Patrizi e Plebei: una lotta per l’accesso al Sacro – Antonio Arcuri
Roma agli albori della Repubblica. Un enorme divario separa i due gruppi che, entrando in conflitto, rompono gli equilibri della città: patrizi e plebei.Al contrario di quanto superficialmente si è portati a credere, le differenze tra queste due compagini, molto spesso definite impropriamente, classi sociali, non sono solamente di origine politica, economica o di status giuridico, ma vanno molto più in profondità, affondando le proprie radici nelle stesse origini dell’Urbe e, come cercheremo di illustrare, nella sfera del Sacro. Ma, chi sono i patrizi? E chi sono i plebei? Numerosi sono gli autori che hanno cercato di scandagliare i sabbiosi fondali della storia antica, tentando di interpretare i pochi indizi relativi ad un tale, epocale scontro avvenuto in quella Roma arcaica le cui vicende sono tutt’ora di difficile decifrazione per lo storico dell’Antichità, a causa, soprattutto, della scarsità delle fonti a disposizione. Ma cerchiamo, a beneficio del lettore, di segnalare alcune delle teorie riguardanti le origini delle due schiere in argomento. Orbene, se per gli antichi annalisti, i patrizi sarebbero i discendenti dei primi compagni di Romolo e Remo, quegli Albani partecipi alla fondazione di Roma, ed i plebei altro non sarebbero che i discendenti di tutti i vari richiedenti asilo che, successivamente, vengono accolti in città, pergli storici greci– e di conseguenza, per i Romani colti – la divisione tra patrizi e plebei originerebbe, invece, dalla decisione dello stesso Romolo di istituire il Senato con i cento Patres, progenitori, appunto, dei patrizi, in quella che a tutta prima sembrerebbe un’analisi etimologicamente ineccepibile[1]. Ma «parecchie ragioni inducono a respingere questa ipotesi di una ripartizione, diciamo così, legislativa, come va parimenti scartata l’altra di una distinzione fatta sulla base del censo»[2]. D’altronde, lo stesso Filippo Cassola, parlando sempre dell’origine del patriziato, ci tiene a ribadire come «le aristocrazie non nascono da un regio decreto»[3]. Altre interpretazioni degne di nota, relativamente la genesi delle due compagini sono: quella di Giambattista Vico, secondo cui «furono patrizi i primi latini fortificatisi in Roma, plebei gli allogeni, ossia gli Arcadi di Evandro, i Frigi di Enea, e i profughi raccolti nell’asilo»[4]; quella del Niebhur, il quale identifica i patrizi nelle genti provenienti «dal sinecismo tra Palatino e Quirinale, mentre individua negli abitanti del Celio, i plebei[5]. Theodor Mommsen, che per la sua Storia di Roma, nel 1902, riceve il Nobel per la letteratura, vede invece nei Patrizi quei discendenti delle tre tribù primigenie (Tities, Ramnes e Luceres) istituite dallo stesso Romolo e nella plebe, i loro antichi clientes [6], laddove André Piganiol scorge all’origine del conflitto, «un’opposizione etnica fra le trecento famiglie, eredi delle tradizioni dei pastori immigrati nel Lazio, e i sopravvissuti dei popoli vinti, depositari della cultura appenninica […]. La caduta dei Tarquini fu il segnale della vendetta: da qui il conflitto accanito tra allevatori e coltivatori. La causa ne va riconosciuta di sicuro in quello spirito del pascolo al quale si ispiravano i patrizi»[7].In sostanza, Piganiol circoscrive lo scontro ad «un conflitto tra un popolo che vuol spingere liberamente le sue greggi sui pascoli del demanio pubblico (ager publicus) e un popolo che reclama il diritto […] di distribuire questo stesso demanio»[8]. Una lotta, quella per il demanio pubblico, che trascende lo stesso scontro in esame, arrivando a decretare l’infame fine dei fratelli Gracchi, contribuendo alla crisi della Repubblica classica e alla genesi delle lotte civili, traghettandoci, inoltre, verso il principato. Arnaldo Momigliano, dal canto suo, ci spiega che: «E’ bene peraltro subito ricordare, a scanso di interpretazioni mistiche, che non esistono tracce di guerra di religione tra patres e non-patres. La lotta in Roma fu, per quanto sappiamo, prevalentemente politica ed economica, e solo molto subordinatamente religiosa», affermazione, questa, che proveremo, umilmente, a ribaltare di seguito[9].
Non sembra, comunque, a tutt’oggi, che gli studiosi siano giunti ad un accordo sull’origine dei due gruppi e ciò che rimane, per provare a sbrogliare una tale aggrovigliata matassa, è cercare di vederci più chiaro con l’ausilio di discipline oramai testate, come l’antropologia e l’etnografia. Certo, per far ciò occorre anche scavare più a fondo nelle stesse origini di Roma. In primo luogo, cercare di meglio definire l’ambiente dal quale essa sorge: quell’Italia preromana dove registriamo la compresenza sia della polis greca che di quella etrusca, oltre all’esistenza di altre genti; in secondo luogo, occorre cercare anche di chiarire il concetto di “società senza stato” e come da questa origini una primitiva entità statuale. Per quanto riguarda il primo punto – e restringendo il campo al solo ambiente laziale[10] – sappiamo da evidenze archeologiche, che già all’inizio dell’età del rame (3.400-2.000 a.C.), la regione è abitata da popolazioni che molti studiosi – confermando alcune leggende – associano ai Siculi; mentre, per ciò che concerne l’età del ferro (circa XIII sec. a.C.),sappiamo che i Colli Albani vengono occupati da genti con un tenore di vita molto basso che sono solite, inizialmente, cremare i defunti[11].Stiamo parlando, ovviamente, dei Latini, popolazione indoeuropea dedita principalmente alla pastorizia, che ha custodito la coscienza della propria unità etnica, «che non si traduceva in forme di unità politica, bensì nella partecipazione a un culto comune celebrato sul Monte Albano, in onore di Giove Laziare […]. Alle abitudini di vita in comune formatesi in quest’epoca risalgono alcuni istituti che troviamo più tardi in vigore», tra i qualilo ius connubii, lo ius commercii e lo ius migrandi [12]. Ora, tra i centri latini, Alba Longa gode di un notevole prestigio per la sua vicinanza al succitato tempio di Giove Laziare, «tanto che più tardi Roma fu considerata una colonia di Alba»[13].Consapevoli di aver fornito una breve e scarna trattazione del tema relativo all’ambiente dal quale si origina l’Urbe, e ai suoi rapporti con il territorio circostante, riteniamo che l’argomento in questione necessiti di ulteriori approfondimenti ai quali rimandiamo il lettore interessato[14].
Relativamente al secondo punto, quello riguardante la concezione di città-stato, in estrema sintesi, possiamo far nostra la definizione di M. H. Hansen, secondo cui, per città-stato si intende un microstato formato da un centro abitato – da almeno un migliaio di persone – caratterizzato da una divisione del lavoro e da una ampia scelta di servizi, anche culturali[15]. Certo, a questo punto si rende necessario cercare di definire cosa intendere anche con il termine “stato”. Ora, senza andare troppo lontano, e scomodando Max Weber, possiamo affermare che per stato intendiamo «un’impresa istituzionale di carattere politico […] nella quale l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione della forza fisica legittima»[16].In altre parole, possiamo definire “stato” quell’organizzazione sociale dove è presente un centro che detenga il potere della forza legittima e che possieda anche i mezzi atti a far rispettare tale prerogativa.
Dunque, come – e da dove – nasce una città-stato come Roma? Grazie proprio all’etnografia, possiamo azzardare che nasca da una collettività senza stato, quella che in antropologia viene definita “società segmentaria”, costituita cioè, da diversi clan o lignaggi e caratterizzata da continui scontri interni. Ora, quando scoppia un conflitto tra due di questi gruppi, l’etnografia ci informa che la tendenza dei due segmenti antagonisti è quella di istituire alleanze con le altre sezio ni loro più vicine, creando così due fronti, due grossi blocchi che, ai fini della risoluzione della contesa, possono negoziare o scontrarsi. A tal proposito, l’eminente antropologo inglese Evans-Pritchard, padre del riflessivismo, ci parla dei “capi dalla pelle di leopardo” [17],cui viene affidato il compito di riportare l’ordine in queste società segmentarie, collettività comunque tendenti all’autoconservazione e all’unità, dove le stesse faide posseggono il compito di regolazione interna al gruppo, sia se passate attraverso quella camera di compensazione rappresentata, in questo caso dai suddetti «capi dalla pelle di leopardo», sia se sublimate attraverso rituali religiosi, come testimoniato da un altro insigne antropologo britannico, Victor Turner[18].Ma dal momento che quelle umane non sono affatto scienze esatte, per altri versi proprio in questi scontri possiamo individuare, viceversa, quell’impulso attraverso il quale trasformare quella specifica società che a taluni – singoli o gruppi – fornisce un ordine sociale del tutto insoddisfacente. Purtroppo, non abbiamo mai avuto modo di osservare una collettività senza stato nel suo moto di transizione verso un’entità statuale, ma ne abbiamo testimonianze letterarie siain Omero (pensiamo all’Odissea) che in Tacito, nel suo libretto velatamente polemico, La Germania. Per quanto riguarda il Poeta greco, basti pensare ad Odisseo, capo di una società senza stato, il quale, non detenendo il monopolio della violenza, nella sua Itaca, dopo la strage dei Proci, senza l’intervento (tra l’altro autorizzato dallo stesso Zeus) mediatore di Athena (equivalente al consiglio degli anziani, che rivestono da sempre un ruolo fondamentale nelle società tradizionali, o se vogliamo, agli stessi «capi dalla pelle di leopardo»),corre il rischio di vedere la propria, presunta, autorità superiore soccombere alla vendetta dei parenti delle sue vittime[19]. Altra caratteristica fondamentale delle società senza stato, sempre secondo l’etnografia, è quella di non essere egualitarie e di presentare stratificazioni al loro interno, sotto due aspetti fondamentali: quello religioso e quello militare; tant’è vero che laddove esistono dei lignaggi che si occupano del Sacro, assistiamo, solitamente, a quella che possiamo definire una trasmissione dinastica delle prerogative sacrali, trasmissione che mantiene ed accresce sempre più il potere del clan detentore di tale peculiarità, cosa che immancabilmente ne determina anche il prestigio sociale, pesando finanche sulla distribuzione delle ricchezze. La tendenza, dunque, in tali società, sembra essere quella che porta ad un accentramento del potere nelle mani della persona o del gruppo di persone più potenti e più “sacre”. Orbene, oltre alla religione, come accennavamo precedentemente, la guerra stessa rappresenta un’altra delle caratteristiche costanti di queste società. Infatti, dalla descrizione dei Germani fatta da Tacito, che, se vogliamo, si riallaccia a quella del Divo Giulio nel De Bello Gallico, sappiamo che i più forti in battaglia godono di un particolare prestigio: oltre ad essere venerati, vengono esentati dal lavoro in tempo di pace e in virtù delle loro particolari abilità, usufruiscono finanche del privilegio di essere accompagnati nell’aldilà dai loro sodali, dal momento che «iam vero infame in omnem vitam ac probosum superstitem principi suo ex acie recessisse»[20].
Quelli appena descritti, non rappresentano che due esempi di formazioni proto-statali, uno letterario (Odissea) ed uno più “storico” (La Germania). In entrambi i casi citati, pur non esistendo un unico centro detentore del monopolio della violenza, come vorrebbe la definizione di stato di M. Weber, è presente un gruppo di persone, o un capo, che tende a perpetrare gli scontri interni e/o esterni, pur di mantenere il proprio ruolo di privilegio. Ora, fatta tale premessa, immaginiamo, come suggerisce il professor Adolfo La Rocca, docente di storia romana alla Sapienza Università di Roma, nel corso delle sue lezioni, che sulle sponde del Tevere nell’VIII secolo a.C., un gruppo di guerrieri e/o un lignaggio detentore di particolari prerogative sacrali riesca a convincere il resto della società a protrarre lo stato di guerra, condizione necessaria alla perpetuazione del proprio potere. Supponiamo anche, sempre con La Rocca, che, successivamente, diverse tribù con a capo singoli lignaggi, fondendosi, creino un singolo centro di potere detentore del monopolio della forza legittima: una federazione di capi, ognuno con un suo seguito. Ciò rappresenterebbe il primo passo verso la creazione di qualcosa di diverso: dalla faida, dal tutti contro tutti, si passerebbe al tutti contro uno, secondo i dettami dei capi, ora alleati ed in grado di dirigere l’azione violenta dell’intera collettività, sia all’interno della stessa che all’esterno. Ecco che assistiamo ad un vero e proprio sconvolgimento degli orizzonti mentali di un gruppo, una vera e propria rivoluzione psicologica: all’improvviso, la fedeltà al nuovo gruppo così formato diviene più importante di quella che prima era osservata verso il proprio clan. Qualcosa di simile deve essere accaduto con la formazione dello Stato Islamico a Medina, nel 632 d.C., quando improvvisamente, un solo uomo, il Profeta, decide dove e come esercitare quella violenza che le varie tribù arabiche, ora riunite, precedentemente rivolgevano le une contro le altre.
Per tornare al nostro scontro tra patrizi e plebei, ecco che gli annalisti, “improvvisamente”, ci informano che nel 494 a.C.[21], i contadini-soldato, sui quali Roma sta incominciando a fondare la propria potenza, cadono schiavi di altri cittadini. Compare una crisi debitoria causata dalle guerre per le quali i contadini sono stati costretti ad indebitarsi, forse anche a causa di qualche annata di cattivi raccolti (in storiografia, quando mancano notizie certe per descrivere un periodo di crisi, solitamente si dà la colpa alle avverse condizioni climatiche). Gli antiquari ci parlano di due istituzioni, il nexus – legame che lega creditore e debitore – e l’addictio, una procedura per la quale il Praetor relega il debitore a proprietà del creditore e, qualora il debito non venga ripagato in sessanta giorni, il creditore è libero di vendere la sua nuova proprietà come schiavo, ma solo fuori della città di Roma. Va da sé che l’addictio, almeno su larga scala, diviene un’istituzione improponibile, dal momento che il suo uso indiscriminato rischierebbe di provocare un enorme calo demografico e perfino la stessa estinzione della società. Per tali motivi, ci sentiamo di dar credito alla teoria che vede nel nexus la pratica più usata e che vuole il debitore legarsi al creditore pur rimanendo libero, ma obbligato al lavoro per quest’ultimo, fino all’estinzione del debito. Appare evidente che lo scopo di tale istituzione sia quello di creare una categoria di lavoratori dipendenti ma liberi, non minando il loro status giuridico di cittadini romani e dunque, la loro stessa appartenenza all’esercito, ma ponendoli al contempo, alla mercé dei grandi proprietari terrieri.
Scoppia probabilmente così la crisi che mette in discussione tutto il sistema originario di una città-stato fondata sulla guerra e che da Servio Tullio, come vuole la tradizione, ha cominciato a basarsi sulla falange oplitica e sulla sua interfaccia politica, il comizio centuriato, in un sistema timocratico-bellico che supera la concezione di un condottiero legato ai suoi sodali (l’Ulisse omerico, ad esempio, ma lo stesso Celio Vibenna, rimanendo in loco) e che assicura, teoricamente, libertas e uguaglianza a tutti coloro che possono permettersi di far parte dell’esercito. Si tratta di una crisi sociale che viene a sconvolgere le stesse istituzioni politiche romane. A tal proposito, Cassola scrive che «in origine il ‘popolo romano’ si contrapponeva alla plebe, cioè comprendeva i soli patrizi. Populus significa esercito […] ne risulta che in tempi senza dubbio antichissimi, l’esercito era composto esclusivamente di patrizi: la classe dominante, come spesso nelle società primitive, si identificava con l’esercito (l’aristocrazia romana del resto, fino alla tarda repubblica, restò un’aristocrazia guerriera)»[22].Successivamente, con la crescita demografica della città, nel suo periodo “etrusco” (la grande Roma dei Tarquini[23]), in un momento in cui vengono ad accrescersi gli impegni militari – e comunitari – con il patriziato che, a questo punto, grazie all’annessione di centri minori e all’immigrazione, comincia a divenire una minoranza, la plebe viene ammessa all’esercito, con la riforma serviana. Forse, immaginiamo, proprio con la partecipazione di entrambe le compagini all’esercito, a causa della nuova condizione di vicinanza tra loro, vengono ad originarsi ed acuirsi i motivi dello scontro.
Ora, la versione più diffusa di questo conflitto vuole che gli indebitati si mobilitino contro i patrizi anche attraverso lo sciopero bellico. I plebei si ritirano, dunque, sull’Aventino (o sul Mons Sacer) [24], sancendo così una prima secessione e lasciando Roma priva di difese, o quasi. Danno vita ad un’assemblea, il Concilium plebis, nella quale eleggono i loro rappresentanti: due Tribuni la cui figura diventa inviolabile. Di nuovo, chi sono questi plebei? Sostanzialmente, si tratta di un gruppo interclassista, a leggere bene le loro rivendicazioni, che non riguardano solo l’abolizione dei debiti o la distribuzione di terre pubbliche ma anche l’accesso al consolato. Una rivendicazione, quest’ultima, che testimonia proprio la natura eterogenea del gruppo, in quanto in età arcaica, e non solo, non tutti possono permettersi di intraprendere la carriera politica, ma solo i più abbienti (come tra l’altro accade anche oggi, a dirla tutta); ciò testimonia la presenza, all’interno dei plebei, anche di personaggi ricchi, la cui ambizione è quella di accedere al consolato, la più prestigiosa delle cariche pubbliche nella Roma repubblicana. A tal proposito, sempre Cassola ricorda «che i patrizi giustificavano il monopolio delle magistrature proclamando di essere i soli capaci e degni di prendere gli auspici, e perciò di garantire il perpetuo rapporto tra gli dèi e il popolo romano. Questo privilegio, in parte riconosciuto dagli stessi plebei durante tutta l’età repubblicana, non poteva essere ottenuto con un colpo di stato e certo si consolidò attraverso una lunga serie di generazioni (dunque già in epoca monarchica)»[25]. I ricchi plebei, pertanto, non possono accedere al consolato proprio perché non detengono lo ius auspiciorum (il diritto di prendere agli auspici), del quale invece godono i patrizi, gli unici in grado di stabilire se una determinata azione sia o meno in armonia con il volere degli dèi una cosa ben diversa dalla divinazione, con la quale loius auspiciorum viene, purtroppo, spesso confuso, anche in ambito accademico. Non dobbiamo poi mai dimenticare, infatti, che a Roma, anche se coadiuvati dai sacerdoti, sono i magistrati gli unici ad essere legittimati all’azione rituale e sacrificale, nell’interesse pubblico[26].
In sostanza, se all’interno dell’eterogenea compagine plebea, coloro che sono fuori dal sistema censitario, fondamento della falange oplitica, ovvero gli infra classem di liviana memoria, lottano per una rivendicazione al diritto alla guerra, e i contadini-soldato indebitati rivendicano l’annullamento dei debiti e la distribuzione delle terre, i ricchi plebei, richiamandosi anch’essi ad una logica bellica, non riconoscono più nel fondamento sacrale la principale prerogativa per accedere al comando, viceversa, pretendono che la stessa capacità di comando sia legittimata dalla sfera sacrale, reclamando così l’accesso al Sacro, per il tramite degli auspicia. Assistiamo, così, ad uno stravolgimento degli antichi valori tradizionali: non sono, dunque, i patrizi ricchi a cooptare i ricchi plebei, ma sono questi ultimi a rivendicare l’accesso al Trascendente, essenziale per detenere ruoli di comando. In altri termini, se vogliamo, ad un criterio di sangue vediamo ora sostituirsene uno di merito.
Va comunque segnalato come patrizi e plebei osservino differenti culti: laddove «lo stesso patriziato (oltre al monopolio degli auspicia) seguiva culti vari, a seconda delle sue gentes, ognuna delle quali aveva – come si direbbe oggi – il suo santo protettore in una divinità propria»[27],riguardo i culti plebei ignoriamo molto; ma dagli studi dell’Oberziner [28], come riportato dal solito Colonna di Cesarò, sappiamo che essi erano dediti a «culti celebrati con offerte di frutta o aventi carattere antropomorfico e sanguinario e a base di sacrifici animali»[29]. Da ciò, ma non solo, Oberziner, ai primi del Novecento, arriva alla identificazione dei plebei con i Liguri, conquistati dai Latini. Un’altra teoria in merito è quella riportata dal professor Renato Del Ponte che, come lo stesso Ettore Pais prima di lui, associa la plebe al culto di Cerere, «la dea della libertà plebea»[30]. Sia come sia, nel 367 a.C., giungiamo alla fase finale dello scontro tra i due gruppi sul consolato, quando si stabilisce che anche i plebei possono aspirarvi. Occorre però attendere il 342 a.C., quando, per consuetudine(o a seguito di un’altra insurrezione), si afferma il principio secondo il quale uno dei due consoli deve essere necessariamente plebeo; fino ad arrivare al 172 a.C., anno in cui compaiono, per la prima volta due consoli di origine plebea.
Nel 300 a.C., i plebei conquistano, a fatica, anche l’accesso a i collegi sacerdotali dei Pontefices e degli Augures, sino ad allora appannaggio esclusivo dei patrizi, ulteriore retaggio, a nostro avviso, del loro monopolio del Sacro; nel 287 a.C., con la Lex Hortensia, si stabilisce che le delibere del concilium plebis, un’istituzione fino ad allora rivoluzionaria, i plebiscita, divengano leges vincolanti per tutta la città, sancendo così la definitiva fine del secolare scontro. Con la conquista del consolato da parte dei plebei, a Roma si forma una nuova élite, la nobilitas patrizio-plebea, dal momento che con la progressiva conquista di nuovi territori, vengono a cadere via via tutti motivi di rivendicazione plebea, dall’accesso al Sacro, all’adesione al consolato, passando per la distribuzione dell’ager publicus, ormai sempre più disponibile ma sempre più motivo di discordia tra grandi possidenti e contadini-soldato e non più tra patrizi e plebei, come dimostrato, in seguito, dalle vicende dei fratelli Gracchi.
In sostanza, almeno fra i plebei facoltosi e i patrizi, lo scontro va portato, a nostro avviso, sul piano sacrale. Un ambito trascurato dalla intellighenzia moderna, che affonda le sue radici nel positivismo scientista del XIX secolo e che, nella sua degenerazione attuale, vede nella cieca esaltazione della scienza e del progresso tecnologico, i capisaldi del benessere, ignorando, sia la presenza di un lato celato ed oscuro del progresso, sia il fatto che l’umanità, per millenni, abbia confidato in ben altro. Di contro, sappiamo che l’interazione tra autorità politica e ‘sapere esoterico’, anche negli ambienti di potere più insospettabili e materialisti, non si è affatto interrotta con la rivoluzione scientifica del XVII secolo, né con quella industriale e tecnologica del XIX [31]. E le masse plebee di oggi? Beh, opportunamente manipolate e convogliate dal ‘patriziato’ moderno, al Sacro, divenuto oggi merce come tutto, del resto, hanno stoltamente sostituito una incrollabile fede nella scienza, che è solamente una parte della Conoscenza; vuoi per paura della morte, vuoi per apparire intelligenti e colte proprio come coloro che da dietro le quinte, ingannandole, si fanno beffe di loro.
Note:
[1]Cfr. G. A. Colonna di Cesarò, Il Mistero delle Origini di Roma, Roma, Libreria Editrice Aseq s.r.l., 2016, p. 172.
[2]Ibidem.
[3]F. Cassola, L’organizzazione politica e sociale della Respublica, in Radices Imperii, Milano, UTET-Garzanti/Schweiller, 1992, pp. 1-40, p. 2.
[4] Cfr. G. A. Colonna di Cesarò, Il Mistero delle Origini di Roma, cit., p. 173.
[5]Ibidem.
[6] Cfr. T. Mommsen, Storia di Roma. Dalle origini alla Repubblica, Santarcangelo di Romagna (RN), 2017, pp. 70-74.
[7]A. Piganiol, Le Conquiste dei Romani, Milano, Il Saggiatore, 1989, p. 106.
[8]Ibidem.
[9]A. Momigliano, Osservazioni sulla distinzione fra patrizie plebei, in «Entretiens sur l’Antiquité classique», 13 (1967).
[10]Va comunque ricordato che «Il nome Latium, in origine, designava solo una ristretta fascia di territorio compresa fra il basso corso del Tevere e i Monti Ausònii, e limitata nell’entroterra dai primi contrafforti degli Appennini.» F. Cassola, Storia di Roma. Dalle origini a Cesare, Roma, Jouvence, 1985, p. 7.
[11] Cfr. A. Piganiol, Le conquiste dei romani, cit., p. 73.
[12]Cfr:F. Cassola, Storia di Roma. Dalle origini a Cesare, cit., p. 9; A. Piganiol, Le conquiste dei romani, cit., pp. 73-74.
[13] Cfr.,F. Cassola, Storia di Roma. Dalle origini a Cesare, cit. p. 9.
[14]A tal proposito cfr., tra gli altri: AA. VV., Enea nel Lazio. Archeologia e mito, Roma, F.lli Palombi Editori, 1982;C. Cassola, Storia di Roma Dalle origini a Cesare, cit., pp. 7-25;E. Gabba, Roma e l’Italia, in AA. VV., Radices Imperii, cit., pp.47-87; T. Mommsen, Storia di Roma. Dalle origini alla Repubblica, cit., pp. 3-47;E. Pais, Storia dell’Italia Antica, II voll., Roma, Optima, 1925;A. Piganiol, Le conquiste dei romani, cit., pp. 44-94;R. Zucca, I popoli italici e le origini di Roma, Milano, Jaca Book, 2004.
[15]M. H. Hansen, Introduzione alla città stato nell’antica Grecia, Milano, Università Bocconi Editore, 2016, p. 15.
[16] Cfr.M. Weber, Economia e società, Milano, 1922/Edizioni di Comunità, 1980, I, p. 53.
[17]Cfr., D. Graeber, Debito i primi 5.000 anni, Milano, Il Saggiatore, 2012, p. 132; E. E. Evans-Pritchard, I Nuer, un’anarchia ordinata, Franco Angeli Editore, Roma 2002.
[18]Cfr. V. Turner, Il processo rituale, Brescia, Morcelliana, 2001.
[19] Cfr. Omero, Odissea (Trad. G. Aurelio Privitera), Milano, Mondadori, 2020, p. 737.
[20]«E’, inoltre, marchio d’infamia e di vergogna per tutta la vita, ritornar salvo dal combattimento, quando il capo è caduto», Tacito, Vita di Agricola-La Germania, Milano, Rizzoli, 2017, p. 222/223.
[21]Sulla datazione precisa e sull’episodio in questione cfr. G. Poma, Le secessioni della plebe (in particolare quella del 494-493 a.C.) in storiografia, in https://www.dirittoestoria.it/7/Memorie/Poma-Secessioni-plebe-storiografia.htm.
[22]F. Cassola, L’organizzazione politica e sociale della Respublica, in Radices Imperii, cit., p. 3.
[23]G. Pasquali, La grande Roma dei Tarquini, in «Nuova Antologia», 16 agosto 1936, pp. 405-416.
[24] «Tra le varie opzioni presentate dalle fonti, Monte Sacro-Aventino-Crustumerio, i moderni o non hanno scelto (come il Ridley), o hanno scelto l’una o l’altra, preferibilmente il Monte Sacro per la liviana frequentior fama, ma anche l’Aventino per la sua vocazione plebea (Guarino) o hanno supposto due concomitanti secessioni (Fabbrini)»F. Cerato, Le secessioni della Plebe, in https://studiahumanitatispaideia.blog/2014/01/21/le-secessioni-della-plebe/#_ftn2.
[25]F. Cassola, L’organizzazione politica e sociale della Respublica, in Radices Imperii, cit., p. 12.
[26]Sul concetto di sacrificio, in ambiente romano, si consiglia la lettura di: J. Scheid, Quando fare è credere, i riti sacrificali dei Romani, Roma-Bari, Laterza e Figli, 2001.
[27] G. A. Colonna di Cesarò, Il Mistero delle Origini di Roma, cit., p. 177.
[28] G. Oberziner, Origine della plebe romana, Genova, Tipo-litografia e libreria sordomuti, 1901.
[29] G. A. Colonna di Cesarò, Il Mistero delle Origini di Roma, cit., p. 178.
[30] R. Del Ponte, La Religione dei Romani, Genova, Edizioni Arya, 2017, p. 232 e nota relativa.
[31]A tal proposito, si consiglia la lettura di: G. Galli, La magia e il potere. L’esoterismo nella politica occidentale, Torino, Lindau, 2004; G. Cosco, Tavagnacco (UD), Politica, Magia e Satanismo, Edizioni Segno, 1997.
Bibliografia essenziale:
Omero, Odissea (Trad. G. Aurelio Privitera), Milano, Mondadori, 2020.
Tacito, Lavita di Agricola/La Germania, Milano, Rizzoli, 2017.
Cassola F., L’organizzazione politica e sociale della Respublica, in Radices Imperii,Milano, UTET- Garzanti/Schweiller, 1992.
Colonna di Cesarò G. A., Il Mistero delle Origini di Roma, Roma, Libreria Editrice Aseq s.r.l., 2016.
Evans-Pritchard E. E.., I Nuer, un’anarchia ordinata, Franco Angeli Editore, Roma 2002.
Mommsen T., Storia di Roma. Dalle origini alla Repubblica, Santarcangelo di Romagna (RN), 2017.
PiganiolA., Le Conquiste dei Romani, Milano, Il Saggiatore, 1989.
Turner V., Il processo rituale, Brescia, Morcelliana, 2001.
Weber M., Economia e società, Milano, 1922/Edizioni di Comunità, 1980.
Antonio Arcuri