica che tratta la storia di Roma dall’anno dei quattro Imperatori (69) fino all’assassinio di Domiziano (96), e gli Annali (Ab excessu Divi Augusti libri), seconda grande opera storiografica che tratta la storia di Roma dalla morte di Augusto (14) alla morte di Nerone (68). A Tacito è anche attribuito, seppur con qualche dubbio, anche il Dialogo sugli oratori (Dialogus de oratoribus), opera di datazione incerta (probabilmente scritto attorno al 100-101 d.C.) sulle cause della decadenza dell’arte oratoria, che vengono individuate di volta in volta nel diverso tipo di educazione rispetto al passato, nel mutato insegnamento retorico e principalmente nelle condizioni politiche proprie del sistema imperiale, che impediva ormai la piena libertà di parola. Dopo la pubblicazione dell’Agricola e della Germania Tacito sparì per un certo periodo dalla scena pubblica, facendovi ritorno durante il regno di Traiano. Nell’anno 100 d.C., con il suo amico Plinio il giovane, perseguì per corruzione il governatore dell’Africa Mario Prisco, che,riconosciuto colpevole, subì la pena dell’esilio. Plinio scrisse alcuni giorni dopo che Tacito aveva parlato «con tutta la maestosità che caratterizza il suo usuale stile oratorio».
Seguì una nuova e più lunga assenza dalla politica e dalla magistratura, durante la quale Tacito scrisse le sue due opere considerate più importanti: le Storie e gli Annali. In seguito, però, è attestato un suo ritorno alla politica. Ricoprì, infatti, la prestigiosa carica di governatore della provincia romana dell’Asia, nell’Anatolia occidentale, fra il 112 e il 113, come provato da un’iscrizione rinvenuta dagli archeologi a Milasa. Non vi sono notizie certe sull’esatta data e sulle circostanze della sua morte, che alcune fonti collocano tra il 117 e il 120 d.C., mentre altre ancora attorno al 125. Un frammento della sua lapide sepolcrale, rinvenuto dagli archeologi e oggi conservato presso il Museo Epigrafico di Roma, non ci è d’aiuto, in quanto non reca alcuna datazione. Non sappiamo neanche se abbia avuto dei figli, anche se l’Imperatore Marco Claudio Tacito, al potere dal Novembre del 275 al Giugno del 276, si dichiarò suo discendente.
Antoniniano dell’Imperatore Marco Claudio Tacito (275-276 d.C.), che si proclamò discendente di Publio Cornelio Tacito
La riscoperta di Tacito e il Tacitismo
Concluso questo breve ma necessario excursus sulla vita e le opere di Publio Cornelio Tacito, concentriamoci adesso su una questione tutt’altro che secondaria, ovvero come le sue opere, incluso il testo del De origine et situ Germanorum, siano potute giungere fino a noi, uomini del XXI° secolo. È infatti un’amara realtà il fatto che oltre l’80% della produzione letteraria della classicità greca e romana, incluse opere di enorme valore scientifico, geografico, umanistico e religioso, sia andato irrimediabilmente perduto, non superando i secoli bui dell’Alto Medioevo, che videro – soprattutto in Occidente – il tracollo di ogni ordinamento civile. Secoli di spietate persecuzioni, da parte degli Imperatori cristiani succedutisi da Costantino in poi, di tutto ciò che era riconducibile alla cultura “pagana”, distruzione e abbattimento dei Templi, roghi di biblioteche, incendi, saccheggi, devastazioni e invasioni barbariche non favorirono di certo la trasmissione e la conservazione dell’immenso patrimonio testuale e culturale dell’antichità. Ciò che si è salvato, lo sappiamo molto bene, è quello che il potere ha deciso di volta in volta di salvare, o comunque di non distruggere, e lo ha fatto spesso e volentieri per ragioni strumentali. Quelle stesse ragioni che hanno fatto sì che venissero preservate alcune opere di Aristotele, di Platone o di altri filosofi che la Chiesa tentò a più riprese di fare “proprie”, incardinando su di esse i fondamenti di alcuni suoi dogmi o della sua dottrina. Mentre nell’Oriente bizantino la trasmissione e la preservazione del patrimonio testuale e culturale sia della tradizione ellenica che della romanità fu senz’altro maggiore, e in molti casi incoraggiato anche da alcuni Imperatori illuminati – basti ricordare, ad esempio Giovanni VIII° Paleologo, legato alla cerchia umanistico-iniziatica di Giorgio Gemisto Pletone – in un Occidente profondamente diviso, in preda ad una profonda involuzione civile e culturale, dominato da bellicose popolazioni barbariche latinizzate e da una Chiesa intollerante, sempre più impegnata a combattere le proprie eresie interne, la trasmissione della cultura della classicità (e la sua stessa sopravvivenza) fu dovuta principalmente all’azione e all’operato di alcuni ordini monastici. Come ho più volte spiegato nei miei saggi, negli ordini monastici e nelle grandi abbazie che sorsero rapidamente in buona parte dell’Europa trovarono sorprendentemente rifugio molti circoli e cenacoli intellettuali che ritennero molto più sicuro e conveniente sopravvivere all’interno della Chiesa che al di fuori di essa. Circoli e cenacoli intellettuali talvolta anche legati segretamente ad antiche tradizioni filosofiche e religiose pre-cristiane entrate giocoforza in clandestinità, che, nella quiete dei monasteri, riuscirono a sopravvivere e prosperare, rendendosi artefici del salvataggio e della meticolosa ricopiatura di un vastissimo numero di testi classici che altrimenti sarebbero andati perduti per sempre.
Nell’Occidente non si ebbero quelle celebri personalità che nell’Oriente bizantino salvarono in prima persona un immenso patrimonio bibliografico e tradizionale, dando simultaneamente vita a raccolte enciclopediche di grande spessore (ad esempio, il Patriarca Fozio di Costantinopoli, nel IX° secolo, l’enciclopedista Suidas, nel X°), ma tante singole figure di monaci eruditi, per lo più rimaste anonime o sconosciute alla storiografia, che, avendo libero accesso alle biblioteche, che nei secoli dell’Alto Medioevo si trovavano principalmente nei monasteri ed erano di fatto inaccessibili alle messe popolari incolte, dedicarono le proprie intere esistenze a salvaguardarne i preziosi contenuti. Così, luoghi come Hersfeld, Fulda, Cluny, Saint Dié des Vosges, Montecassino, Camaldoli e molti altri, divennero dei luminosi fari di cultura e di conoscenza nel contesto della Chiesa, ma anche nonostante la Chiesa. Le gerarchie vaticane medioevali, tranne rarissime eccezioni, assai poco infatti fecero per salvaguardare un patrimonio culturale, quello classico, che rappresentava piuttosto ai loro occhi un’ostica vestigia di un passato “pagano” sul quale si gloriavano di aver trionfato, se non addirittura una minaccia al loro potere, sia politico che “spirituale”.
Scambio di corrispondenza tra il Califfo Al Ma’mun della dinastia Abbasside, animatore della Bayt Al Ḥikma di Baghdad, e l’Imperatore bizantino Teofilo (da un manoscritto bizantino del XIII° secolo)
Non dimentichiamoci che, attorno all’anno 1000, la Biblioteca Vaticana conteneva ufficialmente (e scandalosamente) non più di 900 libri, niente di fronte agli oltre due milioni di testi conservati ad esempio nella Bayt Al Ḥikma di Baghdad, quella favolosa Casa della Sapienza voluta e realizzata dagli illuminati califfi della dinastia islamica degli Abbassidi. Dobbiamo quindi all’opera certosina di certi monaci amanuensi medioevali se tante opere immortali dell’antica letteratura – inclusa, come più avanti vedremo, anche la Germania di Tacito – sono potute sopravvivere nell’Occidente e giungere fino a noi. Plinio il Giovane, grande amico di Tacito e sincero ammiratore delle sue opere, predisse che esse sarebbero state immortali. Non fu però esattamente così. Solo un terzo delle Historiae, ad esempio, è sopravvissuto fino a noi e, per giunta, in un numero esiguo di manoscritti. Dipendiamo inoltre da un unico manoscritto per i libri I-VI degli Annales e da un altro per l’altra metà superstite (libri XI-XVI) e per i cinque libri delle Historiae rimastici. Ancora più complessa e rocambolesca fu, come vedremo più avanti, la sopravvivenza, nel corso del Medioevo, del testo del De origine et situ Germanorum. Le opere di Tacito sono state utilizzate come modello di riferimento dagli storici del II° e dei primi anni del III° secolo, come nel caso di Cassio Dione, che ne fece uso nel suo resoconto dell’esplorazione della Britannia ad opera di Agricola, e di Egesippo, che più volte citò Tacito nel suo racconto della grande rivolta ebraica. Il suo Latino difficile e forbito e il suo stile ellittico, tuttavia, furono imitati solamente dal grande storico del IV° secolo Ammiano Marcellino, che realizzò, di fatto, una vera e propria continuazione delle sue opere. La sua popolarità però diminuì con il tempo: i suoi ritratti a tinte fosche dei primi Imperatori non potevano di certo essere visti con favore nella Roma sempre più autocratica del Basso Impero, e il suo evidente disprezzo per l’Ebraismo e il Cristianesimo (entrambi pericolosi e nefasti culti stranieri agli occhi di un aristocratico romano del I° secolo) lo rese giocoforza impopolare tra i primi Padri della Chiesa. Tertulliano, ad esempio, accusò apertamente Tacito di aver inventato quella leggenda secondo la quale gli Ebrei adoravano la testa di un asino nel Sancta Sanctorum e lo definì «ille mendaciorum loquacissimus», il più loquace dei bugiardi. Nel corso del IV° secolo sono stati individuati sparsi riferimenti alla sua vita e al suo lavoro. Flavio Vopisco, presunto autore di alcune delle biografie presenti nella Historia Augusta, lo cita due volte (Aureliano, 2.1; Probo, 2.7) e lo nomina tra i disertissimos viros, gli uomini più eloquenti. Ammiano Marcellino, come accennato, iniziò le sue Storie dove Tacito aveva finito le sue. Girolamo dimostrò di conoscere i suoi scritti e Sulpicio Severo utilizzò i suoi Annales come fonte primaria per i passaggi sulla vita di Nerone. Ma dal V° secolo in poi, con il definitivo tracollo della romanità occidentale, solo pochi autori sembrano conoscerlo o ricordarsi di lui. Tra questi, Sidonio Apollinare, che sinceramente lo ammira, e Orosio, che a volte lo deride come uno sciocco e altre volte prende invece in prestito interi passaggi delle sue opere (compresi molti che sarebbero altrimenti andati perduti). Cassiodoro e il suo discepolo Giordane (metà del VI secolo) sono gli ultimi autori antichi a fare esplicitamente riferimento a Tacito; Cassiodoro utilizza parti della Germania e Giordane cita l’Agricola, ma entrambi conoscono curiosamente l’autore solo come “Cornelio”.
Dopo Giordane Tacito scomparve di fatto dalla letteratura medioevale, e solo quattro riferimenti certi alle sue opere risultano fino al 1360. Due di essi provengono da monaci franchi della Rinascita carolingia: gli autori degli Annales Fuldenses usarono infatti gli Annales di Tacito, e Rodolfo di Fulda prese in prestito alcuni passi della Germania per la sua Translatio Sancti Alexandri. Alcune opere di Tacito erano sicuramente presenti fin dal 1100 nell’Abbazia di Montecassino dove compaiono peraltro gli altri due riferimenti: Pietro Diacono, che fece non pochi richiami all’Agricola nella sua Vita Sancti Severi, e Paolino Veneto, vescovo di Pozzuoli, che citò passi degli Annales nel suo De Mapa Mundi. Seguiranno secoli di oblio, fino a quando, con l’avvento della stagione dell’Umanesimo, sarà un erudito come Giovanni Boccaccio – che portò personalmente da Montecassino a Firenze un manoscritto contenente i libri XI-XVI degli Annales e le Historiae – a ridare lustro alle opere di Tacito, che da allora ricominciarono a circolare e a diffondersi presso alcune cerchie intellettuali e sapientali, in particolare quelle di Coluccio Salutati e Leonardo Bruni. Tuttavia, anche per ragioni prettamente stilistiche, molti umanisti del XIV° e XV° secolo continuarono a prediligere lo stile regolare e scorrevole di Marco Tullio Cicerone o la avvincente storiografia “patriottica” di Tito Livio. Ciononostante, l’editio princeps delle opere di Tacito, contenente i libri XI-XVI degli Annales, i libri I-V delle Historiae, il De origine et situ Germanorum e il Dialogus de oratoribus, venne data alle stampe nel 1470, presso la tipografia veneziana di Wendelin Von Speyer, trovando ampia diffusione negli ambienti colti non solo italiani, ma anche di altre nazioni europee. Inoltre, durante il pontificato del dotto Leone X° (al secolo Giovanni de’ Medici, figlio del grande mecenate ed iniziato Lorenzo il Magnifico) fu scoperto nell’Abbazia benedettina di Corvey, in Renania, quello che sarà poi noto come il Codice Mediceo I°, contenente i primi libri degli Annales, che vennero prontamente editi da Filippo Beroaldo il Giovane a Roma nel 1515 e da Alessandro Minuziano a Milano nel 1517, insieme con il resto delle opere di Tacito. Questo grande autore e interprete del più genuinospirito della romanità e della tradizione latina era così, a pieno titolo, ritornato in pianta stabile sulla scena culturale e intellettuale e nelle biblioteche delle élite colte di tutta Europa.
All’inizio del XVI° secolo, dopo la drammatica espulsione dei Medici da Firenze, il loro successivo ritorno, e le guerre che segnarono buona parte del territorio italiano, Tacito tornò di attualità tra i teorici del repubblicanesimo classico, soprattutto quelli legati a circoli iniziatici pitagorici anti-medicei. Niccolò Machiavelli, che a tali ambienti notoriamente apparteneva, fu il primo a individuare in Tacito una sorta di modello sia politico che letterario. Una citazione dagli Annales (13.19) appare infatti nel capitolo XIII del Principe («fu sempre opinione e sentenzia delli uomini savi, quod nihil sit tam infirmum aut instabile quam fama potentiae non sua vi nixa»). In molti hanno in seguito ravvisato nel principe idealizzato e teorizzato dal diplomatico fiorentino una sorprendente somiglianza con la figura di Tiberio tratteggiata da Tacito e alcuni critici letterari, tra cui Giuseppe Toffanin, hanno ipotizzato che Machiavelli possa aver fatto dello storico romano un uso assai maggiore di quanto non traspaia a prima vista dalle sue opere. Anche se il Cancelliere della Repubblica Fiorentina quasi certamente non aveva avuto la possibilità di accedere ai primi libri degli Annales, che vennero riscoperti e pubblicati solo dopo la stesura del Principe.
Niccolò Machiavelli
Dopo la condanna di Machiavelli al famigerato Indice dei libri proibiti, i filosofi politici dei paesi cattolici utilizzarono frequentemente (e in maniera convenzionale) l’autore romano al posto del filosofo fiorentino, e l’Imperatore Tiberio come maschera del principe ideale. Autori come Francesco Guicciardini, dal canto loro, consideravano l’opera di Tacito alla stregua di un manuale per la costruzione di uno stato dispotico. Seguendo questa linea di pensiero, i filosofi della Controriforma e dell’età dell’assolutismo videro nelle sue opere una fonte inesauribile di regole e principî da impiegare nell’azione politica. Tra questi anche il drammaturgo, storico e letterato torinese Emanuele Tesauro, che nel 1672, nella sua opera La filosofia morale, invitò i suoi lettori ad aprire gli Annales e le Historiae, «nuova scuola politica» in cui Tacito «insegna con quali massime si governi un principe accorto, ma cattivo, e con quali massime si debba governare un buon cittadino verso un tal principe». Contribuì sicuramente a questa rinnovata fama di Tacito anche un crescente interesse stilistico per una cultura che, a detta dei moderni critici, stava ormai esaurendo la spinta del “ciceronianismo”. Fatto sta che le sue opere iniziarono ad avere una sempre maggiore diffusione in ambito europeo in seguito all’edizione critica del filologo fiammingo Giusto Lipsio (Anversa, 1574), che si rivelò vero e proprio bestseller della prima Età Moderna, preceduta, tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600 da ben tre traduzioni in lingua Italiana dell’opera omnia dello storico latino: la prima ad opera del senese Adriano Politi (1603), le altre ad opera dei fiorentini Curzio Picchena (1607) e Bernardo Davanzati (1637), che già aveva curato nel 1596 un’edizione del primo libro degli Annali.
Sulla scia di tutte queste pubblicazioni, molti furono gli studiosi italiani che si dedicarono all’analisi delle opere di Tacito, come Virgilio Malvezzi, Traiano Boccalini e Scipione Ammirato. Esperti, traduttori e commentatori dello storico latino non mancarono neanche in Spagna (Baltasar de Alamos y Barrientos, Antonio Pérez), in Francia (Nicolas Perrot d’Ablancourt, Abraham Nicolas Amelot de la Houssaye) e in Germania (Christoph Pflug, Johann Heinrich Boeckler). Sia Richelieu che Olivares, inoltre, furono notoriamente lettori appassionati dell’autore latino, che presero a modello per la loro attività politica. Gli intellettuali spagnoli del Siglo de Oro conobbero Tacito attraverso gli umanisti del Rinascimento italiano, basandosi soprattutto sull’edizione critica degli Annales pubblicata da Emilio Ferretti nel 1542, sui Discorsi sopra Cornelio Tacito di Scipione Ammirato del 1593 e sul trattato Sopra i primi cinque libri di Cornelio Tacito di Filippo Cavriani del 1597. Una grande influenza esercitò anche Giusto Lipsio, sia come editore delle opere di Tacito (Anversa, 1574-1584), che attraverso i suoi Politicorum sive civilis doctrinae (Leida, 1589). Le prime traduzioni castigliane degli scritti di Tacito risalgono alla seconda decade del XVII° secolo: nel 1615 furono pubblicati a Madrid i primi cinque libri degli Annales tradotti in Castigliano da Juan de la Cueva, un anno dopo la pubblicazione del Tácito Español ilustrado con aforismos di Baltasar Álamos de Barrientos. Le edizioni di Manuel Sueyro (Anversa, 1613) e Carlos Coloma (Dounai, 1629) risalgono anch’esse a questo periodo.
La moda del “tacitismo” aveva guadagnato anche i circoli intellettuali tedeschi e il problema della “Ragion di Stato” aveva grandemente stimolato specifiche curiosità. In Germania, i Discorsi sopra Cornelio Tacito dell’Ammirato apparvero, tradotti in Latino, nel 1609 e nel 1618 (Francoforte) e lo storico toscano viene qualificato nel frontespizio come celeberrimo «inter neotericos scriptores». Dobbiamo considerare che nei Discorsi sopra Cornelio Tacito l’Ammirato si accinse alla non facile impresa di una nuova confutazione della dottrina machiavellica, considerata empia agli intellettualmente difficili tempi della Controriforma (lo storico evita perfino di nominare il Machiavelli, chiamandolo sic et simpliciter «l’autor dei Discorsi»). Nuova era però l’idea di confutare la dottrina del Machiavelli fondandosi sulle opere di Tacito, tanto più dopo che il filosofo gesuita Giovanni Botero aveva messo sullo stesso piano entrambi gli autori. «Viaggiando nelle corti – scriveva Botero – mi ha recato somma meraviglia il sentir tutto dì mentovare ragione di stato, ed in cotal materia citare ora il Machiavelli, ora Cornelio Tacito, quello perché dà precetti appartenenti al governo, questo perché esprime vivamente l’arti usate da Tiberio Cesare e per conseguire e per conservarsi l’imperio di Roma». Botero, nella dedica introduttiva della sua opera Della ragion di stato (da lui dedicata al Principe e Vescovo di Salisburgo Wolf Dietrich Von Raitenau), si meravigliava che un autore così malvagio e il governo di un tiranno fossero tenuti in tale considerazione da farne il modello di condotta dei governanti del suo tempo. In Inghilterra, durante la terribile stagione della guerra civile, sia i parlamentari che i realisti subirono – chiaramente entrambi a loro modo e tentando di adattarne il pensiero alla loro visione della politica e dello stato – l’influenza di Tacito. Mentre il poeta John Milton, segretario nel Consiglio di Stato del Commonwealth, definì Tacito «il più grande nemico dei tiranni», rispondendo al monarchico francese Claudius Salmasius (che aveva citato Tacito fuori contesto a sostegno della monarchia assoluta), lo storico realista Edward Hyde, I° Conte di Clarendon, mostrò una profonda fascinazione per lo storico latino, e al contempo una profonda conoscenza delle sue opere. Nella sua History of Rebellion and Civil War, scritta durante l’esilio, Clarendon citò Tacito più di qualsiasi altro autore. Lo stile e il vocabolario di Clarendon erano però distanti da quelli di Tacito e dei “tacitisti”, ma riflettevano un grande interesse per la raffinatezza delle analisi politiche di Tacito e Machiavelli. Sebbene Clarendon abbia espressamente evitato di usare la parola preferita dai tacitisti, “prudenza”, si servì spesso di concetti analoghi come “abilità” (skill), “opportunità” (seasonableness) e “destrezza” (dexterity).
Durante la controversa stagione dell’Illuminismo Tacito fu ammirato, citato e commentato da philosophes, intellettuali e enciclopedisti soprattutto per la sua opposizione al dispotismo. Celebri – anche se in verità del tutto opinabili – sono divenute le espressioni usate dallo scrittore e critico letterario Giuseppe Toffanin che, in relazione all’Età dei Lumi, indicò nel suo saggio Machiavelli e il tacitismo (Padova, 1921) un tacitismo “rosso” per descrivere l’interpretazione repubblicana di Tacito, in contrapposizione a un tacitismo “nero”, di ispirazione invece machiavellica. In letteratura Pierre Corneille nel suo Othon (1665) e Jean Racine nel suo Britannicus (1669) si ispirarono apertamente alle opere di Tacito. Così fece anche Vittorio Alfieri, che prese ispirazione dallo storico latino per i alcuni dei suoi personaggi drammatici. Persino il grande storico e libero muratore britannico del XVIII° secolo Edward Gibbon fu fortemente influenzato dallo stile dello storico latino nella sua monumentale opera History of the Decline and Fall of the Roman Empire.
In Francia, quell’élite intellettuale che pianificò e attuò la Rivoluzione, molti dei cui esponenti avevano studiato Tacito fin dalla loro prima educazione, fece molto uso – anche se, ovviamente, in chiave strumentale – delle sue critiche della tirannia e del suo amore per la repubblica. Tacito fu infatti, dietro Cicerone, Orazio e Plutarco, uno degli autori più citati dai membri dell’Assemblea Nazionale e Legislativa e dagli autori rivoluzionari come Jacques Pierre Brissot. E d’altro canto, durante il regime del Terrore, Camille Desmoulins e i redattori degli Actes des Apôtres si servirono abilmente delle sue opere per denunciare gli eccessi dei giacobini. Nel terzo numero del Vieux Cordelier Desmoulins tradusse infatti una serie di selezionati brani antimonarchici tratti dalle opere di Tacito mettendo in evidenza le similitudini e i parallelismi tra il governo autoritario di Robespierre e il dispotismo di Tiberio.
Napoleone Bonaparte, al contrario, attaccò le opere dello storico latino, sia per lo stile che per i contenuti, arrivando di fatto a metterle all’indice. L’aspirante Imperatore, lodato da Goethe per la sua grande conoscenza della letteratura, era infatti ben conscio del potenziale pericolo che un’ampia diffusione delle Storie di Tacito presso certi ambienti intellettuali poteva rappresentare per chi desiderasse conquistare il potere (e soprattutto mantenerlo a lungo). Già all’indomani dell’incoronazione di Napoleone, François-René de Chateaubriand, per esempio, già non aveva indugiato nel paragonare il nuovo Imperatore dei Francesi ai peggiori Imperatori di Roma, avvertendo che un nuovo Tacito avrebbe un giorno fatto per il Bonaparte quello che Tacito aveva fatto per Nerone. La reazione dell’Imperatore, come era prevedibile, fu feroce: lamentò con Goethe e Wieland che «Tacito vede intenzioni criminali nelle azioni più semplici, dipinge come assolute canaglie tutti gli Imperatori per farci ammirare il suo genio nel descriverli». In altre occasioni Napoleone giurò che Tacito, da lui definito spregiativamente un “pamphlétaire”, aveva «calunniato quegli Imperatori che il popolo romano aveva amato». Sia durante il primo che durante il secondo Impero l’opinione pubblica francese (chiaramente parliamo sempre delle classi colte) fu dunque spaccata in due tra gli ammiratori di Tacito, critici del bonapartismo, e i suoi detrattori, sostenitori di Napoleone e del suo progetto politico.
Napoleone Bonaparte
A caccia di manoscritti
Concluso questo excursus sulle rinnovate fortune di Tacito, dei suoi scritti e del suo pensiero dall’Umanesimo fino alle soglie della modernità, concentriamoci adesso su come l’opera oggetto del nostro studio, il De origine et situ Germanorum, meglio nota come Germania, sia stata preservata dall’oblio, tornando prepotentemente alla ribalta e all’attenzione degli ambienti colti di tutta Europa. La nostra storia ha inizio (guarda caso) proprio in Germania, quando, nel 1425, venne rinvenuto nell’Abbazia di Hersfeld, un importante centro umanistico medievale poco a Nord di Fulda, il cosiddetto Codex Hersfeldensis (Codice di Hersfeld), che giaceva, dimenticato da secoli, in un polveroso archivio. Si trattava di un manoscritto miscellaneo risalente al IX° secolo, comprendente la Germania e l’Agricola di Publio Cornelio Tacito, con il Dialogus de Oratoribus e frammenti del De Grammaticis et Rhetoribus di Svetonio. La scoperta, a quanto sappiamo, fu dovuta all’arcivescovo di Milano Bartolomeo Capra, che si trovava a quel tempo in Germania al seguito dell’Imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Si sparse subito la notizia e il manoscritto suscitò l’interesse di numerosi umanisti e anche del Pontefice Niccolò V°, al secolo Tommaso Parentucelli, che lo fece arrivare a Roma nel 1455 tramite Enoch d’Ascoli, un’interessante figura di umanista, iniziato ed erudito, che si trovava segretamente in missione in Germania per conto del Papa, che lo aveva incaricato di ricercare manoscritti e testi rari da destinarsi ad una nuova biblioteca in allestimento in Vaticano. Questa, almeno, è la versione “ufficiale”. In realtà, nella prima metà del Quattrocento, sulla spinta della rinascita umanistica e dietro l’impulso di importanti casate e dinastie prevalentemente italiane (i Medici, i Gonzaga, i D’Este, i Da Varano, i Da Montefeltro, i Malatesta, solo per citare le più attive e importanti), si era scatenata una vera e propria “caccia al tesoro” senza esclusione di colpi. Il “tesoro”, in questo caso, era rappresentato da un grande numero di testi antichi risalenti alla classicità greca e romana ufficialmente considerati perduti (opere di Filosofia, prevalentemente platonica, ma anche trattati storici e scientifici), ma che si riteneva – chiaramente a ragione – fossero conservati nelle biblioteche di alcune grandi abbazie sia italiane che europee. Testi che erano sfuggiti ai roghi dei templi e delle antiche biblioteche appiccati dal fanatismo cristiano dei primi secoli e che erano stati diligentemente trascritti e preservati dagli abili amanuensi di alcuni ordini monastici. Questa “caccia al tesoro” non fu dovuta esclusivamente ad un interesse umanistico e culturale, ma anche e soprattutto alla volontà, da parte di casate che tramandavano segretamente al proprio interno delle filiazioni iniziatiche tutt’altro che cristiane, di mettere le mani su testi che potessero risultare scomodi per l’autorità e il potere della Chiesa. Basti pensare, ad esempio, al Corpus Hermeticum, il cui manoscritto, raccolto e sistematizzato nell’XI° secolo dal grande erudito e iniziato bizantino Michele Psello, venne individuato in un monastero della Macedonia da agenti di Cosimo de’Medici, che incaricò prontamente un suo uomo di fiducia, il monaco Leonardo da Pistoia, di recuperarlo e portarlo a Firenze nel 1460, affidandone poi la traduzione a Marsilio Ficino.
Per decenni molte di queste casate, alcune delle quali erano legate a ordini iniziatici eleusini, orfici e pitagorici, si contesero avidamente opere di Filosofia platonica, antichi trattati storici, ermetici, cabalistici, teologici e cosmogonici, opere scientifiche e carte geografiche, ricorrendo talvolta a veri e propri agenti segreti, e lo stesso fecero, per analoghi motivi, personaggi come Elisabetta Iª d’Inghilterra, Cristina di Svezia, l’Imperatore del Sacro Romano Impero Rodolfo II° d’Asburgo e il Sovrano d’Ungheria Mattia Corvino. Era pertanto ovvio che anche la Chiesa non potesse restare ai margini di tale contesa e che Pontefici particolarmente illuminati si servissero di propri agenti o uomini di fiducia per recuperare manoscritti di testi “pagani” che reputavano fosse più sicuro custodire nelle segrete stanze vaticane piuttosto che lasciarli cadere nelle mani dei Medici o dei Malatesta. E in questo solco si colloca l’operato di Enoch d’Ascoli, singolare figura di recuperatore e procacciatore di testi classici e di opere “perdute” per conto del Vaticano. Un compito che egli seppe svolgere egregiamente, recuperandone molti un po’ in tutte le contrade d’Europa, prevalentemente in abbazie e monasteri. Di sicuro Enoch d’Ascoli non avrebbe potuto ricevere questo incarico da Papa Niccolò V° se non avesse avuto la preparazione adeguata ed i necessari requisiti culturali per poterlo svolgere. Requisiti che egli sicuramente aveva infatti maturato, come vedremo, fin dagli anni della sua gioventù. Nato a Ascoli attorno alla fine del XIV° secolo (non si conosce l’anno esatto) da una famiglia di modeste condizioni, sappiamo che si formò intellettualmente dapprima nella stessa città picena, nello Studio fondato da Papa Niccolò IV°. Si trasferì poi a Firenze, dove fu per alcuni anni discepolo dell’umanista e iniziato pitagorico Francesco Filelfo. Quest’ultimo, infatti, in una lettera indirizzata alcuni anni dopo al Pontefice Callisto III°, confermò che Enoch (il cui nome di battesimo fu Alberto, ma rimase noto con quello del personaggio biblico Enoch, adottato non si sa in quale circostanza e per quale motivo, e talvolta erroneamente ritenuto il cognome; al nome aggiunse l’appellativo topografico “Asculanus”) era stato suo “auditor” a Firenze insieme con Enea Silvio Piccolomini (l’allora arcivescovo di Siena, asceso poi nel 1458 al Soglio di Pietro con il nome di Pio II°). E poiché il Piccolomini fu discepolo del Filelfo fra il 1429 e il 1431 si deve dedurre che a quel tempo risalga anche la frequentazione a Firenze di Enoch col Filelfo (che vi rimase dal 1429 al 1434). Non si può escludere l’ipotesi che Enoch possa essere giunto a Firenze addirittura al seguito dello stesso Filelfo, che aveva già acquistato una certa fama nella natia (e non lontana da Ascoli) Tolentino. A Firenze dovette comunque rimanere ininterrottamente anche dopo che il Filelfo, nel 1434, lasciò la città per un insanabile contrasto con Cosimo de’ Medici, rientrato in patria nel Settembre dello stesso anno dopo il temporaneo esilio a Padova e Venezia. Lo dimostra una lettera raccomandatoria inviata proprio a Cosimo da Ambrogio Traversari, generale dell’Ordine dei Camaldolesi e iniziato orfico, nel Settembre del 1435, nella quale il Traversari ricorda a Cosimo che Enoch era già stato il maestro (“institutor”) dei suoi figli: ed ora – evidentemente dopo il rientro di Cosimo – cercava di nuovo i suoi favori. E evidentemente li ottenne, perché risulta che divenne educatore di Piero e di Giovanni de’ Medici, svolgendo questo ufficio anche in casa dei potenti banchieri Bardi. Con tali incombenze dovette rimanere a Firenze almeno fino al 1440, anno in cui il ruolo di educatore di Giovanni di Cosimo de’ Medici venne affidato a Carlo Marsuppini. In seguito a questa circostanza è probabile che Enoch abbia fatto ritorno ad Ascoli, dove insegnò per qualche tempo, per poi trasferirsi a Perugia, dove venne chiamato a leggere “poesiam et auctores” nel prestigioso Studio cittadino. Suoi scolari a quel tempo furono, fra gli altri, gli umanisti Antonio Bonfini e Pacifico Massimi, che ebbero un non trascurabile ruolo nella cultura perugina del secolo XV°.
Ben presto però Enoch d’Ascoli si trasferì a Roma, dietro diretto e personale interessamento di Niccolò V°. Certo è che questi doveva aver già conosciuto Enoch durante il soggiorno fiorentino, quando cioè – ancora lontano dall’intraprendere la carriera ecclesiastica – Tommaso Parentucelli svolgeva le stesse mansioni di pedagogo nelle case degli Albizzi e degli Strozzi. Anche a Roma, almeno inizialmente, insegnò poetica ed eloquenza, nell’ambito del generale rinnovamento e potenziamento dello Studio romano promosso dal Pontefice, subentrando nella cattedra che era stata di Teodoro Gaza, in anni particolarmente proficui per la diffusione della cultura umanistica nell’Urbe, dove, dal 1448, si trovava anche Lorenzo Valla. La sua carriera accademica subì un’interruzione quando il Papa lo incaricò di effettuare un viaggio in Oriente alla ricerca di codici e testi di autori classici con cui – ufficialmente – incrementare il patrimonio librario della Biblioteca Vaticana. Enoch intraprese allora la sua prima missione all’estero, sulla quale non disponiamo però di notizie precise, neppure riguardo ai risultati conseguiti. Poco dopo il suo ritorno dall’Oriente Enoch fu incaricato, sempre daNiccolò V°, di intraprendere un altro viaggio, questa volta verso l’Europa settentrionale, per cercarvi nuovi codici, anche in base alla convinzione, che si era diffusa, secondo la quale in Danimarca e in Norvegia si sarebbe trovato un testo più completo delle Storie di Tito Livio. Con una lettera del 30 Aprile 1431 (il cui testo si conservava, almeno fino al 1890, nell’Archivio di Königsberg, l’odierna Kaliningrad),sottoscritta da Poggio Bracciolini, Niccolò V° chiedeva al Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri Teutonici Ludwig Von Erlichshausen di facilitare in ogni modo le ricerche dei manoscritti, «libri antiqui praesertim et priscae scripturae», che Enoch d’Ascoli, «vir doctus graecis et latinis litteris familiaris noster», avrebbe effettuato nei «diversa loca et monasteria» della regione, e quindi la ricopiatura dei testi stessi. Dal Papa aveva infatti ricevuto l’ordine di far copia dei testi che fosse riuscito a trovare, ma Enoch fece molto di più, in quanto riportò a Roma molti originali di codici, che gli furono ceduti probabilmente perché considerati non di pregio o per mancanza di copisti disponibili.
Papa Niccolò V°, al secolo Tommaso Parentucelli
Sappiamo che il viaggio – all’inizio del quale Enoch, sulla via della Germania, si fermò a salutare a Verona l’amico Gregorio Correr (che raccontò questa visita in una sua lettera a Giovanni Tortelli) – durò a lungo, probabilmente alcuni anni, portando l’erudito fino alla Scandinavia. Ma più a lungo si fermò in Germania, e soprattutto a Fulda, ad Augusta e a Hersfeld, visitando un gran numero di biblioteche ecclesiastiche e conventuali. In Danimarca ritrovò le Elegiae in Maecenatem dello Pseudo Virgilio. In luoghi non precisati, ma molto probabilmente in Germania, la tragedia Orestes (nel ms. Bibl. Ambrosiana di Milano 0.74 suP. è esplicitamente detto che quest’opera fu «ab Enoch asculano reperta») e l’ItinerariumAntonini (peraltro già noto). A Fulda recuperò il celeberrimo De re coquinaria di Apicio, l’unico trattato di cucina pervenutoci dalla Roma imperiale; ad Augusta il commento oraziano di Porfirione (conservato nella Bibl. ap. Vaticana, Chigi H. VII.229); nel monastero di Hersfeld, centro di studio monastico attivo fin dall’VIII° secolo, poco a Nord di Fulda, infine, le opere considerate “minori” di Tacito: la Germania, l’Agricola, il Dialogus de oratoribus, nonché un frammento del De Grammaticis et Rhetoribus di Svetonio. Ma a dire il vero va pure riconosciuto che l’effettivo rinvenimento degli scritti di Tacito e di Svetonio nel monastero di Hersfeld in un unico codice manoscritto risalente al IX° secolo (chiamato poi appunto Codex Hersfeldensis) risaliva a più di venticinque anni prima, allorquando, fin dal Novembre 1425, un non meglio identificato “amico” aveva comunicato al grande umanista e iniziato toscano Poggio Bracciolini che in un solo monastero della Germania si trovavano conservate molte opere di autori latini. Il Bracciolini attribuiva questa scoperta ad un anonimo monaco di Hersfeld col quale sosteneva di essere in contatto, dati anche i frequenti viaggi a Roma che questo monaco doveva compiere per la risoluzione di pratiche riguardanti il suo convento. Secondo altre versioni il vero scopritore del manoscritto sarebbe invece stato l’Arcivescovo di Milano Bartolomeo Capra, recatosi in Germania al seguito dell’Imperatore Sigismondo nel 1421.
Carlo di Cosimo de’ Medici ritratto da Andrea Mantegna
Comunque sia andata in realtà, sta di fatto che il codice in questione, per quanto potesse essere stato “avvistato” o “identificato”, non uscì dalle mura del monastero di Hersfeld fino alla fatidica missione di Enoch d’Ascoli. A niente, infatti, erano serviti i successivi tentativi intrapresi dal Bracciolini (al quale il misterioso monaco di Hersfeld, tornato a Roma agli inizi del 1429, non aveva portato il manoscritto), o di un altro umanista fiorentino Niccolò Niccoli (gravitante nella cerchia orfica di Coluccio Salutati), che aveva chiesto di occuparsi della questione al Cardinale Giuliano Cesarini in occasione di un suo viaggio a Norimberga (non distante da Hersfeld) nel 1431. Neanche il potente cardinale romano, infatti, ebbe il tempo (o la voglia) di dedicarsi al recupero dei codici hersfeldesi. All’inizio del 1455 Enoch d’Ascoli fece ritorno in Italia con il suo ricco bottino di codici e manoscritti, ma ebbe la sventura di giungere a Roma poco prima della morte di Niccolò V°, avvenuta il 24 di Marzo. Lo sappiamo da una lettera di Carlo de’ Medici, allora pronotario apostolico, indirizzata al fratello Giovanni a Firenze il 13 Marzo di tale anno. In tale missiva, con cui veniva inviato a Firenze un dettagliato inventario dei codici recuperati da Enoch (evidentemente il Pater Patriae Cosimo voleva essere tenuto puntualmente informato su quali codici antichi il Vaticano avrebbe messo le mani), si esprime però un giudizio sostanzialmente negativo su quei rinvenimenti: «Come vedrete per questo inventario vi mando ed invero da farne più stima per la novità che per la utilità». La lettera riporta inoltre che l’ascolano fino a quel momento non ha voluto fare alcuna copia di questo inventario perché «dice non vuole avere durate fatiche per altri e non delibera dame copia alcuna, se prima da qualche grande maestro non è remunerato degnamente ed ha oppenione d’averne almanco 200 o 300 fiorini». Carlo de’ Medici sostiene pure che non valga la pena «gettare via tanti danari per cose, che la lingua latina può molto bene fare senza esse», perché, secondo quanti hanno già visto il materiale di Enoch, eccetto limitatissime eccezioni «tutto il resto non vale una frulla». Anche Vespasiano da Bisticci ritenne che l’ascolano trovasse «poche che degne cose di memoria» e sostenne pure che non ebbe «universale notizia di tutti gli scrittori e quegli ch’erano e quelli che non si trovano». Dalla missiva di Carlo de’ Medici (figlio naturale di Cosimo il Vecchio, avuto con una schiava circassa di nome Maddalena comprata a Venezia, e fin dalla giovinezza avviato dal padre alla carriera ecclesiastica) si evincono fondamentalmente due cose, clamorosamente ignorate dagli storici: in primis, che l’inventario dei testi recuperati in Germania da Enoch d’Ascoli inviato a Firenze era stato copiato segretamente e all’insaputa di quest’ultimo, con una vera e propria azione di intelligence (e che quindi monitoravano costantemente, tramite loro agenti, le acquisizioni delle biblioteche vaticane); in secundis, che i Medici, al di là del mero interesse umanistico, erano orientati a mettere le mani solo su determinati generi di testi antichi che ritenevano utili per i loro scopi o per consolidare il proprio potere o la propria influenza. Motivo per cui, appurato il contenuto dell’inventario enochiano, ritennero tali codici – incluso quello contenente le opere di Tacito – non di loro interesse.
Ma cosa ne fu, allora, di quei testi e, in particolare, del Codex Hersfeldensis?
Come abbiamo visto, Papa Niccolò V° ebbe appena il tempo di ringraziare Enoch d’Ascoli per i suoi preziosi servigi poiché morì poco dopo il ritorno di questi a Roma, avvenuto all’inizio di Marzo del 1455. Dopo la morte del Parentucelli, un Pontefice di grande cultura che, come è noto, nutriva forti interessi per la classicità e per gli studi umanistici, salì al Soglio di Pietro, l’8 Aprile del 1455, alla veneranda età di settantasei anni e scavalcando nel Conclave il favorito Basilio Bessarione (segretamente un iniziato dell’Ordine Pitagorico appartenente alla cerchia di Giorgio Gemisto Pletone), il valenciano Callisto III°, al secolo Alfons de Borja y Cabanilles. Zio del futuro Pontefice Alessandro VI° (il famigerato Roderic Llançol de Borja, meglio noto con la forma italianizzata di Rodrigo Borgia), a differenza del suo predecessore, per quanto i Borgia non fossero certo digiuni di cultura classica e addirittura appartenessero segretamente a una filiazione iniziatica isiaca, Callisto III° si dimostrò sostanzialmente ostile al mondo umanistico. Di fatto egli demolì in breve tempo, con disprezzo misto a determinazione, tutte le raccolte di preziosi testi e manoscritti avviate da Niccolò V° e cancellò anche al contempo contratti e commissioni che il Vaticano aveva in essere con importanti artisti di quel milieu culturale umanistico che stava trasformando la Roma dei Papi in una delle perle del Rinascimento. Una lettera dell’11 Aprile 1456, scritta da Carlo de’ Medici al fratello Giovanni a Firenze, riporta testualmente con malcelata ironia: «El Papa vuole che si vendano tutti i libri e tutte le gioie che radunò Papa Nicola». Chiaramente la nuova amministrazione pontificia si rifiutò di saldare il conto con Enoch d’Ascoli (che comunque rimase per un certo periodo nell’ambiente curiale), non mostrando più alcun interesse per i manoscritti che tanto si era dato la briga di recuperare. Lo sfortunato ormai di fatto ex agente papale, che sicuramente non lavorava esclusivamente per la gloria, pensò quindi di rivolgersi ad altri committenti. Sappiamo che comunque non ci riuscì, perché da un’altra lettera di Carlo de’ Medici (che evidentemente continuava a seguire passo passo ogni sua mossa), risalente al 10 Dicembre di quell’anno, si apprende che poco tempo prima era tornato, con i suoi libri e manoscritti, nella natia Ascoli, e che lì era morto.
Si ritiene che prima della sua definitiva partenza da Roma, probabilmente nel tentativo disperato di monetizzare per sostenere le spese del viaggio, Enoch abbia compiuto una maldestra operazione che comportò lo smembramento di alcuni codici, incluso il vetusto Codex Hersfeldensis, che venne smembrato in tre sezioni per farne delle copie. Una decisione, questa, che si rivelò comunque inutile, ma che nelle intenzioni dell’ascolano doveva essere finalizzata a trarne maggior profitto, dato che sia quello che altri codici non potevano più essere acquistati dalla Biblioteca Vaticana. Quando di diffuse la notizia della morte di Enoch d’Ascoli (peraltro avvenuta in circostanze mai chiarite, tanto che da alcuni storici non ne è stato escluso l’assassinio), molti personaggi iniziarono ad interessarsi al recupero dei manoscritti. Tra questi, sollecitato dall’immancabile Carlo de’ Medici (che evidentemente aveva cambiato idea sul contenuto di quei codici e che si era finalmente deciso ad acquisirli per inviarli a Firenze), Stefano Nardini, allora governatore delle Marche (poi Arcivescovo di Milano nel 1461 e Cardinale nel 1473) e l’allora Cardinale di Siena Enea Silvio Piccolomini, erudito ed umanista (destinato poi ad essere eletto Papa con il nome di Pio II° nel 1458). I loro tentativi, per quanto ci è dato sapere, non risultano però essere stati proficui e, in breve tempo, del Codice di Hersfeld si persero le tracce. Questo almeno fino al 1902, quando a Jesi venne scoperta e identificata una delle tre sezioni in cui Enoch d’Ascoli lo aveva suddiviso. Sezione destinata a passare alla storia con il nome di Codex Æsinas Latinus 8 o Codice Esinate.
Il Codice Esinate
La scoperta fu dovuta a Cesare Annibaldi, professore di Latino e Greco al Liceo Classico Vittorio Emanuele II° di Jesi e direttore della biblioteca e della pinacoteca della città marchigiana, che, nella biblioteca privata del Conte Aurelio Guglielmi-Balleani, riconobbe un codice di pergamena databile al IX° secolo che appariva essere il più antico testimone dell’Agricola e della Germania di Tacito. Nel 1907, con il consenso della nobile famiglia jesina, il codice venne inviato a Marco Vattasso, prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, che fu tra i primi ad esaminarlo e riconoscerne i contenuti. Si appurò che si trattava di un insieme di nove fascicoli in pergamena, vergati principalmente a due mani in scrittura carolina più o meno fra l’840 e l’850, misurante 264 x 211 mm., con uno specchio di pagina di 200 x 132 mm. e con un’impaginatura impostata su due colonne di trenta righe Alla prima mano risultava sicuramente attribuita la stesura del Bellum Troianum, alla seconda quella dei ventisette capitoli dell’Agricola di Tacito. Ma le sorprese non erano finite, perché il codice, grazie ad aggiunte eseguite nel terzo quarto del XV° secolo (quindi già dopo la morte di Enoch d’Ascoli), conteneva sorprendentemente anche il testo completo della Germania! Le parti del IX° secolo mostravano incipit ed explicit solenni in capitale epigrafica, a righe alterne in rosso e oro o verde. I titoli dei libri figuravano in onciale, in rosso e oro. Alla fine del testo, appariva disegnato un albero tracciato in inchiostro rosso. Le parti aggiunte nel XV° secolo, vergate sul lato “carne” dei fogli di pergamena (mentre quelle del IX° secolo furono scritte sul lato “pelo”) riprendevano quelle alto-medievali, con titoli rubricati a righe alterne in rosso e nero e letterine rubricate.
Si riuscì in seguito ad appurare che il codice in questione (ottenuto, occorre ricordarlo, dallo smembramento dell’originario Codex Hersfeldensis operato da Enoch d’Ascoli), contenente in origine solo il Bellum Troianum di Ditti Cretese e l’Agricola, era giunto in possesso, già pochi anni dopo la morte di Enoch, del Conte osimano Stefano Guarnieri, diplomatico alla corte papale di Callisto III°, che verosimilmente si preoccupò di integrarlo e di farvi aggiungere il testo della Germania. Un’operazione, questa, che evidentemente comportò una fedele copiatura da un’altra delle tre sezioni in cui era stato frammentato il Codice di Hersfeld, anch’essa probabilmente finita nelle mani del Guarnieri e forse in seguito ceduta o venduta. Venne appurato anche che la biblioteca del Conte Guarnieri fu conservata a Osimo dalla famiglia fino al 1793, quando Speranda Guarnieri, sua ultima discendente, la spostò a Jesi nella dimora del marito, il Conte Nicola Balleani. Nel 1929 il Codice Esinate fu messo in vendita dai Balleani ad un’asta di Sotheby’s a Londra, ma il destino volle che restasse invenduto, tornando così a Jesi e restando di proprietà della famiglia. Ma questa comparsa internazionale del prezioso manoscritto dovette sicuramente accrescerne la notorietà, tanto che poghi anni dopo, il 18 Marzo del 1933, venne notificato ai proprietari dalla Sovrintendenza Bibliografica di Bologna per il suo alto valore filologico.
Ma le rocambolesche vicende legate a questo straordinario e prezioso manoscritto erano tutt’altro che concluse e si apprestavano, di lì a breve, a prendere pieghe decisamente inaspettate, degne delle migliori pellicole cinematografiche d’avventura. Con l’evolversi degli eventi in Europa e con l’avvento in Germania del III° Reich (la nomina di Adolf Hitler a Cancelliere risale allo stesso 1933), la diffusione della notizia del ritrovamento e della notificazione, in Italia, del manoscritto più antico contenente il De origine et situ Germanorum di Tacito non lasciò indifferenti gli esponenti di quei circoli culturali e intellettuali che gravitavano attorno al Partito Nazional Socialista Tedesco dei Lavoratori e che erano dediti all’esaltazione, anche mistica ed esoterica, della germanicità e della presunta purezza della razza “ariana”. Un autore come Publio Cornelio Tacito, che nella sua Germania esaltava il coraggio e la crudeltà in battaglia delle antiche tribù teutoniche, e al contempo la semplicità spartana dei loro costumi, la loro integrità morale e il loro rispetto dei sacri valori, non poteva certo non alimentare le fantasie di quegli ideologi che propugnavano il nazionalismo pan-germanico e la superiorità razziale dei Tedeschi. Sappiamo bene che Tacito, lodando la purezza delle virtù germaniche, intendeva proporre un esempio virtuoso contro l’immoralità dilagante, la corruzione e la decadenza dei costumi romani e mettere in guardia sul possibile futuro dell’Impero, ma la sua opera, come abbiamo visto già ampiamente strumentalizzata in chiave politica da Machiavelli in avanti, era inevitabile che venisse equiparata da certi ideologi tedeschi ad una sorta di “bibbia” da utilizzare per alimentare per la macchina della propaganda. In particolare, alcuni passaggi del IV° capitolo della Germania, in cui Tacito proclama di associarsi «all’opinione di quanti ritengono che i popoli della Germania, non macchiati da alcun matrimonio con altre genti, siano rimasti una stirpe distinta, pura e simile solo a sé stessa» ed elenca i tratti che caratterizzano l’aspetto tipico tedesco («gli occhi sono azzurri e cupi, i capelli rossi, la corporatura grande e adatta all’attacco»), era impensabile che non risuonassero come soavi melodie strumentali agli orecchi di personaggi come l’ideologo Alfred Rosenberg e il comandante delle Schutzstaffel Heinrich Himmler. Quest’ultimo, in particolare, divenne addirittura ossessionato dal Codice Esino, al punto di progettare di impossessarsene e di farlo arrivare in Germania con le buone o con le cattiva. Era infatti tenacemente convinto che la più antica versione manoscritta della Germania di Tacito, un testo che conteneva lodi alla razza ariana scritto da un romano, costituisse un formidabile strumento di propaganda e, al contempo, un vero e proprio oggetto “di potere” per l’alimentazione dell’eggregore del Terzo Reich, al pari della Lancia di Longino. E ne era ossessionato a tal punto da ignorare quei passaggi del testo in cui Tacito non mancava di definire gli appartenenti di certe tribù anche come degli ubriaconi collerici, pronti a giocarsi ai dadi anche la dignità e la libertà personale.
Heinrich Himmler
Su consiglio di Rosenberg e di Himmler, Adolf Hitler richiese dunque formalmente il codice a Mussolini, che con leggerezza glielo promise durante la sua visita in Germania nel 1937. Ma il Duce, una volta rientrato in patria, dovette scontrarsi con le fortissime resistenze degli studiosi e degli intellettuali italiani, alcuni dei quali molto influenti nei ranghi del Partito, e si vide pertanto costretto a rimangiarsi la parola con il Führer. I successivi eventi, la stipula dell’Asse e poi lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fecero sì che non si tornasse più a parlare del Codice Esino e che non vi fossero ulteriori richieste tedesche a riguardo, ma dopo la deposizione e l’arresto di Mussolini il 25 Luglio 1943 e l’armistizio di Cassibile dell’8 Settembre dello stesso anno, che la Germania vide come un vero e proprio tradimento, lo scenario internazionale mutò repentinamente. Le ingenti truppe tedesche in Italia, da alleate si convertirono de facto in forza di occupazione e Heinrich Himmler, che non aveva di certo rinunciato a mettere le mani sul manoscritto, vide aprirsi una straordinaria finestra di opportunità. Non tardò infatti ad inviare un commando di SS a fare irruzione nella villa della famiglia Balleani a Fondevano, nella periferia Est di Jesi, dove nel 1902 era stato scoperto il Codex Æsinas, con il compito di impossessarsene ad ogni costo. Le SS perquisirono e devastarono l’intera abitazione, ma non trovarono ciò che cercavano. Rivolsero quindi le loro attenzioni alle altre due proprietà dei Conti Balleani, il palazzo di Osimo (dove la famiglia si era nascosta in una cantina e riuscì a scampare alla perquisizione) e il Palazzo Balleani in Piazza Federico II° a Jesi. Il codice era proprio lì, ma non si trovava nella biblioteca. Il Conte Balleani aveva infatti ben pensato di nasconderlo sul fondo di una cassa di legno dentro un ripostiglio delle cucine, e non fu così trovato, con grande disappunto dei soldati, che dovettero andarsene a mani vuote. Il codice fu così salvato e rimase a Jesi, sfuggendo definitivamente alle mire di Himmler e di Hitler, che di fatto si ritrovarono di lì in poi con ben altre priorità da affrontare.
Quello che accadde dopo è storia nota. Negli anni il Codex Æsinas venne concesso in prestito alla Biblioteca Nazionale di Firenze, dove, custodito in una cassetta di sicurezza, subì purtroppo gravi danni con l’alluvione del 1966. Venne però prontamente restaurato dal laboratorio dell’Abbazia di Grottaferrata. Riportato a Jesi dal Conte Aurelio Baldeschi-Balleani, restò per diversi anni custodito dalla famiglia nel caveau della Banca Popolare di Ancona, da cui, su iniziativa di alcuni docenti del liceo classico di Jesi, nel Marzo del 1988 venne per un’intera giornata estratto e concesso in visione agli studenti. In tale occasione venne anche minuziosamente fotografato dal prof. Rivio Lippi, le cui preziose istantanee furono poi messe a disposizione della biblioteca dello stesso liceo.
Infine, nel 1993, Antonio Maria Adorisio, funzionario del Ministero dei Beni Culturali impegnato nell’acquisto di altri codici della collezione Baldeschi-Balleani, ne propose a quest’ultima l’acquisto da parte dello Stato. Fu così che tre importanti manoscritti, tra cui un codice con alcune opere di Cicerone e lo stesso Codex Æsinas, passarono ufficialmente, nel Giugno del 1994, alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, dove sono tutt’oggi custoditi. Chi scrive ha avuto l’onore di frequentare in gioventù per tre anni le scuole medie a Firenze come compagno di banco del nipote del Conte Aurelio Baldeschi Balleani, Niccolò. A distanza di oltre trant’anni siamo rimasti amici e, anche se oggi non vive più in Italia, di tanto in tanto ancora ci sentiamo. L’ultima volta che lo incontrai, durante un suo breve soggiorno a Firenze tre anni fa, gli raccontai con stupore di aver visto su Focus TV un’intervista a suo padre in cui veniva narrata la rocambolesca storia di quel codice la cui storia è rimasta legata per secoli a quella della sua famiglia. Gli dissi che una simile vicenda avrebbe meritato le mie attenzioni di scrittore e che, prima o poi, avrei scritto un mio saggio a riguardo. Ebbene, oggi ho mantenuto la promessa e dedico all’amico Niccolò Baldeschi-Balleani questo mio studio, sperando di non aver scritto troppe inesattezze o imprecisioni.
Nicola Bizzi
(dall’introduzione al testo Germania di Tacito, recentemente tradotta dalle Edizioni Aurora Boreale di Firenze – www.auroraboreale-edizioni.com)