Pitagora e il pitagorismo: un saggio di Nuccio D’Anna – Giovanni Sessa
Nuccio D’Anna, storico delle religioni e valente studioso di simbolismo, ha già dato alle stampe una serie considerevole di volumi dedicati all’esegesi delle principali forme religiose e di pensiero del mondo antico. Nell’ultimo periodo è comparso nelle librerie, per i tipi delle Edizioni Arkeios, un suo corposo studio intitolato, Pitagora e il pitagorismo (per ordini:06/3235433, ordinipv@edizionimediterranee.net, pp. 229, euro 24,50). Si tratta di una monografia organica, ricostruttiva dell’iter storico e teorico cui il pitagorismo è andato incontro nella sua lunga storia che, com’è noto, giunge, da un passato remoto fino ai nostri giorni. Nel susseguirsi dei capitoli, D’Anna si sofferma, in modo analitico e servendosi, con intelligenza filologica, di ampia messe di documenti relativi all’origine italica di questa Scuola di pensiero. Si interroga, inoltre, sulle forme, gli archetipi e i principi primi del reale; presenta la figura essenziale dell’ “Uomo divino”e discute i momenti più rilevanti delle tecniche di concentrazione, meditazione e contemplazione in uso nel sodalizio sapienziale. Infine, affronta l’annoso tema del’ordine cosmico, della numerologia pitagorica nei suoi rapporti con la musicologia sacra, intrattenendo il lettore sulla diffusione del movimento pitagorico a Roma.
Due sono i motivi più rilevanti che si evincono dal testo. Il primo riguarda la collocazione storica del pitagorismo, che l’autore legge all’interno della vasta congerie di movimenti spirituali sorti nel VI secolo a.C., durante quella che Jaspers ha definito “età assiale”, nella quale si manifestarono: «forme nuove di approssimazione alla sfera del sacro […] riformulando e riadattando le più antiche tradizioni dell’umanità» (p. 24). Il secondo motivo di interesse è dato dalla puntuale ricostruzione che lo studioso compie degli ambienti e dei riti che si svolgevano nella Basilica pitagorica sotterranea di Porta Maggiore a Roma e dall’originale e innovativa esegesi dell’affresco della Scuola di Atene di Raffaello. Muoviamo dal primo punto. Il pitagorismo rappresenta forse il più antico tentativo di revisione, al fine di tutelarne l’essenza, delle tradizioni dell’umanità arcaica che, fino ad allora, erano state centrate: «su una percezione cosmica del divino» (p. 24). La polymathia attribuita a Pitagora non può venir ridotta a una sorta di enciclopedismo ante litteram. La personalità di Pitagora: «assommava in sé i caratteri dell’[…] “Uomo divino” dei primordi della civiltà […] intento a fecondare con la propria sapienza i fondamenti della metafisica, della contemplazione, dell’ascesi […] della medicina, dell’etica e persino della sfera sociale» (p. 25).
La visione pitagorica del mondo riemerse anche a Velia, la città di Parmenide e della medicina sacra. L’analisi condotta dall’autore, che si serve della più accreditata letteratura critica in tema, mostra, con tutta evidenza, che quanto alluso nel poema del filosofo dell’Essere e i simboli da lui utilizzati, rinviano a una conoscenza stabile, al “pensiero unificato”, centrale anche nella tradizione Vedica. Più in particolare: «il “carro” parmenideo ha la medesima funzione realizzativa dei carri evocati da Empedocle o da Pindaro e tutti insieme possono essere ricondotti […] ai medesimi simboli custoditi nel più antico sostrato misteriosofico dell’Ellade» (p. 14). Con il “carro” ci si riferisce a una “potenza dell’anima” atta a fermare il flusso di coscienza, al fine di introdurre l’adepto alla visione della Luce spirituale. Diogene Laerzio attesta che Parmenide era stato allievo del pitagorico Aminia, al quale era debitore per avergli insegnato l’arte dell’hesykía, della “quiete”. È grazie a essa che l’Eleate giunse a formulare il concetto di Essere, da lui assimilato a “Giustizia” e alla “Verità perfetta”. Ricorda D’Anna, che Colli diceva Parmenide esser stato: «un sapiente ancora prossimo all’età arcaica dell’enigma e alla sua religiosità» (p. 17). Medesima idea di “quieta perfezione” è presente in Empedocle, in particolare nella sua concezione dello Sfero: «realtà originaria di gioia assoluta, di solitudine e di riposo, un “Dio beato”» (p. 21).
La tradizione dossografica vuole che Empedocle fosse stato introdotto nel consesso pitagorico, direttamente da Telauge, figlio del maestro. La cosa è ricordata anche dal neo-pitagorico Enrico Caporali, vissuto nei primi decenni del Novecento. Il pitagorismo è stato, pertanto, nell’interpretazione di D’Anna, momento essenziale del tradere nel mondo greco. Della revisione pitagorica della Sapienza arcaica ebbe contezza Eraclito, rappresentante, per discendenza diretta, dei re-maghi. Per questo, l’oscuro di Efeso, criticò Pitagora ritenendolo responsabile di aver tradito il mistero dei primordi, legato ad Artemide. Del legame Pitagora-Empedocle seppe, nel Rinascimento, Raffaello che, nella Scuola di Atene, in basso e a sinistra, ritrasse Telauge ed Empedocle intenti ad ascoltare in silenzio le spiegazioni di Pitagora, relative al simbolismo numerico e all’aritmosofia musicale: «il cui sistema di notazione si trova inciso proprio nella tavoletta che Telauge regge davanti al Maestro di Crotone» (p. 22).
Al tema, l’autore dedica l’ultimo ampio capitolo del libro. In esso, tra le altre cose, D’Anna, in sequela alle letture neoplatoniche, interpreta le figure di Pitagora e di Euclide poste da Raffaello uno di fronte all’altro, non come rappresentanti di saperi contrapposti, bensì quale espressione di: «“unità dottrinale” […] di una vera e propria armonia, di una concordanza di contenuti e valori» (p. 202). L’analisi dei reperti archeologici e delle pitture parietali rinvenute nella Basilica di Porta Maggiore confermano l’esegesi del pitagorismo quale Scuola misterica: «la pittura parietale e l’insieme degli stucchi cosidetti decorativi “narravano” vicende mitiche che quasi sicuramente dovevano costituire un vero e proprio “supporto contemplativo”» (p. 178). Il vestibolo aveva la funzione di indurre l’iniziando a uscire dall’ordinarietà della vita quotidiana. La Menade che compare di fronte al visitatore, posta di spalle, invita ad abbandonare la dimensione mondana e a seguirla sulla via dei Misteri, che trovava la propria conclusione nella navata centrale. Uno studio, questo di D’Anna, che si pone in sequela e conferma le intuizioni di studiosi quali Colli, Tonelli e, non ultimo, Susanetti.
Giovanni Sessa