L’arazzo di Bayeux: un documento storico attendibile – Luigi Angelino
Per una estetica dell’esilio – Emanuele Franz
L’esule come archetipo dai Miti greci all’età moderna
L’ex-silium l’uscita dalla propria patria per recarsi in terra straniera, ovvero fuori dalla propria patria, fu inizialmente un modo per espiare una colpa, ovvero una possibilità che aveva il colpevole, nel diritto romano, di fuggire la pena capitale. È degno di grande riflessione già questo. Anzitutto perché quanto al dolo, o alla colpa originaria, alla base di quanto concerne le motivazioni dell’esilio, o espulsione dalla propria terra di origine, sta una normativa che spesso e volentieri esula, appunto, il poeta, il genio, l’ardimento. Lo dice uno dei più noti e illustri esiliati di tutti i tempi, Publio Ovidio Nasone, quando, a motivo del suo esilio pone proprio sé stesso:
“Poiché dal mio ingegno mi fu causato l’esilio” (Ovidio, Tristia I, 1, 55).
Fu relegato in esilio il sommo poeta Publio Ovidio Nasone, a Costanza, l’antica Tomi sul Mar Nero, e qui scrisse le celebri e immortali Epistulae ex Ponto e i Tristia. L’editto imperiale lo accusava di aver provocato la morale pubblica con le sue opere scandalose e in contrasto con le politiche di Augusto. Dal suo contrasto con la morale e l’ordine pubblico sgorgò la sua relegatio ai confini del mondo, ma, soprattutto, dal coraggio intellettuale di opporsi a uno schema dominante, che sovente il poeta ama capovolgere. Finanche sul concetto di patria, o comunque di propria terra, Ovidio amava rovesciare le prospettive, quando scrive che:
“Omne solum forti patria est – Ogni terra è patria per il forte” (Ovidio, Fasti I, 493).
Che alla base dell’esilio ci sia un prevalente senso di colpa, reale o introspettivo, è ben evidenziato sempre dal poeta Ovidio quando fa riferimento a un processo di colpa e redenzione, dolo ed espiazione:
“Ho visto, seduto davanti agli altari di Iside, vestita di lino, uno che confessava di avere offeso la isiaca divinità. Gli Dèi amano che si facciano simili confessioni pubbliche, per testimoniare quanto valga la loro potenza. Sovente riducono le pene quando vedono che uno è veramente pentito del fallo. Oh! io mi pento “(Ovidio, Epistulae ex Ponto, I,1).
Qui Ovidio allude alla confessione pubblica, che Iside esige nel suo tempio e a un cerimoniale che prevedeva il pentimento e la vergogna pubblica al fine dell’espiazione. Molto singolare quindi che colpa, confessione e pentimento non siano ascrivibili al solo cristianesimo, visto che stiamo parlando dell’anno 12 d.C., ma che facessero parte di un più ampio intreccio di purificazione psichica alla quale i Miti antichi ben si correlavano, vedasi anche, ad esempio, la tragedia di Oreste, la sua fuga in luoghi solitari per purificarsi dal matricidio, come amabilmente ci racconta Eschilo nelle Eumenidi. Il matto, il vagabondo, il senza patria sono sempre stati associati al cercatore, a colui che abbandona il noto per gettarsi nell’ignoto. Il solo che, mediante la krísis, rinunciando a sé stesso, giunge a una conoscenza destinata ai pochi:
“Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Matteo, 8,20).
Fu esiliato Edipo, re di Tebe, colui che risolse l’enigma della Sfinge, ponendo forse uno dei più antichi e accertati esempi di Eroi esiliati e stabilendo un nesso intimo fra conoscenza sovra umana ed esilio e sempre a cagione di una sorta di colpa originaria, una confessione e una espiazione:
“Si denunci pure da sé: dovrà soltanto andare in esilio, via da questa terra” (Sofocle, Edipo Re, 227).
Odisseo, come noto, fu fra i più noti esuli di tutta l’antichità, soffrendo la lontananza dalla patria più di ogni altro e divenendo, il suo migrare, opificio stesso di trasformazione interiore. Un altro diafano esempio di esilio in terre remote a seguito dell’acquisizione di conoscenza sopraterrena ci viene dal Mito di Prometeo, il Titano incatenato nel Caucaso come punizione per aver sottratto il Fuoco agli Olimpi.Diogene di Sinope è celebre per aver scelto di vivere in una botte di legno, spregiando ogni comodità per cercare l’essenza. Anche lui fu esiliato a Corinto. Eraclito parla del “ristoro nell’esilio” nel frammento 32 del suo poema Sulla natura. Porfirio trascorse l’esilio nei deserti della Tebaide, negli anni ’60 del VI secolo. Temistocle, figlio di Neocle, vincitore a Salamina, visse in esilio ad Argo. Fra i più grandi poeti italiani come dimenticare Dante, espulso dalla sua Firenze e costretto all’esilio per due decadi:
“L’essilio, che m’è dato, onor mi tegno” (Dante, Rime, CIV).
Ma ancora, Napoleone, prima all’Elba e poi a Sant’Elena, alle estremità del mondo. D’Annunzio in “esilio volontario” in Francia dopo che la sua villa venne messa all’asta dai creditori. Emil Cioran e tutta la sua filosofia esistenziale passano per la plenitudine dell’esilio. Ed anche Émile Zola, fuggito da Londra per Parigi, Bertold Brecht, Pablo Neruda, questi, in Cile, trascorse mesi e mesi nascosto nella cantina di un amico, per poi fuggire in Europa. Oscar Wilde lasciò la sua terra e visse in esilio, giunse perfino a cambiare il suo nome e questo lo portò a uno dei suoi lavori più noti: L’importanza di chiamarsi Ernesto. Impossibile citarli tutti, ma fra i più grandi: Victor Hugo, Lord Byron, Milan Kundera, Albert Einstein, Isabel Allende, Fryderyk Chopin, Richard Wagner, Sigmund Freud e tantissimi altri. Non solo gli uomini sono esiliati, ma perfino gli Dei. Ci racconta infatti il Mito che Apollo fu bandito dal cielo per avere ucciso i Ciclopi, e condannato per questo a trascorrere un anno in esilio, al servizio di un mortale di nome Admeto:
“E il sacro Apollo, Dio esiliato dal cielo” (Eschilo, Supplici, 213).
Notare che il Dio esiliato non è un Dio qualsiasi, ma è proprio il Dio della Poesia, il Dio della conoscenza e della luce quasi appunto che la conoscenza divina passi necessariamente attraverso il processo dell’esilio e della lontananza dal luogo di origine. Io credo che la grandezza di un uomo passi necessariamente e inesorabilmente attraverso l’esperienza dell’esilio, ed anzi, posso dire che non vi sono uomini sommi senza l’esilio. Può dirsi veramente grande solo l’esule, che tutto ha perso, e tutto ha ritrovato, che tutto ha lasciato nella terra, per avere ogni cosa nell’Ideale. Forgiato nell’esilio un uomo scende in sé stesso fino agli abissi della sua esistenza per poi, scarnificato dell’inessenziale, inanellarsi nelle più alte sfere dell’Idea. Poeta non si dà se non nell’esilio.
L’essere relegati, confinati, esiliati; nei tempi antichi questi concetti avevano delle sfumature, sottili, ma tutti erano accomunati dall’interdizione a un determinato luogo. Ebbene, parlando del luogo dell’esilio, o per meglio dire del Topos dell’esilio, questi raggiunge il suo culmine quando l’uomo viene confinato da sé stesso, quando il distacco non è quello meramente terreno, da quella patria in terra tanto amata, quanto il distacco dal proprio stesso Io, qui la relegatio raggiunge il punto supremo e l’esilio da sé stessi diventa esperienza mistica: l’ultima terra ad essere abbandonata è quella della nostra stessa coscienza. Qui il crocevia dell’umana natura trionfa nella sua medesima sconfitta, possiamo infatti parlare di una estetica dell’esilio laddove la patria dell’io è lontana, ed emerge con la sua inaudita potenza un ignoto superiore, che travolge, annienta e parimenti crea. In questo tipo di esilio si verifica una dislocazione interiore, uno smarrimento tale nel quale si è estranei a sé stessi:
“si modo, qui periit, non periisse potes – se pure chi è morto può non morire – (Ovidio, Tristia, I, 4, 28).
Un totale annientamento e una distanza siderale separano l’uomo in esilio da tutto ciò che gli è noto. Tale distanza è immensa, tanto da essere abissale:
“Siamo separati dalla patria dallo spazio del mondo intero” (Epistolae ex Ponto, II,3).
Si tratta di una morte interiore devastante e radicale in cui perfino la divinità cessa di presentarsi all’uomo e questa sembra fuggire sempre più distante dalle suppliche sofferenti del mortale:
“La potenza divina si fa gioco delle cose umane e a stento l’ora presente ci darà una fede sicura” (Ovidio, Epistolae ex Ponto, IV,4)
Solitudine estrema e abnegazione da ogni affetto, e pure da ogni ristoro carnale, come ci ricorda il poeta:
“Non il piacere nocivo di Venere mi toglie le forze: questa non ha l’abitudine di visitare i giacigli desolati” (Ovidio, Epistolae ex Ponto, I,10).
Poiché l’esilio è castità, anzitutto, castità non solo della e dalla carne, ma castità della parola, castità degli intenti, castità dei pensieri. Tuttavia nello sconforto che giunge al suo culmine, nel disorientamento dell’esilio, giungono alate vestigia a soccorrere l’esule cercatore. Le ali divine della filosofia, delle Muse. La consolazione della filosofia e della poesia soccorrono il poeta, l’indagatore, il filosofo al culmine della sua solitudine e questa consolazione che trattiene si riscontra nei più grandi intellettuali esiliati di tutti i tempi, segno indelebile di quella elevazione che emerge a seguito della più profonda scissione da sé stessi. Il divino accorre al filosofo a indicargli l’essenza oltre l’apparenza:
“A me la Musa dà conforto, mentre raggiungo i luoghi del Mar Nero, che mi sono stati imposti: lei sola ha continuato ad essermi compagna nel mio esilio; lei sola non teme le insidie né la spada del guerriero Sinto, né il mare, né i venti, né la barbarie” (Ovidio, Tristia, IV, 1, 20).
Così continua: “La stessa forza del loro culto mi trattiene. (…) L’estro poetico si innalza al di sopra dell’umana sventura. Non sente l’esilio” “Io venero le dee che alleviano i miei mali; discese dall’Elicona, per essermi compagne nell’angoscia del mio esilio”. A proposito di consolazione nell’esilio è impossibile non ricordare un altro grande illustre filosofo che segnò la storia di tutto il pensiero occidentale. Fu infatti esiliato il grande filosofo Severino Boezio, confinato e incarcerato sotto Teodorico il Grande, e quivi creatore dell’immane Opera, Il De consolatione philosophiae composta poco prima di subire l’esecuzione capitale, nel 525 a Pavia. Qui, il filosofo, nella solitudine più estrema, ha una apparizione, gli appare infatti una donna che è l’incarnazione stessa della Filosofia:
“«Maestra» – esclamai – «sei scesa dall’alto del cielo in questa solitudine, la solitudine del mio esilio!” (I,III,3)
Sempre la Filosofia, nel portare soccorso al filosofo, gli ricorda qualche sia la sua vera patria, ovvero quella delle Idee, e che mai egli si sarebbe posto in quella condizione se non per la sua stessa volontà. Così gli parla infatti:
“Se proprio vuoi crederti esiliato, sappi che ti sei esiliato da solo: nessuno avrebbe potuto allontanarti da te stesso. Ricordati quale sia la tua patria, quella vera” (Severino Boezio, De consolatione philosophiae, I,5).
Questa doppia condizione volitiva dell’esiliato, che lo lacera interiormente, è ricorrente. L’esiliato è al tempo stesso causa e non causa di sé stesso. Ovidio non vuole essere in esilio ma ammette di essere causa del suo esilio, Boezio riconosce che l’origine dell’esilio è nella sua stessa coscienza, ed Euripide fa dire ad Oreste:
“Il mio è un esilio voluto e non voluto” (Euripide, Ifigenia in Tauride, 515).
Si tratta quindi di quella che vogliamo definire una estetica dell’esilio, ovvero una aesthetica dell’esule, tale che, l’esiliato, quando votato alla ricerca di un sapere ultrasensibile, sperimenta dentro sé stesso una scissione tale da farlo sentire estraneo a sé medesimo, tale scissione opera una fenomenologia che evidenzia una doppia natura dell’esule. L’esiliato, quando purificato attraverso il voto alla ricerca spirituale, distingue che due -Io- vivono in lui, due volontà: una è quella mortale, l’altra è quella divina, una soccombe, l’atra fiorisce. Ecco spiegato questo senso di morte presente nei poeti e, parimenti, quella presenza altera, quello spiraglio sull’altrui volere, che è proprio di un esilio spirituale. Ludwig Beethoven quando scopre la sua sordità cade in un tal stato di disperazione da ritirarsi da ogni attività pubblica e auto esiliarsi ad Heiligenstadt, un sobborgo di Vienna, dove scriverà un toccante memoriale chiamato il testamento di Heiligenstadt. Qui si riconosce una medesima condizione psicologica già trovata in Ovidio e Boezio: l’Arte soccorre l’esiliato e lo trattiene e lo solleva. Così descriverà quei momenti Beethoven:
“Tali esperienze mi hanno portato sull’orlo della disperazione e poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita. La mia arte, soltanto essa mi ha trattenuto”.
E dopo la desolazione, la morte interiore ecco che viene recuperata la Forza intrinseca e perenne dall’Animo del poeta. Estraniato da sé stesso, come l’oro dal fango, l’esiliato dello Spirito scopre una parte di sé che non sospettava di avere, e si scopre indistruttibile:
“Il tempo divoratore distrugge ogni cosa, non me: la morte stessa disarma, vinta dalla mia resistenza” (Epistolae ex Ponto, IV,10)
Qui la lucidità dell’esule diviene onniveggente e capace di vedere oltre l’umano, di penetrare le epoche, e di liberarsi del fardello della transitorietà:
“E nei millenni, col mio nome – se è veritiera visione di poeti – io sarò presente” (Ovidio, Metamorfosi, XV, 878).
Quello dell’esule è un Topos archetipico, segno inconfondibile dell’Eroe della conoscenza. Le sue caratteristiche, delineate nei secoli, di mito in mito, di biografia in biografia, ne fanno un tipo psicologico ben distinto. Esso è un Simbolo che collega epoche, religioni e culture differenti e sempre di volta in volta indica una Via: l’affrancamento da sé stessi per riabbracciare un più alto rifugio, qui l’estetica dell’esule permette la trasmutazione da ex-silum a ex-stasi, dall’uscita dalla propria terra all’uscita da sé stessi.
Bibliografia di riferimento:
– Eschilo, Sofocle, Euripide. Tutte le tragedie. Bombiani 2011 a cura di Angelo Tonelli;
– Opere. Publio Ovidio Nasone. Classici UTET 1986;
– La consolazione della filosofia. Severino Boezio. Bombiani 2019, acura diFabio Troncarelli.
Emanuele Franz