Prosopon, maschere per il teatro greco – MythosLogos 2022
Nell’ambito della manifestazione MythosLogos 2022, a cura di Angelo Tonelli, due artiste come Solange Passalacqua ed Elena El Fazairy, con il supporto fotografico di Davide Borghini, hanno promosso, come nelle passate edizioni, una mostra di maschere per il teatro greco, realizzate pregevolmente in proprio, in un percorso di consapevolezza sapienziale, accompagnando immagini, manufatti e citazioni della tradizione misterica ed ellenica.
Grazie alla collaborazione artistica di Elena El Fazairy, di Solange Passalacqua e delle foto di Davide Borghini, con la vicinanza filosofica di Angelo Tonelli, riproponiamo ai nostri lettori questo magnifico viaggio misterico tra figure, maschere, aforismi ed arcaiche Divinità…
Invocazioni propiziatorie ai Numi:
“Tu, padre Zeus, che corri alto e sei guida al cosmo infocato, e della folgore eterea lampeggi il chiarissimo raggio e dei beati sommuovi coi tuoni divini la sede e fra correnti nembose accendi la folgore ardente e tra boati avvampanti saetti e coi dardi fai velo alle procelle, alle piogge, ai fulmini, ai validi lampi, chiari di vampe, possenti, terribili, cuori violenti, fiera arma alata, che i cuori sconvolge e fa ritti i capelli, torcia improvvisa, tonante, un dardo invincibile e puro, impeto divoratore fra gorghi d’immenso fragore, indistruttibile, truce nell’animo, lampo mai stanco, dardo affilato, celeste, del nume che fulmina e avvampa, che non appena rifulge, sgomenta anche il mare e la terra, e fa acquattare le fiere, se giunge all’orecchio il suo rombo: brillano per i suoi raggi i volti, il suo lampo risuona dentro le conche dell’etere: il candido lampo hai scagliato, hai lacerata così la veste, il celeste velame. Sfoga, o beato, sui flutti del mare il tuo animo truce, o sulle vette dei monti: noi tutti sappiamo il tuo nerbo. Goditi questi libami, ai cuori da’ tutta saggezza, vita che all’animo è prospera, e insieme Salute sovrana e la dea Pace nutrice di giovani, chiara d’onori, vita che sempre fiorisca in pensieri d’animo lieto”
(Inno orfico a Zeus signore del lampo)
“Dioniso è il Dio della follia e dell’ebbrezza, è il Dio senza vincoli. Non può accettare limiti, né confini, né compromessi. È un Dio che irrompe e che travalica ogni barriera, fa crollare ogni resistenza, ogni muro, non permette esitazioni, dubbi, ragionamenti. Dioniso è, per la sua essenza primordiale, gioiosa e naturale, spontanea e priva di misura e di logica, il nemico dell’uomo che ha dimenticato le leggi della natura e del cosmo, dell’uomo tronfio dei suoi saperi e sicuro di sé… Forse Dioniso insegnava a quelle che potevano intenderlo a volare, leggere come la brezza di primavera dimenticando tutto ciò che non è incanto, o impetuose come il vento delle tempeste, inebriate da un furore che travolge, come uragani, spazzando via tutto ciò che impedisce il volo”
(Dioniso e le donne, ovvero la gioiosa follia, Leda Bearné, ed. Edizioni della Terra di Mezzo, 2003).
Il viaggio estatico di Prosopon
“O tu che hai l’eccelsa forza per sempre indistruttibile di Zeus, Pan invoco possente, pastorale, il tutto del cosmo: cielo e mare e terra di tutto sovrana e fuoco immortale. Queste cose infatti sono membra di Pan. Vieni, beato, tu che danzi, che corri, che regni con le Stagioni, dalle membra caprine, baccante, invasato, che vivi all’aria aperta, che tessi l’armonia del cormo col canto giocoso, che proteggi dalle apparizioni, terribile fra le paure umane, che ti rallegri di caprai e bovari alle sorgenti, tu che vedi lontano, cacciatore, amico di Eco, che danzi con le Ninfe, che tutto produci, di tutto genitore, demone dai molti nomi, signore del cosmo, che dai incremento, che porti la luce, fecondo Paian, che ti rallegri degli antri, dall’ira profonda, vero Zeus armato di corna. Su di te infatti è fissata la distesa sterminata della terra, e si ritira l’acqua dalla corrente profonda del mare infaticabile e l’Oceano che cinge con le acque tutt’intorno la terra, tu parte aerea di nutrimento, scintilla per i viventi e occhio di fuoco sul capo leggerissimo. Infatti queste cose divine camminano, svariate, ai tuoi ordini; con i tuoi disegni trasformi la natura di tutto alimentando la stirpe degli uomini nell’universo infinito. Ma, beato, baccante, invasato, vieni alle libagioni conformi al rito, concedi un buon compimento di vita allontanando ai confini della terra la follia panica”
(Inno orfico a Pan, in Inni Orfici, Fondazione Lorenzo Valla Mondadori editore; traduzione e cura di Gabriella Ricciardelli)
“O Musa celebra il figlio diletto di Ermes, dal piede caprino, bicorne, amante del clamore, che per le valli folte di alberi si aggira insieme con le ninfe avvezze alla danza: esse amano calcare le cime delle impervie rupi invocando Pan, il dio dei pascoli, dall’ abbondante chioma, irsuto, che regna su tutte le alture nervose e sulle vette dei monti, e sugli aspri sentieri. Si aggira da ogni parte tra le folte macchie: ora è attirato dai lenti ruscelli, ora invece s’inerpica fra le rupi inaccessibili salendo alla vetta più alta da cui si scorgono le greggi. Spesso corre attraverso le grandi montagne biancheggianti, spesso muove fra le colline, e fa strage di fiere, scorgendole col suo sguardo acuto; talora, al tramonto, solitario tornando dalla caccia, suona modulando con la siringa una musica serena: non riuscirebbe a superarlo nella melodia l’uccello che tra il fogliame della primavera ricca di fiori effonde il suo lamento, e intona un canto dolce come il miele. Con lui allora le ninfe montane dalla limpida voce girando col rapido batter di piedi presso la sorgente dalle acque cupe cantano, e l’eco geme intorno alla vetta del monte. Il dio, movendo da una parte all’altra, talora al centro della danza, la guida col rapido batter di piedi –sul dorso ha una fulva di pelle di lince-, esaltandosi nell’animo al limpido canto, sul molle prato dove il croco, e il giacinto odoroso, fioriscono mescolandosi innumerevoli all’erba. Cantano gli dèi beati e il vasto Olimpo; per esempio, del rapido Ermes, eminente fra gli altri, narravano: come egli sia messaggero veloce per tutti gli dèi, e come venne all’Arcadia ricca di fonti, madre di greggi, là dove ha il suo santuario cillenio. Colà, pur essendo un dio, pascolava le greggi dal ruvido vello presso un mortale: poiché lo aveva preso, e fioriva in lui, un desiderio struggente di unirsi in amore con una fanciulla dalle belle trecce, figlia di Driope. E ottenne il florido amplesso; e ella, nelle sue stanze, generò a Ermes un figlio diletto, già allora mostruoso a vedersi, dal piede caprino, bicorne, vociante, dal dolce sorriso. Diede un balzo e fuggì la nutrice, e abbandonò il fanciullo. si spaventò, infatti, come vide quel volto ferino e barbuto. Ma subito il rapido Ermes lo prese fra le braccia, accogliendolo: grandemente il dio gioiva nell’animo. Senza indugio salì alle dimore degl’immortali, dopo aver avvolto il fanciullo nella folta pelliccia di una lepre montana; lo depose al cospetto di Zeus e degli altri immortali, e presentò suo figlio: si rallegrarono nell’animo tutti gl’immortali, ma più d’ogni altro il baccheggiante Dioniso; e lo chiamarono Pan, poiché a tutti l’animo aveva rallegrato. Così ti saluto, signore, e ti rendo propizio col mio canto: e io mi ricorderò di te, e di un altro canto ancora”
(Inno omerico a Pan)
“(…) Per specificare quella che è la natura di Pan dobbiamo vedere in che modo Pan la personifica, sia nella sua figura sia nel suo ambiente, che è al contempo un paesaggio interiore e una metafora, e non semplice geografia. (…) Il suo habitat nell’antichità, come quello delle sue più tarde forme romane (Fauno, Silvano) e dei suoi compagni, era sempre costituito da forre, grotte, fonti, boschi e luoghi selvaggi; mai da villaggi, mai dagli insediamenti coltivati e cintati dai civilizzati; santuari in caverne, non templi edificati. Egli era un Dio dei pastori, un Dio di pescatori e cacciatori, un vagabondo privo persino della stabilità della genealogia. (…) Suo padre è di volta in volta Zeus, Urano, Crono, Apollo, Odisseo, Ermes o la compagnia dei pretendenti di Penelope; il suo è perciò uno spirito che può sorgere veramente in qualsiasi luogo, frutto di molti movimenti archetipici o di generazione spontanea”
(Saggio su Pan, James Hillman, ed. Adelphi 1977, traduzione A.Giuliani)
“Sono giunto lasciando i templi davvero divini, ben coperti dalla grande trave di legno nativo, tagliata dalla scure dei Calibi, e dal cipresso incollato in giunture precise; e conducendo una vita santa, da quando divenni iniziato di Zeus dell’Ida, e sperimentando il modo di vita di Zagreus vagante di notte e i banchetti di carne cruda e levando in alto le fiaccole per la Madre montana, tra i Cureti, purificato ebbi il nome di Bacchos. E indossando vesti bianchissime fuggo la nascita dei mortali, e senza accostarmi all’urna dei morti, mi guardo dal mangiare cibi in cui c’è stata vita”
(I cretesi, Euripide frammento 3)
“Esiste una figura greca che combina vita e morte come forma di coscienza: Tiresia. Egli solo “mantenne il suo senno nella Casa di Ade”. Tiresia svolge un ruolo straordinario in molti miti: quello di Edipo, quello di Penteo, di Narciso, di Ulisse, dove rappresenta una funzione che può vedere in trasparenza la vita e gettare così lo sguardo nella morte. Tiresia partecipava di entrambi i sessi; e ciò implica che soltanto il suo tipo di coscienza può penetrare nel mondo invisibile di Thanatos (…)”
(Il mito dell’analisi, James Hillman, ed. Adelphi 2009, traduzione A. Giuliani)
“Lo specchio è simbolo dell’illusione, perché quello che vediamo nello specchio non esiste nella realtà, è soltanto un riflesso. Ma lo specchio è anche simbolo della conoscenza, perché guardandomi nello specchio io mi conosco. E lo è pure in senso più raffinato, perché tutto il conoscere è portare il mondo dentro lo specchio, ridurlo a un riflesso che io possiedo. E ora ecco la folgorazione dell’immagine orfica: Dioniso si guarda nello specchio e vede il mondo! Il tema dell’inganno e quello della conoscenza sono congiunti, ma soltanto così vengono risolti. Il dio è attratto dallo specchio, da questo giocattolo dove si mostrano immagini sconosciute e variopinte – la visione lo inchioda ignaro del pericolo – non sa di contemplare sé stesso. Eppure, quello che vede è il riflesso di un dio, il modo in cui un dio si esprime nell’apparenza”
(La sapienza greca, Giorgio Colli, vol. I, ed. Adelphi)
“C’è dunque una continuità tra possessione e maschere. La possessione, cui molti vanno incontro proprio di fronte alle maschere, è forse l’introiezione di quel cambio di identità che è determinato dalla maschera. Entrambe, possessione e maschera, segnalano quella permeabilità dell’io che sembra il dato di partenza per capire quello che succede a questa gente. Il dio che danza”
(Viaggi, trance, trasformazioni. Paolo Pecere, Ed. Nottetempo 2021)
Come attraversare le paure: Lo specchio di Perseo
- Quando Acrisio interrogò l’oracolo per sapere se gli sarebbero nati figli maschi, il dio disse che sua figlia avrebbe messo al mondo un figlio che lo avrebbe ucciso. Intimorito Acrisio fece allestire sottoterra una stanza di bronzo dove teneva imprigionata Danae. Ma, stando a quanto dicono alcuni, Preto la violò e da questo prese le mosse la discordia tra i due fratelli. Altri sostengono che Zeus si trasformò in oro e colando dal soffitto nel seno di Dana e si unì a lei. Quando in seguito Acrisio seppe che aveva generato un figlio, Perseo, non credette che fosse stato Zeus a violarla, chiuse la figlia in una cassa con il bambino e la gettò in mare. La cassa fu trascinata fino a Serifos dove fu raccolta da Dictis che allevò il piccolo.
- Polidette, fratello di Dictis, sovrano di Serifos si invaghì di Danae, ma poiché non poteva unirsi con lei a causa di Perseo, che era diventato adulto, radunò i suoi amici, tra i quali c’era anche Perseo, e disse che voleva fare una raccolta di contribuzioni per il banchetto di nozze con Ippodamia, figlia di Enomao. Poiché Perseo disse che non gli avrebbe negato neanche la testa della Gorgone, a tutti gli altri chiese dei cavalli tranne che a Perseo, a cui ordinò che gli portasse proprio la testa della Gorgone. Sotto la guida di Hermes e di Atena, va dalle figlie di Forco, Enio, Pefredo e Deino. Costoro erano le figlie di Forco e di Ceto, e sorelle delle Gorgoni, vecchie dalla nascita, che avevano un solo occhio e un dente solo in tre, e se li scambiavano a turno. Perseo se ne impadronì e quando ne pretesero la restituzione rispose che li avrebbe restituiti se gli avessero indicato la via che portava alle Ninfe. Queste Ninfe avevano sandali alati e la kíbisis, che a quanto dicono era una sorta di bisaccia… Le Ninfe avevano l’elmo di Ades. Le figlie di Forco gli indicarono la via e Perseo restituire loro il dente e l’occhio. Poi andò dalle Ninfe e ebbe quello che voleva: la kíbisis che si mise a tracolla, i sandali che adatto alle caviglie, e l’elmo che si mise in testa, e grazie al quale poteva vedere chi voleva senza essere visto da altri. Da Hermes ricevette anche una falce di adamanto, e volando sopra l’oceano giunse e trovò le Gorgoni addormentate. Erano Steno, Euriale e Medusa. Soltanto Medusa era mortale e proprio per questo Perseo era stato mandato a prendere la sua testa. Le Gorgoni avevano teste circondate da scaglie di serpi, zanne grandi come quelle dei cinghiali, mani di bronzo e ali d’oro, grazie alle quali volavano. Trasformavano in pietra chi le guardava. Perseo si accostò a loro mentre dormivano – Atena guidava la sua mano – e voltando il capo dall’altra parte e guardando l’immagine della Gorgone nello scudo di bronzo che la rifletteva, le tagliò la testa. Tagliata la testa, dalla Gorgone balzò fuori Pegaso, il cavallo alato e Crisaore, padre di Gerione: lo aveva concepito da Poseidone. Perseo mise la testa della Medusa nella kíbisis e tornò indietro. Le Gorgoni si levarono in volo dalla loro giaciglio e inseguirono Perseo, ma non potevano vederlo per via dell’elmo che gli conferiva l’invisibilità. Una volta giunto in Etiopia, dove regnava Cefeo, scoprì che la figlia del re, Andromeda, era stata data in pasto a un mostro marino. Cassiopea, la sposa di Cefeo, aveva gareggiato con le Nereidi in una sfida per la bellezza e si era vantata di essere superiore a tutte. Le Nereidi si infuriarono, e si infuriò anche Poseidone che mandò contro la regione un’inondazione e un mostro marino. Consultato l’oracolo di Ammone che vaticinò la fine della calamità, se la figlia di Cassiopea, Andromeda, fosse stata offerta in pasto al mostro. Costretto dagli Etiopi, Cefeo lo fece, e incatenò sua figlia a una roccia. Vedendola Perseo si innamorò di lei e promise a Cefeo che avrebbe ucciso il mostro, a patto che una volta salva gliela avesse data in moglie. Cefeo fece questo giuramento. Perseo affrontò e uccise il mostro e liberò Andromeda. Ma Fineo, il fratello di Cefeo che per primo aveva chiesto in moglie Andromeda, tramò contro di lui. Ma quando Perseo seppe del complotto, mostrò la testa della Gorgone a Fineo e ai suoi complici e li pietrificò all’istante. Una volta tornato a Serifos, scoprì che sua madre si era rifugiata presso gli altari degli dei per sottrarsi alla violenza di Polidette, e quando Polidette radunò i suoi compari, entrò nella reggia, mostrò loro la testa della Gorgone, voltandosi dall’altra parte: costoro la guardarono e furono pietrificati, ognuno nella postura che aveva in quel momento. Dopo aver avere ristabilito Dictis sul trono di Serifos restituì a Hermes i sandali, la kíbisis e l’elmo e diede a Atena la testa della Gorgone. Hermes a sua volta li restituì alle Ninfe e Atena pose la testa della Gorgone al centro del suo scudo. Alcuni affermano che Medusa venne decapitata a causa di Atena e dicono che la Gorgone volle gareggiare con lei anche per la bellezza. Perseo, con Danae e Andromeda, si affrettò verso Argo per vedere Acrisio. Costui, quando venne a saperlo, spaventato dall’oracolo, abbandonò Argo e riparo nella regione dei Pelasgi. Teutamis, re di Larissa, istituì gare atletiche in onore del padre defunto e venne anche Perseo, intenzionato a gareggiare, ma nella gara del péntathlon lanciò il disco e colpi Acrisio al piede uccidendolo all’istante. Comprese che si era compiuto il vaticinio e seppellì Acrisio fuori dalla città. Poiché però si vergognava di fare ritorno a Argo per ricevere l’eredità di colui che era morto per causa sua, andò a Tirinto, presso Megapente, figlio di Preto, e fece uno scambio con lui consegnandogli il trono di Argo. In questo modo Megapente fu re di Argo e Perseo di Tirinto e fortificò le città di Midea e Micene…
Una interpretazione
L’invisibilità conferita dall’elmo della divinità infera Hades allude sia a una dimestichezza con ciò che è infero, e dunque inconscio, che a una destrutturazione della materialità egoica, essendo il corpo ciò che segna il confine dell’individuum; il contenitore magico, la borsa, simboleggia una psiche che si muove ben oltre i limiti consueti dell’Io. Ma lo strumento fondamentale per l’uccisione-trasformazione della Medusa – immagine archetipa della paura – da fonte di paralisi psichica (la pietrificazione attraverso lo sguardo) in alleato (grazie a essa Perseo sconfigge i suoi nemici, e così Atena) è rappresentato dallo specchio: guardando Medusa riflessa nello scudo e non direttamente negli occhi, Perseo può eluderne lo sguardo che pietrifica-uccide e tagliarle a testa. È fondamentale estrarre dalla Sapienza mitologica il suo insegnamento essenziale: la Gorgone può essere uccisa guardandola negli occhi, ma mediatamente, attraverso il confronto con la sua immagine riflessa. È gesto che implica un distacco dalla immediatezza della sensazione-impressione legata all’oggetto esterno: vi si intravede l’omerico Apollo ekebólos, ekaérgos (che agisce e colpisce da lontano) il Dio dell’azione mentale, mediata sia nella forma del lógos che in quella della creazione artistica (si pensi al Nietzsche di La nascita della tragedia). Il mito invita a guardare in faccia la Gorgone, ma attraverso lo specchio della mente. Ma che cosa simboleggia lo specchio se non una posizione della mente nei confronti dell’oggetto sensoriale o mentale che suscita la paura? E la funzione specchiante della mente è sostanzialmente di due tipi: riflessiva e contemplativa. Nell’ambito della riflessione, limitatamente al campo in cui ci stiamo muovendo in relazione al mito di Perseo, rientrano la filosofia, la psicoanalisi, l’arte che hanno la caratteristica di istituire una mediazione, uno scarto tra la pulsione procurata dall’oggetto, in questo caso perturbante, e la reazione allo stimolo che proviene da esso: rispettivamente, pensare, interpretare, creare, nvece che gridare o restare paralizzati dal terrore o disperarsi. Questi sono i modi riflessivi per integrare, attraversare la paura senza lasciarsi devastare dalla sua immediatezza. Fermo restando che anche l’urlo, o il tremore, o il silenzio agghiacciato sono risposte significativa a essa nel segno, per dirla con il Hillman, di Pan. La contemplazione, che nella sua forma più raffinata coincide con la meditazione di presenza, consiste in un guardare non pensante, non interpretativo, non creativo, un guardare interiore che nulla aggiunge all’oggetto sensoriale o mentale, ma semplicemente lo guarda negli occhi finchè esso persiste, bello o orrido che sia, e poi lo lascia andare perché tutto è impermanente. Lo scontimento più devastante, l’orrore più atroce, l’incubo più inquietante, ma anche il grido, il tremito, il silenzio agghiacciato del terrore, trovano duplice accoglienza nello specchio della mente: riflessiva e meditativa. Nella prima la paura si rivela origine della filosofia che da essa, in gran misura, nasce, e oggetto tra i fondamentali della psicoanalisi e trova espressione immaginifica e creativa nell’arte (dalla scultura alla pittura greca e di ogni civiltà antica dedicata alle divinità ctonie e ai demoni, fino a Munch, Poe, Lovecraft, al cinema, alla letteratura noir e così via). Nella seconda è una tra le tante impressioni sensoriali e mentali intorno alle quali il meditante crea uno spazio interiore.
(Guardare negli occhi la Gorgone. Piccolo vademecum per attraversare le paure, Angelo Tonelli, Agora&Co, 2016)
“C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze. Non so come andasse, ma il fatto che gli è che un bel giorno quel pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname (…). Appena ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce: – Questo legno è capitato a tempo: voglio servirmene per fare una gamba di tavolino”
(Incipit de Le avventure di Pinocchio, Carlo Collodi, ed. La Biblioteca Ideale Tascabile 1995)
“Dorothy: Se tu fossi il re, ne sono sicura, di niente e nessuno avresti paura.
Il leone: Perdincibacco, lo giuro! Di niente e di nessuno!
Uomo di latta: Neanche di un rinoceronte?
Il leone: Impossibilonte!
Dorothy: Neanche dei coccodrilli?
Il leone: No, li trasformerei tutti in tanti puntaspilli.
Dorothy: E se fosse un elefante?
Il leone: Di bistecche ne farei tante.
Spaventapasseri: E se fosse un lupo mannaro?
Il leone: Di schiaffi e di pugni non sarei avaro!
Dorothy, Spaventapasseri e Uomo di latta: E come?
Il leone: Come? Col coraggio! Che cos’è che di un misero fa un re? Il coraggio! Quale portento fa una bandiera sventolare al vento? Il coraggio! Chi rende ardita l’umile mosca nella foschia fosca nella notte losca… e fa sì che un moscerino la paura mai conosca? Il coraggio! Perché l’esploratore non teme l’avventura? Perché ha coraggio! Perché quando è in pericolo non prova mai paura? Perché ha coraggio! Perché Riccardo Cuor di Leone metteva i suoi nemici in apprensione? Che cosa aveva lui che io non ho?
Dorothy, Spaventapasseri e Uomo di latta: Il coraggio!
Il leone: Questo vi volevo sentir dire.
(Il mago di Oz, L. Frank Baum, ed. Rusconi Libri 1995)
“Ciò che è vero per i mali di questo mondo è vero anche per la peste: può servire a nobilitare qualcuno”
(La peste, Albert Camus, ed. Bompiani 2017)
“Folle Penteo, che nel nome porti lo strazio, tu che osasti sfidare il dio dell’ebbrezza e della sapienza, Dioniso, che diffonde misteri tra gli uomini, misteri di estasi, misteri che vanno oltre l’umano. Folle stupido Penteo, uomo del potere, che nel nome porti lo strazio, tu che non vedesti nello straniero il dio e ora dovrai cadere nella sua rete che ride, ridicolmente ottenebrato dai tuoi pensieri, quando avresti dovuto credere, credere e contemplare. Folle, troppo raziocinante Penteo, uomo di un sapere limitato, pagherai con la tua testa la tua tracotanza e sperimenterai nella dissoluzione della morte l’estasi che avresti potuto vivere nella gioia. Cieco non vedesti nello straniero il dio e ora egli si è liberato e ti trascinerà nell’inganno che libera e farà di te un iniziato ai suoi misteri a prezzo della tua vita. Eccolo, lo straniero che è il dio e ti convoca)
(Angelo Tonelli per lo spettacolo “Baccanti”)
“Fu tanto raro e universale, che dalla natura per suo miracolo esser produtto dire si puote: la quale non solo della bellezza del corpo, che molto bene gli concedette, volse dotarlo, ma di molte rare virtù volse anchora farlo maestro. Assai valse in matematica et in prospettiva non meno, et operò di scultura, et in disegno passò di gran lunga tutti li altri. Hebbe bellissime inventioni, ma non colorì molte cose, perché si dice mai a sé medesimo avere satisfatto, et però sono tante rare le opere sue. Fu nel parlare eloquentissimo et raro sonatore di lira […] et fu valentissimo in tirari et in edifizi d’acque, et altri ghiribizzi, né mai co l’animo suo si quietava, ma sempre con l’ingegno fabricava cose nuove”
(Leonardo secondo Anonimo Gaddiano, 1542, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze)