Parola, letteratura, civiltà – Marco Calzoli
Dieci millenni fa, alla fine del Paleolitico, succede nella storia della civiltà una rivoluzione fondamentale: l’uomo smette di essere nomade, cioè si sedentarizza e quindi cessa di essere cacciatore e raccoglitore e ed inizia l’agricoltura. Il suo immaginario cambia del tutto, associa la vita della produzione vegetale alla sua: la Dea Madre è la Natura che produce sé stessa in un circolo chiuso. Dal Neolitico in poi (che dura fino al 3.500 a. C.) questo immaginario cambia radicalmente e la Dea Madre inizia a produrre qualcosa di estraneo da sé, un Figlio: quindi il prodotto della Natura cessa di essere centrato su di essa e acquisisce vita autonoma. La conseguenza è che si sviluppa l’idea di un ciclo collegato alle stagioni: la nascita (primavera), la sua morte (inverno) e la sua rigenerazione (primavera successiva). In questo ciclo l’uomo vive sé stesso come un essere che muore e poi rinasce nel mondo degli dei. Questa rivoluzione mentale del Neolitico trova espressione mitica anche nel motivo ricorrente del dio che muore e poi risorge, che si ritrova in tutto il mondo. Nel Vicino Oriente il primo esempio di una divinità che rinasce dopo essere morta è il sumerico Dumuzi, che in accadico è detto Tammuz. Secondo la prospettiva di Liverani, la scrittura nasce la prima volta nella Mezzaluna fertile (Mesopotamia, Egitto) come conseguenza della rivoluzione urbana avvenuta nel 3.500 a. C. Ogni innovazione nella storia dell’umanità ha sempre premesse economiche. Nel IV millennio a. C. nascono la scrittura sumerica e la scrittura egiziana, che quindi sono le più antiche del mondo, stando alle attuali conoscenze. La scrittura adottata dal sumerico è il cuneiforme, che consta di tre tipi di segni: per indicare parole; per indicare sillabe; determinativi (per specificare). Il cuneiforme, nato presumibilmente per rendere il sumerico, ha una grandissima diffusione in Oriente e è usato per esprimere l’accadico, l’eblaita, l’elamita, l’hurrita, l’ittita, e altre lingue. Il poema sumerico Enmerkar e il signore di Aratta, composto nel 2000 a. C., racconta della disputa per la supremazia tra la città di Kullab /Uruk, nella Bassa Mesopotamia, e la ricca Aratta, collocabile tra l’Iran e l’Armenia. Nel testo non si parla di eserciti o di armi, ma di uno scontro dialettico tra i due sovrani. Strumento di questa disputa è un messaggero che viaggiando da una città ad un’altra ad un certo punto accade che non riesca a ripetere un lungo messaggio, quindi il re di Kullab “impastò l’argilla e vi incise le parole come su una tavoletta – prima nessuno mai aveva inciso le parole sull’argilla”. Questo è il racconto mitico della nascita della scrittura cuneiforme.
Oltre alla urbanizzazione e alle lingue e scritture, il Vicino Oriente antico ha trasmesso alle monarchie ellenistiche e quindi al mondo europeo un modello di sovranità che a volte sussiste tuttora: è l’antichissima regalità sumerica – secondo la dottrina ortodossa di Nippur “discesa dal cielo” sulla terra come espressione della volontà divina – nei suoi aspetti più caratterizzanti come la durata fino alla morte del sovrano, la ereditarietà come norma, la connessione con le insegne tipiche (trono, corona, scettro, pastorale). Non dimentichiamo poi le massime morali mesopotamiche e egiziane che sono divenute il fondamento della morale biblica e quindi dell’uomo occidentale. Non ultimo dalla Mesopotamia ci giunge altresì la definizione del calendario. Al Museo del Louvre di Parigi si conserva un cono di argilla con incise alcune iscrizioni. È il cono di Urukagina, dal nome del governatore della città sumera di Lagash, oggi Tell al-Hiba (Iraq), ma ne restano solo alcune rovine. Il testo contiene quello che, secondo molti, è considerato il primo codice giuridico dell’umanità: aveva lo scopo di introdurre un maggiore livello di uguaglianza nella società, limitando il potere religioso e dei grandi proprietari, combattendo la fame, l’usura e i furti. È qui che, per la prima volta nella storia, si trova traccia della parola libertà (ama-gi). Quante lotte saranno fatte fino ai giorni nostri per questa parola?
La civiltà urbana si determina perché ci sono delle innovazioni agricole. Diamo questo schema:
- Qualcuno ha avuto la grande idea di sostituire la zappa (in sumerico mar) con l’aratro, mediante il quale il seme viene distribuito più velocemente e più in profondità; l’aratro viene quindi spinto da buoi con il giogo, mediante il quale i buoi vanno dritti facendo solchi dritti, cosa che permette la ottimizzazione dello spazio agricolo che quindi produce di più;
- Poi viene inventato il canale, che serve a diramare un fiume per irrigare molto meglio (l’acqua esce dal fiume e viene distribuita a tutto il terreno);
- Queste cose hanno determinato un enorme incremento della produzione di raccolto, quindi la gente non muore o vive più a lungo;
- Di conseguenza la produzione aumenta ancor di più perché ci sono più braccia che lavorano. Quindi non c’è bisogno che tutti facciano i contadini e c’è più tempo libero, che viene impiegato in altre maniere, per esempio per pensare, allora la tecnica si perfeziona perché c’è qualcuno che ha molto tempo libero per svilupparla;
- Di conseguenza la produzione migliora ancor di più, nasce per esempio la produzione in serie (più veloce e superiore per qualità);
- Tutto questo crea un surplus di prodotto: per raccogliere il prodotto nascono grandi magazzini e si fa largo la necessità di rendicontare i beni in entrata e in uscita;
- Per questa esigenza si producono segni scritti: le merci sono rendicontate con contrassegni.
Allora la scrittura vera e propria nasce quando qualcuno capisce che i segni possono indicare altre cose (pittogrammi) e delle idee (ideogrammi). In Mesopotamia il supporto grafico più usato è l’argilla cruda, mentre in Egitto è la terra cotta (ostrakon), su cui gli egiziani dipingevano (mentre i greci graffiavano), invece il papiro era un supporto elitario, usato solo per grandi occasioni. Un pittogramma è un segno grafico che indica qualche cosa: in egiziano antico l’anatra indica un’anatra. L’ideogramma è per esempio la croce ansata, che sempre in egiziano indica la vita, che non è più una cosa, ma una idea. Il fonogramma è un segno che indica un suono: monolittero, bilittero, trilittero o di più. È nella scrittura egiziana geroglifica che nasce il primo alfabeto della storia, cioè ogni segno indica un solo suono (monolittero). Il geroglifico ha centinaia di segni pittogrammi e ideogrammi e fonogrammi multipli (bilitteri, trilitteri e altro), ma anche una trentina di segni monolitteri, che quindi costituiscono un alfabeto. L’antico Egitto ha una visione monocentrica: sebbene sia ripartito in Alto e Basso Egitto, questa potenza dell’antichità vede sé stessa come la vera civiltà e gli altri come la non civiltà da dominare. Gli antichi egiziani credono che la loro terra sia la collina sorta dalle acque primordiali del Nun, avente al centro il tempio di Eliopoli, e questo spiega la loro visione del mondo come se fosse un’isola. L’Egitto è maat, ordine, e i deserti e il mare che lo circondano servono a proteggerlo dal resto del mondo, che è caos. Gli egiziani si autodefiniscono remeteh, la gente: chi non vi appartiene è un potenziale nemico, che va distrutto o sottomesso. I primi contatti tra Egitto e Vicino Oriente antico risalgono al 3400 e al 3000 a. C. Gli artisti egiziani riprendono motivi tipici della cultura mesopotamica di Uruk come la lotta tra le fiere, anche se a volte i leoni prendono il posto dei più egiziani coccodrilli. In seguito, nel corso del Medio Regno (2000-1600 a. C.) la città orientale di Biblo diventa per l’Egitto la principale fonte di approvvigionamento di legname di cedro, utilizzato per la costruzione di monumentali edifici. Nella tomba di Khnumhotep (1800 a. C.), il governatore di Beni Hasan, per la prima volta sono raffigurati una quarantina di aamu (asiatici) portatori di stibium, il cosmetico nero che gli egiziani mettono attorno agli occhi. Quando a partire dal Nuovo Regno (1580 a. C. – 1085 a. C.), gli egiziani, in sé dominatori, si affacciano molto di più sul Vicino Oriente, caratterizzato invece da una esistenza di fratellanza con gli altri stati, le due visioni del mondo entrano in qualche maniera in contrasto. Come testimoniato dagli archivi di Mari (Medio Bronzo) e dagli archivi di El-Amarna (Tardo Bronzo), si era determinato uno stallo tra Egitto e una mezza dozzina di grandi regni orientali (Hatti, Mitanni, Siria, Babilonia, Elam, Cipro), e altri minori, che avevano accettato una coesistenza non tanto pacifica quanto piuttosto di equilibrio instabile basata sul concetto vicino orientale di fratellanza, akutu in accadico. Il sistema era basato su un intenso interscambio simmetrico di doni e di merci, di donne (matrimoni interdinastici) e di messaggi (lettere, ambasciatori, alleanza). Secondo la nota tesi di Mauss, i doni devono essere scambiati con l’obbligo di donare, con l’obbligo di accettare e con l’obbligo di ricambiare: invece i re dell’epoca applicavano queste regole di tutte le civiltà in maniera opposta, cioè donavano chiedendo esplicitamente il contraccambio, misuravano con il bilancino i valori in entrata e in uscita, palesando un atteggiamento utilitaristico per nulla disinteressato.
In ogni modo, quando l’Egitto si affaccia stabilmente sullo scenario orientale deve accettare le regole internazionali che vigono allora, per quanto cozzino vistosamente con le tradizioni monocentriche dell’Egitto. Anche i re asiatici accettano un comportamento anomalo che non accolgono però da altre parti. Perché? Perché l’Egitto è militarmente e economicamente superiore a ciascuno di quei regni orientali. Una classica regola di allora tra gli stati orientali, che cela un traffico commerciale sotto la veste apparente del dono, e che l’Egitto accetta di buon grado, è il “dono provocatorio”: si invia a uno stato un piccolo quantitativo di merce della quale il mittente è sprovvisto così da richiedere implicitamente o esplicitamente al ricevente di volerne acquistare. Il re di Cipro scrive al faraone Amenofi IV di aver ricevuto 200 sicli di rame e quindi di avergli spedito come dono 10 talenti di rame, che abbonda a Cipro e del quale il faraone è sprovvisto. Oppure Cipro invia all’Egitto un esiguo quantitativo di zanne di elefante, che però è un tipico prodotto egiziano e africano in genere. Queste anomalie si spiegano con l’istituto summenzionato. C’è poi la pratica dello “specimen dimostrativo”, che consiste nel negare di avere la merce richiesta accompagnando però il messaggio di rifiuto con un piccolo dono proprio di quella merce, sottintendendo che quella merce è disponibile ma bisogna negoziare un piccolo pagamento. Negli scambi di lettere l’Egitto deve adeguarsi, come abitudine consolidata in Asia, all’uso del babilonese come lingua di contatto, producendo però dei correttivi che dimostrano la sua superiorità. Facciamo qualche esempio. La lettera di quell’epoca si apre con un indirizzo in cui vi è il mittente e il destinatario. In Egitto c’è lo schema per cui il mittente chiede qualcosa al destinatario cosicché il faraone possa mettere il proprio nome per primo. Invece in Asia si usano altre convenzioni, una di cortesia (sempre per primo il nome del destinatario) e una di superiorità (mettere per primo l’interlocutore di rango più elevato). Ora i re di Mitanni e Babilonia in tutte le loro lettere usano sempre la convenzione cortese, invece l’Egitto oscilla (a volte mette il nome del faraone, a volte quello del destinatario). Il re ittita una volta si lamenta apertamente per lo sgarro faraonico. La lettera dell’epoca si conclude con i saluti, che ancor oggi in Asia alternano domande sulla salute dell’interlocutore e della famiglia con rassicurazioni sulla buona salute propria e della famiglia. Ovviamente le dichiarazioni sulla salute sono solo formali, infatti può succedere che nel corpo della lettera si apprenda che la moglie, della quale si dichiara la buona salute, in realtà sia morta. Nelle lettere di El-Amarna l’uso asiatico prevalente è di augurare buona salute in dettaglio a tutta la cerchia del destinatario e di dare abbreviata assicurazione della propria salute. Invece il faraone dà dettagliata informazione sulla salute dei membri della propria cerchia, considerata implicitamente più importante di quella dell’interlocutore, ma alla fine informa della buona salute delle sue numerose truppe, larvata minaccia, che se apparirebbe consona nei confronti degli stati vassalli, risulta decisamente fuori luogo nei confronti dei “fratelli” asiatici. Ma il settore nel quale l’Egitto non può livellarsi al pluralismo degli stati dell’Asia è quello dei matrimoni interdinastici. In Asia è pratica corrente lo scambio bidirezionale, segno di rapporti amichevoli. Invece il faraone egiziano è tanto desideroso di ammettere principesse asiatiche nel proprio harem quanto ritroso a concedere le proprie donne ai regni asiatici. Questo si giustifica non solo con la chiara egemonia egiziana de facto rispetto a questi stati, ma anche con la tradizione dei matrimoni: mentre gli asiatici sono esogamici (allargano alle donne straniere la cerchia del proprio harem), gli egiziani sono endogamici (si sposano tra di loro). In uno scarabeo egiziano che ricorda l’acquisizione da parte di Amenofi III di una moglie dal regno dei Mitanni, questa donna viene chiamata “meraviglia” e non “regina”, come a dire che è una specie di oggetto da collezionismo che giunge dall’estero e non una vera regina, il cui titolo spetta solo alle donne egiziane in regime endogamico. Il lavoro filologico sui testi antichi dimostra che, se il faraone tiene alla purezza della razza sposando quindi regine solo egiziane e concedendo alle donne straniere quasi solo di abitare il palazzo faraonico, e se il faraone non concede donne egiziane agli stati asiatici, tuttavia d’altra parte, i tentativi di matrimoni interdinastici sono assai febbrili. Il compromesso è questo: i regni asiatici concedono che le proprie donne entrino nel harem del faraone in cambio di oro, che pare non essere a disposizione direttamente in quella parte dell’Asia, ma di cui invece l’Egitto ha possesso.
Facendo questo ragguaglio storico a noi preme dimostrare come l’Egitto si affacci sul Vicino Oriente come una grande potenza. È per questo che si giustifica la grande diffusione dell’alfabeto. Come nasce questo alfabeto? Per l’Egitto antico la Mesopotamia è fondamentale e lo è anche in questo caso. Il sumerico è una lingua agglutinante, per cui c’è una radice portatrice del significato della parola e elementi che si aggiungono per esprimere le relazioni grammaticali. Per esempio per dire “il re (lugal) della città (iri)” si forma una sola parola che unisce le due parole assieme al suffisso genitivale –ak, cioè: lugal-iri-ak. Invece le lingue indoeuropee e l’egiziano sono flessivi, cioè esprimono le categorie grammaticali modificando le vocali all’interno della radice. Io do, io diedi: il passato si esprime modificando le vocali della radice do. In inglese foot, feet, il plurale si fa allo stesso modo. nelle lingue agglutinanti si procede per parole, nelle lingue flessive si procede per singoli fonemi, per cui nelle prime i segni riguardano parole, nelle seconde i segni riguardano suoni singoli. Nelle prime una singola parola è un segno e un segno è un suono: in sumerico dingir, “dio”, si fa con il segno della stella. Invece in egiziano è possibile che un segno non indichi solo una singola parola con il suono corrispondente ma anche uno solo dei suoni che formano l’intera parola. Nasce così l’alfabeto: ogni segno indica un suono monolittero, per cui il passero indica U o il serpente indica F o il quadrato indica P. L’egiziano esprime solo le consonanti e le semivocali ma non le vocali[1]. Quindi i fenici quando adottano i segni alfabetici, li riducono per le loro consonanti, scartando i rimanenti. L’alfabeto fenicio passa ai greci, che vi aggiunge le vocali in vari modi. Quindi l’alfabeto passa agli etruschi, e da questi ai romani, quindi alle lingue indoeuropee moderne come l’italiano. La prima attestazione dell’alfabeto fenicio la abbiamo nel XII secolo a. C. sulle punte di freccia. Ai greci l’alfabeto passa nel VIII secolo. Ma il fenicio deve essere più antico delle nostre attestazioni: da esso sono sorte due scritture cuneiformi alfabetiche di breve durata (quella ugaritica e quella persiana antica). Invece le antiche iscrizioni di Biblo e quelle protosinaitiche non sarebbero alfabetiche ma sillabiche. L’apparato vocale umano può esprimere centinaia di suoni. In realtà le lingue non li adottano tutti, ci sono linguaggi che ne hanno pochi (la lingua hawaiana ne ha 12), altre che ne hanno molti (le lingue africane, che hanno consonanti particolari e persino schiocchi). In molte lingue dell’Asia, dell’Africa e dell’America aborigena esistono intere classi di suoni che sono completamente sconosciuti alla maggior parte di noi. Non si tratta necessariamente di suoni più difficili da pronunciarsi di quelli ai quali siamo abituati: semplicemente essi implicano certi condizionamenti muscolari degli organi vocali a cui non siamo mai stati abituati. Sapir, uno dei più grandi linguisti del Novecento, afferma che il numero dei suoni possibili sia assai superiore a quello usato effettivamente nelle varie lingue del mondo. Ma i suoni non formano necessariamente una lingua, anche gli animali emettono suoni. Sono necessari anche gli elementi che costituiscono la forma di una lingua, che Sapir suddivide in due grandi categorie: i metodi formali adottati (processi grammaticali) e l’insieme dei concetti (la semantica).
In media le lingue presentano tra i 20 e i 30 suoni. Il fenicio ha 22 consonanti e semivocali, l’arabo classico ne ha 28: dall’alfabeto fenicio deriva il nostro, quindi l’arabo ha suoni ulteriori che l’italiano non ha. Quando in arabo diciamo “mio cane”, kalb-y, pronunciamo una K con il suono velare come in italiano, ma l’arabo conosce anche una consonante simile, la Q, che l’italiano non ha: quindi se amiamo una donna araba e le parliamo nella sua lingua, dobbiamo stare attenti a pronunciare bene questa Q (che si ottiene premendo la parte posteriore della lingua sulla parte molle, posteriore, del palato: si produce un suono simile ma uvulare) nella tipica espressione degli amanti “mio cuore”, qalb-y, per non confonderla con l’espressione dispregiativa “mio cane”. Gli studiosi da tempo discutono dell’esatto rapporto tra suono e senso, cioè significante e significato, vale a dire il suono “cane” (significante) e l’animale significato dal suono (significato). Oggi sembra che tra il suono o la parola scritta e ciò che il segno indica, cioè il significato, non vi sia pura arbitrarietà. Un messaggio parlato o scritto si capisce dal significante, dal significato e dal contesto. Una parola come “operazione” senza il contesto non vuol dire nulla. Il suono non dice nulla come non dice nulla il livello del significato che ancora non si ha. A cosa ci riferiamo? Solo il contesto può darci pienamente comprensione della parola: operazione fatta dal chirurgo? Operazione fatta dallo studente di matematica? Operazione militare? E così via. Ogni atto linguistico parlato si pone tra due poli: la iperarticolazione (una articolazione particolarmente scandita e accurata) e la ipoarticolazione (una articolazione sciatta e poco curata). Quanto maggiore è l’informazione che si può ricavare dal contesto, tanto minore sarà la articolazione, cioè l’impegno articolatorio necessario per essere capiti. Questo impegno articolatorio si basa anche sulla voce. La voce, cioè il tono con il quale la parola è pronunciata, può generare significati, quindi tra il significante e il significato non vi è pura arbitrarietà. Un conto è dire “ti spacco la faccia” in tono serio (se qualcuno ci ruba il portafogli), un altro è dire la stessa frase in tono scherzoso (tra amici che scherzano al bar). Anticamente vi sono molti contatti tra le popolazioni del Mediterraneo e delle aree limitrofe. Dobbiamo immaginare quei periodi all’insegna di frequenti scambi: dall’età arcaica a quella ellenistica e anche dopo. Nel Medioevo, per esempio, il mondo arabo non fa solo le incursioni all’Occidente, sono celebri le gesta di Rolando che combatte contro l’invasione musulmana, ma si tratta di un’epoca di intensi rapporti culturali tra Occidente e Oriente tanto che la civiltà europea ne viene arricchita e formata (medicina, matematica, filosofia, e così via). La cultura occidentale è multietnica possiamo dire quasi da sempre. Scrivono Chambers e Cariello: “Assemblato materialmente attraverso processi storici e pratiche analitiche, il Mediterraneo è stato collocato nella cultura europea contemporanea in una combinazione di giudizi e geografie. Oggi è sospeso tra le presunte radici antiche in rovina e gli odierni svaghi di vacanze, mentre il recente arrivo di immigrati “illegali”, accompagnati dalle ombre delle migliaia di corpi che giacciono in fondo al mare, ha drammaticamente bucato questa immagine, spezzando la sua storia. Oggi, la complessità della formazione storica e culturale del Mediterraneo torna in tutta la sua forza. L’arrivo non autorizzato del migrante ha riaperto quell’archivio, stracciato la geografia che una volta lo aveva confinato in luoghi precisi – altrove, dall’altra parte, non in Europa – e ha esposto il Mediterraneo e l’Europa moderna a una serie di sguardi e voci inaspettati”. Il Mediterraneo non è per nulla eurocentrico e non solo romano e cristiano. Per molti secoli le culture occidentali e orientali si sono fuse molto strettamente.
Parmenide diceva che l’essere è e il non essere non è. Invece Platone nell’ultima fase della sua ricerca scoprì che l’essere e il non essere sono collegati. Il non essere indica una differenza rispetto all’essere da cui deriva. Il non essere è relativo all’essere. Una idea è (identità) ma al tempo stesso non è un’altra idea (alterità). La sua identità di essere una specifica idea nasce in relazione al non essere altre idee. Allo stesso modo una cultura non nasce pura, da sola, ma nasce collegata ad altre culture. L’identità italiana non è statica, non è nata pura, ma è nata assieme a molte altre identità, dalle quali si differenzia e allo stesso tempo prende alcuni elementi. La identità di una cultura è un concetto dinamico, in quanto si fonda su altre identità. Una cultura che non riconosce l’apporto di culture differenti finisce con l’essere deficitaria. Con la globalizzazione contemporanea si allentano i confini di una identità e si crea una società che sembra senza identità. Le strutture di plausibilità sono quelle strutture sociali che permettono che la nostra visione del mondo sia confermata dagli altri. Vale a dire che se il mio simile fa le stesse cose che faccio io, mi vedo confermato nella mia visione del mondo. Invece quando vedo degli stranieri che fanno altre cose, crollano le strutture di plausibilità e nasce la identità reattiva, cioè movimenti e ideologie razzisti che vanno contro lo straniero. Ma questi sono fenomeni estremi, che nascono dalla legge psicologica per la quale, dopo che la mente umana ha un dinamismo, poi ha bisogno di riposo, cioè di tornare in equilibrio. Ciò non toglie però che la identità di una cultura non può nascere isolata. Dagli ultimi due decenni è stata formalizzata la cosiddetta filosofia interculturale, mediante teorici quali Panikkar, Pasqualotto, Fornet-Betancourt, e altri. La filosofia interculturale trae fondamento epistemologico dal fatto che non ci sarebbe nessuna cultura superiore alle altre: ogni cultura trova in sé la propria ragione d’essere e quindi il proprio valore, senza considerazione di presunte superiorità o inferiorità. Allora il giusto approccio non sarebbe quello di estendere la propria cultura alle altre, bensì di dialogare insieme. È un discorso di relativismo culturale. Relativizzare la propria cultura non significa negarla ma approcciarci ad altre esperienze per arricchirla, estenderla e magari svilupparla. Le scoperte della nostra cultura sono valide all’interno dei suoi parametri, ma nel mondo ci sono altre culture con altri parametri dettati da millenni di altre esperienze che non possiamo giudicare con la nostra. Non è detto che siano superiori o inferiori alle nostre, ma sono passibili di essere integrate con le nostre. Facciamo questo esempio. In Bhutan esistono tre tipi di medicina: quella buddhista nei monasteri, una sorta di agopuntura adattata e quella occidentale scientifica con cliniche e ospedali. Questi tipi di arte medica non si escludono a vicenda e nessuna viene ritenuta superiore alle altre, ma ci sono malattie che vengono curate meglio entro un sistema basato su certe esperienze, una certa teoria e quindi in base a dei rimedi sviluppatasi entro quei riferimenti. Chi si cura dal monaco buddhista o dall’agopuntore non rinnega la medicina occidentale, ma è lo stesso curatore buddhista che indirizza dal medico occidentale se il rimedio con le erbe non funziona, o il medico occidentale non manda nessuno in ospedale se la malattia va vista entro un sistema olistico e quindi va trattata mediante un intervento tradizionale. Un detto in latino dice: Varietas delectat.
Ritornando a noi, gli studiosi evidenziano molti collegamenti tra popolazioni assai differenti anche per quanto riguarda la lingua. Pensiamo anche a 16 tavolette di argilla recentemente ritrovate frammentarie in un archivio di Babilonia e datate all’epoca ellenistica (I a. C.-I d. C). In quell’età (corrispondente all’ultimo periodo dell’età antica per i greci), Babilonia esiste ancora e durerà per altro tempo. Ogni tavoletta ha sul retto parole sumeriche e parole accadiche, e sul rovescio parole greche (l’analisi paleografica di quest’ultime conferma la datazione proposta per le tavolette). Quasi sempre si tratta di liste lessicali sumeriche traslitterate in accadico e quindi traslitterate in greco. Le tavolette sono state ritrovate in una edubba, termine sumerico per indicare le scuole babilonesi. Ci sono tre ipotesi circa l’origine di queste tavolette: sono redatte da scrittori greci che hanno intenzione di imparare il sumerico e l’accadico; oppure si tratta di un tentativo di scuola di trasferire il contenuto dei testi su altri supporti; oppure, ed è la ipotesi più credibile, formulata da Westenholz, queste tavolette sarebbero scritte da studenti all’inizio del percorso i quali devono imparare il sumerico e l’accadico. Si stanno formando nella tupsarrutu, “arte scribale”. E il greco come si giustifica? A Babilonia in età ellenistica non si parlava più il sumerico e l’accadico, ma l’aramaico e il greco, quindi, stando all’ultima ipotesi, il greco aiuterebbe gli studenti nell’imparare quelle antiche lingue. Perché le devono imparare? Le uniche ragioni sarebbero due: per diventare astronomi oppure per diventare figure sacerdotali per la antica liturgia mesopotamica. La liturgia babilonese prevede ancora il sumerico e l’accadico. La prima è una lingua isolata, la seconda è una lingua semitica. Per molto tempo, quando ancora si usava l’accadico nelle relazioni quotidiane, il sumerico smise di essere parlato e restò la lingua della liturgia tradizionale mesopotamica, un po’ come il latino nella liturgia cristiana del Medioevo, cioè quando nessuno la parlava più. Questi studenti dovrebbero essere babilonesi e appartenere alle più antiche famiglie babilonesi: questo perché dalle tavolette risultano tratti aramaizzanti e una particolare trascrizione vocalica dell’accadico in aramaico che fanno pensare una cosa: essi parlano una lingua semitica (e non il greco). Le testimonianze scritte dell’Oriente antico, soprattutto mesopotamico, quali portate alla luce dall’archeologia, sono di un’eccezionale varietà. Le tavolette cuneiformi ritrovate dovrebbero essere diverse centinaia di migliaia. Da queste testimonianze scritte (assieme alle epigrafi, ai nomi d’anno sui monumenti, e altro) e dai dati archeologici è possibile in qualche caso stimare una datazione assoluta di personaggi e avvenimenti. La datazione assoluta si basa principalmente su: eventi astronomici richiamati dalle fonti; personaggi storici che compaiono anche in fonti di altre civiltà; sincronismi di personaggi storici dell’area considerata. Di solito la datazione assoluta di uno studioso si differenzia da quella di un altro studioso solo per poche decine di anni. Oggi i primi sistemi di cronologia assoluta sono stati abbandonati: tra il 1936 e il 1939 il campo di studio è stato rivoluzionato introducendo tre grandi periodi oggi da tutti accettati per il Vicino Oriente antico, cioè una datazione alta, una datazione media e una datazione bassa. Circoscrivere i vari avvenimenti e i vari personaggi entro questi tre periodi è garanzia di datazione quasi certa.
La scrittura è un insieme di segni non naturali (artificiali). Tutti gli animali sono dotati di qualche forma di comunicazione (chimica, gestuale, orale-acustica), si tratta di un linguaggio naturale. Solo l’uomo però è capace di metalinguaggio (il linguaggio che esprime sé stesso, cioè ragioniamo sulla nostra forma di comunicazione, ad esempio scriviamo grammatiche o più semplicemente ci interroghiamo sulla facoltà di parola) e di autocoscienza (e non solo di coscienza: ci interroghiamo sul senso del nostro esistere e non sappiamo solo di esserci). Il metalinguaggio, facendoci conoscere la nostra modalità di comunicazione, è in grado di creare linguaggi artificiali, come la scrittura, che è per l’appunto convenzionale rispetto alla facoltà di parola orale. La parola orale e la scrittura sono linguaggi ordinari, invece il linguaggio scientifico (matematica, stechiometria, e così via) è un linguaggio formalizzato. La differenza sta nel fatto che è possibile per un linguaggio ordinario essere metalinguaggio di sé stesso (possiamo scrivere in italiano una grammatica della lingua italiana oppure scrivere in alfabeto latino un manuale dell’alfabeto latino), invece è impossibile per un linguaggio formale essere metalinguaggio di sé stesso (carattere necessariamente aperto dei linguaggi scientifici). La grande importanza della parola e della scrittura sta nel fatto che si possono registrare e tramandare le parole degli dei e l’esperienza accumulata dagli antenati. Per questo in tutte le culture dell’umanità la parola viene esaltata con toni molto solenni. Il misticismo della parola è un tema ricorrente in ogni paese del mondo.
L’inno al dio Enlil è tra i più belli della letteratura religiosa sumerica, e per il suo sviluppo, anche tra i più importanti. Esso si apre (posizione di rilievo) esaltando la parola di questa divinità suprema: “Enlil ha un verbo che giunge lontano ed è sublime, la sua parola è pura, non cambia mai, il verbo della sua bocca decide destini eterni …”. L’inno accadico al dio Nabu così recita: “La tua parola è come il cielo, immutabile”.
Flood scrive per l’India: “Secondo Bhartṛhari la grammatica è essenzialmente connessa con la natura dell’esistenza e, in ultima istanza, con la ricerca della liberazione. L’analisi del linguaggio non è più fine a se stessa o finalizzata a garantire la corretta trasmissione del Veda, ma si configura come un cammino, una porta che conduce alla liberazione e permette di affrancarsi dalla trasmigrazione: il brahman immortale può essere conosciuto per mezzo della purificazione della parola, ottenuto attraverso lo studio della grammatica. Lo studio e l’uso delle forme ‘corrette’ del linguaggio producono un’energia fausta e favorevole che allontana lo studente dalle inclinazioni impure (ovvero scorrette) della parola, conducendo verso il fine puro della visione dell’assoluto. Gli esseri umani si salvano attraverso il linguaggio, e più precisamente attraverso la comprensione precisa e profonda del linguaggio”. Ma ricordiamo anche le parole più realiste di Merleau-Ponty: “Anziché possedere il segreto dell’essere del mondo, il linguaggio è esso stesso un mondo, è esso stesso un essere, – un mondo e un essere alla seconda potenza, perché esso non parla a vuoto, perché esso parla dell’essere e del mondo, e raddoppia il loro enigma anziché farlo scomparire”. Quando non assistiamo al misticismo del linguaggio, assistiamo allo studio scientifico della parola: linguistica, filologia. Si tratta di campi di ricerca interessanti e all’ordine del giorno. Esistono circa 5.000 lingua diverse nel mondo. Le migliori menti si sono domandate l’origine del linguaggio verbale, i modi, se esista negli animali, fino agli argomenti più minuti ma non per questo meno interessanti. Perché il sanscrito oltre ad avere le consonanti dentali ha anche quelle cerebrali? Il sanscrito ha anche fonemi ṭ, ṭh, ḍ, ḍh, ṇ assieme alle dentali t, th, d, dh, n. Di solito le lingue hanno o le une o le altre: il toscano ha solo le dentali, mentre i dialetti meridionali hanno le cerebrali (beddu, cutieddu). Sono stati scritti svariati articoli per capire il perché di questa coesistenza in sanscrito, forse per influsso del sostrato preindoeuropeo (lingue dravidiche).
Le lingue, le scritture e i testi antichi sono pieni di curiosità che i linguisti e i filologi cercano in continuazione di spiegare. Facciamo questo esempio. In geroglifico egiziano, quella antica scrittura fatta a fumetti, se le figure sono rivolte a sinistra, bisogna leggere la parola da sinistra a destra; se guardano a destra, bisogna leggere da destra a sinistra. Questa regola generale trova una eccezione nel Libro dei Morti, dove le figure guardano sempre a destra anche quando si legge in altro modo. Gli antichi egiziani hanno il Nilo come punto di riferimento: il Nilo sgorga a sud e poi sfocia a nord nel mare. Per questo l’Alto Egitto è quello meridionale, mentre il Basso Egitto è quello settentrionale. Ora, se poniamo le spalle alle sorgenti del Nilo e guardiamo il Mediterraneo, come fa un egiziano antico, il sole sorge a sinistra, cioè verso occidente. In occidente vi è anche il Regno dei Morti. Quindi l’indicazione occidentale nella scrittura è di buon auspicio in un testo, come il Libro dei Morti, che tratta della vita dei trapassati. Perché la destra richiama l’occidente? Perché in egiziano antico la parola iaminat significa sia “destra” sia “occidente”. Il geroglifico si legge sia da destra a sinistra, sia da sinistra a destra, sia dall’alto in basso (dal basso in alto no, per esempio questa andatura ce l’ha il siriaco). Il geroglifico si scrive secondo un principio di armonia detto Quadro Grafico, per il quale i segni tendono ad essere posti come un quadrato: i primi due uno sopra l’altro, gli altri due a lato uno sopra l’altro. Se i segni sono tre e piccoli, i primi due uno sopra l’altro, il terzo a fianco e a metà (però dato che il geroglifico non ama la disarmonia, tende a eliminare questo terzo segno). Ci sono altre leggi che regolano la scrittura geroglifica. La Lista Gardiner raggruppa i segni geroglifici in categorie (divinità, parti del corpo, mammiferi, e così via), queste categorie hanno regole particolari per la scrittura geroglifica. Le lingue per quanto siano distanti tra di loro esprimono spesso procedimenti mentali simili. L’uomo è uomo in ogni parte del mondo. In egiziano antico il plurale maschile (che esce in –U) indica sia il plurale, sia l’astratto. Nefer significa “bello”, nefer-u indica sia “belli” sia “bellezza”. Un procedimento analogo è presente anche in italiano. La parola astratta costanza deriva dal sostantivo costante. In latino constantia indicava il plurale “cose costanti”. Nel passaggio in italiano questo plurale latino viene visto come un femminile, quindi nel vocabolario la costanza è di genere femminile. C’è anche un’altra coincidenza tra egiziano antico e lingue indoeuropee: gli aggettivi relativi. L’aggettivo “divino” è relativo al nome “dio”. Viene aggiunta la vocale I. Tiberius significa relativo a Tiber, cioè “figlio del Tevere”. Iulius significa relativo a Iulus, “figlio di Iulo”. In egiziano antico neter è “dio”, invece neter-y significa “divino”. Si aggiunge la stessa vocale. In egiziano antico ci sono aggettivi relativi anche da preposizioni. Per esempio la preposizione “a, verso” è N, l’aggettivo relativo corrispondente è N-Y, “appartenente a”. Facciamo un esempio: per ny neter, “casa appartenente al dio”, cioè “casa del dio”.
Oppure pensiamo a un altro collegamento tra egiziano antico e una lingua indoeuropea come il greco antico. In egiziano antico il suffisso –U può indicare un mestiere: per esempio heka significa “magia”, invece heka-U significa “mago”. Similmente in greco antico il suffisso –US indica una attività: se basileia significa “regno”, basileus significa “re” (cioè colui che si esercita, che compie, che fa il regno); ieros è “sacro”, ma iereus è “sacerdote” (colui che compie il sacro). L’egiziano antico viene considerato da molti una lingua isolata, cioè non imparentata con nessun altra, ma a volte nella frase il soggetto si comporta come in ebraico e in arabo, cioè viene dopo il verbo e prima dell’oggetto (ordine VSO). Iw=i her sedem, letteralmente è “sono (iw) io (i) sopra (her) ascoltare (sdm)”, cioè “io sto ascoltando”. Iw viene da alcuni accostato al verbo essere, per altri è un indicatore di enunciazione, che indica che la azione si sta svolgendo nel qui ed ora. Poi in egiziano antico gli aggettivi si coniugano. Gli aggettivi egiziani sono dei verbi, è il cosiddetto stativo o perfetto o compiuto, quindi quando gli aggettivi concordano con un sostantivo si coniugano. Nefer significa “bello”, ma in concordanza viene coniugato, per esempio iw bak nefer.w, “il servo (bak) è bello” oppure iw=i nefer.kw, “io sono bello”. Questa forma verbale detta perfetto ricorre in molte altre lingue, per esempio in accadico. W oppure kw sono le desinenze del perfetto, ce ne sono altre a seconda delle altre persone. Quando le desinenze del perfetto vengono utilizzate con un verbo, si forma il passato prossimo passivo o il passato remoto passivo, per esempio iw bak sdm.w, “il servo (bak) è stato udito (sdm.w)”, dove sdm è il verbo “udire” assieme alla desinenza w del perfetto terza persona singolare (stativo presente). Se si sostituisce iw con il verbo ausiliare wn, abbiamo lo stativo passato, per esempio wn bak sdm.w, “il servo era stato udito”. Invece per formare il passivo del presente si usa un pronome enclitico passivante, tw, per esempio sdm.tw bak, “si sente un servo”. Quando in un verbo si inserisce l’infisso N, si forma il passato (passato remoto o passato prossimo), per esempio sdm.n bak, “il servo ha udito”. Quando invece abbiamo un verbo senza infisso, si parla di funzione prospettiva, per cui il verbo in questione ha significato di presente indicativo, futuro indicativo o congiuntivo, per esempio sdm bak, “il servo ode”. Se inseriamo il suffisso T, formiamo un passato nelle subordinate. Se invece inseriamo in un verbo l’infisso W, facciamo un presente nelle subordinate (ma solo con valore modale o temporale). In un brano dei Testi delle Piramidi è scritto: kes enef tawy ny kesw tawy en heru, “possano inchinarsi (kes) le Due Terre (tawy, cioè l’Egitto, formato da Alto e Basso Egitto) a lui (enef) come (ny) le Due Terre (tawy) si inchinano (kesw) a Horus (en heru)”.
Il verbo alla forma detta iterativo (che compare nelle subordinate) si distingue dal verbo prospettivo solo nelle forme che terminano con due consonanti: a differenza del verbo prospettivo, l’iterativo mantiene le due consonanti. Invece, sempre a differenza del prospettivo, nei verbi che terminano con J, l’iterativo raddoppia la consonante che precede J: per esempio il verbo mrj diventa mrr=f, “ogni volta che egli ama”. Il verbo alla forma detta aoristo indica delle abitudini. Nei verbi forti non si distingue dal verbo prospettivo. Nei verbi con due consonanti ripetute (a seconda geminata), queste due consonanti si mantengono. Questa forma detta aoristo richiede l’uso delle particelle temporali. In geroglifico egiziano le corna (wp) rientrano nella parola “fronte” (wpet) e nel verbo wpj, “aprire”. Questo verbo si scrive anche con il determinativo della croce, il quale indica una rottura, quindi in egiziano antico l’idea dell’apertura viene indicata dall’idea di rompere la fronte. È una idea singolare che deriva dall’ambiente pastorale di millenni fa. Il verbo mesj, “generare, partorire”, viene espresso dal geroglifico delle tre code di volpe intrecciate (mes). Il nome completo del faraone Ramesse è Ra-ms-sw, che significa “il dio Ra che genera (ms) lui (sw)”. Di solito il verbo irj indica il l’azione del generare da parte del padre, invece il verbo mesj il partorire da parte della madre
Sempre dal lessico concreto, questa volta del corpo, deriva il geroglifico di un altro verbo egiziano importante, pḤ, “raggiungere”. Il segno pḤ indica una schiena di un leone con le natiche e la coda (pḤ.wt significa “natiche”, è un duale): il leone viene raffigurato così per indicare l’idea del movimento, infatti il determinativo di questo verbo è costituito da due gambe di uomo che camminano. Questo determinativo compare negli altri verbi che indicano movimento, come il verbo egiziano gemj, “trovare”: per trovare qualcosa bisogna prima muoversi per cercare, come in italiano “cercare”, che deriva dal latino circa, “attorno”, per cercare bisogna spostarsi per cercare attorno a sé. Shw.t significa “piuma” e forma il verbo shwj, “essere leggero” ma che, con il determinativo del passero, significa “essere vuoto”. Il passero usato come determinativo determina molti significati di piccolezza e negatività perché in una società agricola è terribile: becca le sementi! Invece la grandezza è espressa dalla rondine: wr significa “rondine”, uccello che rientra nel geroglifico del verbo wrer, “essere grande”.
Invece l’idea del limite è rappresentata in geroglifico da un fascio di vegetali stretti da una corda: jer. Quando il verbo “delimitare” è transitivo, è accompagnato dal determinativo del braccio che impugna un bastone ricurvo, idea della forza che determina una azione, che viene usato anche con i verbi della violenza. Jw significa “montagna” e rientra nel geroglifico del verbo jwj, “essere malvagio”: sulle montagne avvenivano gli avvistamenti delle divinità e degli spiriti, che potevano essere anche malvagi. Invece la collina da cui sorge il sole, ḥch, forma il verbo “apparire”, che rientra spesso nei titoli dei faraoni. La donna, ḥmet, si forma con il geroglifico del pozzo pieno d’acqua: la psicoanalisi dimostra che l’idea della femminilità è inconsciamente collegata a quella dell’acqua. Infatti nella cultura egiziana il loto indica mitologicamente l’affiorare della vita dal caos primordiale: questo perché il loto emerge dalle paludi, quindi è stato visto come la vita che nasce dal liquido amniotico del grembo materno. Il loto è una immagine presente in molte culture in quanto esse si stanziano spesso in zone paludose, come osservava Plinio: se le popolazioni riescono a prosciugare la palude, ne esce terra fertile adatta all’agricoltura. Pensiamo alla Mesopotamia o anche alle terre egiziane irrigate dal Nilo: una volta all’anno il Nilo esondava e si creavano delle paludi lungo il suo corso, mentre nella zona del Delta del Nilo la palude restava tutto l’anno. Invece il pilastro, ra, evoca l’idea della grandezza, compare nella espressione neter ra, “dio grande”, epiteto spesso usato per Osiride o per il sovrano. Una mazza per uccidere, ḥej, forma il geroglifico del verbo “biancheggiare”, che nella espressione ḥej ta, letteralmente “bianca terra”, indica “albeggiare” in quanto il nuovo giorno era visto come la vittoria militare del Sole sul Nulla rappresentato dalle tenebre della notte. Invece la punta di freccia, sen, quando viene usata da sola indica non “freccia” ma “fratello”: questo perché la radice della parola egiziana sen significa “due”, e indica allora sia le due lame della freccia sia il fratello (visto come doppio di una persona). Lo scarabeo sacro, keperer, rientra nel geroglifico del verbo “esistere” e “diventare”: keper. Invece un coniglio rientra nel verbo “essere”, wnn, così come nel verbo “mangiare”, wnm (nei testi più antichi, in seguito ci sarà il bilittero jm). Nel verbo “bere”, zwrj, compare la rondine, assieme al determinativo dell’acqua: tre onde una sopra l’altra. Il verbo “sentire”, sdm, si scrive in geroglifico con l’orecchio di un bovino e si usa anche come verbo paradigma nelle grammatiche perché è molto regolare.
Gli egiziani amavano giocare con una scacchiera detta senet, il cui geroglifico forma la parola egiziana men, che indica anche il verbo “essere stabile”. Come a dire che la stabilità del mondo è garantita da quelle divinità che lo tengono in mano come un uomo tiene in mano le pedine di una scacchiera. Chi sostiene la teoria del nostratico, cioè la parentela tra le lingue indoeuropee e quelle afroasiatiche, come l’egiziano (secondo certi studiosi), ritiene che questa radice si ritrovi anche nel latino moneo, “rimango”, e nell’Amen che si dice alla fine delle preghiere: Amen dovrebbe essere per alcuni un aggettivo ebraico che significa “stabile”, ma ci sono altre etimologie. C’è un’altra possibile identità o coincidenza tra le lingue indoeuropee e l’egiziano antico. La preposizione egiziana henet significa “avanti” e somiglia straordinariamente al greco antì e al latino ante, che hanno lo stesso significato e che nella fase indoeuropea dovevano avere una H all’inizio, come in egiziano, infatti nella fase dell’ittita (la lingua indoeuropea più antica) la preposizione era hant. Ma c’è anche una coincidenza nella coincidenza. Il geroglifico della preposizione egiziana henet è tre brocche d’acqua con un tappo sopra: anticamente si otturava un vaso mettendovi un tappo con della pece. E la parola italiana “otturare” deriva dal latino tus, turis, che significava all’inizio “pece” (poi passò a significare “incenso”). Ma non c’è due senza tre! Riferiamo quindi un altro possibile collegamento. Il latino esprimeva lo strumentale con l’ablativo semplice, invece l’italiano usa “con” (“aro il campo con l’aratro”, cioè con lo strumento dell’aratro). C’è un solo caso in italiano dove lo strumento è fatto con la preposizione “in”: quando diciamo “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” vogliamo dire che, facendo il segno della croce, benediciamo noi stessi mediante la grazia del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Questa formula deriva da quella latina “In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti”. Il latino classico non usava la preposizione in per indicare lo strumentale, ma si inizia a usare nel latino cristiano. Perché? Ci sono varie ipotesi. Forse per imitazione della preposizione greca en, che ha sia valore strumentale sia locativo (in). Oppure per imitazione delle lingue afroasiatiche: sia in egiziano sia in altre lingue afroasiatiche, come l’ebraico, c’è una preposizione che indica sia lo strumentale sia il locativo.
La vita è rappresentata in geroglifico da una croce ansata, è la parola ankh, “vita” per l’appunto. Ciò che sembra una croce è in realtà la suola di un sandalo. Perché ha iniziato a indicare la vita? Perché nella fase precedente il medio egiziano (considerato l’egiziano classico) la radice nella parola ankwi indicava l’orecchio, e anche tutte le forme a nocciolina, come il sandalo. Per indicare il bere gli egiziani avevano una espressione molto particolare: bere “nello spirito tuo”, en ka.k. L’espressione egiziana “bere nello spirito tuo” corrisponde alla nostra “bere alla tua salute”. Invece la figliolanza è indicata dal geroglifico di una papera, pronunciato ZA, “figlio” oppure ZA.T, “figlia”. In realtà oggi sappiamo, grazie a traslitterazioni assire, che la vocale egiziana doveva essere I: cioè ZI oppure ZI.T. Il geroglifico egiziano ha delle parole formate da alcune consonanti che si pronunciavano ma non venivano scritte. Per esempio, la parola “bocca”, pronunciata RA, è indicata con il segno che si pronuncia r ma senza la consonante indicata in traslitterazione con il segno a (detta Aleph). Ipotizziamo che ci doveva essere anche la consonante a in quanto in copto, l’ultima fase dell’egiziano antico, scritto non più in geroglifico ma in un alfabeto, la parola “bocca” è RO. Per determinate ragioni fonetiche, i linguisti dimostrano che questa pronuncia deve prodursi per via di una consonante Aleph che poi in copto è caduta, ma doveva essere presente nella fasi precedenti della lingua egiziana. Gli studiosi dimostrano che le consonanti in geroglifico egiziano che qualche volta non sono scritte nelle parole (ma erano pronunciate) sono tre: Aleph, Jod, Ain. Certamente le varie culture non esprimono sempre le stesse idee, anche se hanno alcuni denominatori comuni relativi a certi aspetti. Dio è uno solo, ma viene coniugato in modo diversi da nazione a nazione con tradizioni locali molto affascinanti. Così la parola. Il folclore e la storia di un popolo colorano i grandi temi dell’umanità di tinte molto particolari.
Oggi nei paesi occidentali si sta assistendo a un incremento sempre maggiore della conoscenza dei paesi dell’Estremo Oriente, pensiamo alla Cina, ma anche alla Corea. La Corea è la terra del Calmo Mattino, politicamente divisa in due stati ma dalla cultura fondamentalmente unitaria. Ogni suo fenomeno religioso proviene dall’esterno, come lo sciamanesimo, legato al culto degli antenati e all’utilizzo delle energie cosmiche: lo sciamanesimo coreano affonda le proprie radici in quello dell’Asia Centrale e Nordorientale, per esempio quei popoli avevano un feticcio costituito da un palo con sopra l’effige di un uccello, molto simile ai sottae coreani, utilizzati sin dall’antichità per i riti agli spiriti e al Cielo. Lo sciamanesimo coreano è molto caratteristico e intriso di tradizioni assai interessanti e pittoresche. Le pratiche sciamaniche coreane si concentrato sul kut, una vasta gamma di rituali per richiamare gli spiriti e usarli per gli scopi che lo sciamano si prefigge. In Oriente l’immagine del mondo produce l’immagine dell’uomo: nell’uomo vi è il prāṇa, che è un afflato che proviene dall’universo, simile al qi cinese. Invece in Occidente l’immagine dell’uomo produce l’immagine del mondo: per Plotino il mondo è un organismo vivente con un’anima simile a quella dell’uomo.Sin dall’antichità l’uomo occidentale pensa alla Tecnica e a come manipolare il mondo. Quindi in Occidente l’uomo vede il mondo come qualcosa da afferrare, è dominato dal desiderio, che quindi non ne avrà mai abbastanza, come l’immagine usata da Socrate (Gorgia 492) : la vita è come una botte bucata, che scorre sempre e bisogna in continuazione versare per riempire una mancanza impossibile da colmare. Invece gli orientali tendono ad avere un pensiero olistico, secondo il quale il Cielo e la Terra sono una cosa sola, quindi è inutile affannarsi per desiderare e dominare, tanto tutto ciò che si può desiderare è già qui. Il pensiero orientale è fortemente sincretistico, mentre quello occidentale tende spesso ad essere lineare e monocorde. Per esempio, in Occidente le scuole di guerra facevano pressappoco solo l’addestramento alla battaglia, come avviene oggi nelle accademie militari, invece in Corea c’era il Hwarangdo, una istituzione classica per aristocratici per addestrarli al combattimento ma anche al canto, alla danza e alla religione. In Giappone i buke (che erano i guerrieri istituzionali, come i samurai) e i ninja (che erano guerrieri non convenzionali, diremmo oggi guerriglieri o spie) subivano un addestramento anche relativamente a tutti gli aspetti della vita del tempo. I buke erano indottrinati per esempio relativamente ai classici cinesi (myokyo), alla calligrafia (shodo), alla musica (gagaku) o alla divinazione (in-yo), e così via. Nel ninjutsu l’insegnamento delle arti culturali tradizionali era detto yu gei, mentre l’educazione pratica per tutte le circostanze della vita era detta kyo mon.
L’uomo occidentale è periphrōn, come cantava già Omero (Iliade V, 412), che letteralmente vuol dire: essere dotato di una mente che ragiona intorno alle cose. Questa è la base dello sviluppo del pensiero razionale e della scienza, nonché di tecniche sofisticatissime che hanno addirittura portato la nostra specie sulla Luna. Invece l’uomo orientale manifesta in sé il principio acausale del reale, l’uomo orientale è intriso di divino, in poche parole pensa più al cielo che alla terra. Anche l’uomo occidentale è pervaso di divino, ma mentre nell’uomo orientale le divinità caratterizzano coscienza e inconscio, nell’uomo dei nostri paesi sono relegate nell’inconscio. Questo perché, a detta di Weber, il capitalismo ha creato il disincanto del mondo, ciò che ha portato all’ateismo di massa nelle nostre città. Come diceva Jung, gli dei allora sono diventati malattie: la sfera divina, espulsa dalla coscienza, ha prodotto nell’uomo occidentale un rafforzamento della sua azione nella sfera incosciente, procurando quindi malattie. Pensiamo alla rabbia. Essa ha certamente una spiegazione razionale: la rabbia nasce quando ci succede qualcosa che non vogliamo che succeda, per esempio un tizio ci taglia la strada con l’automobile, allora scatta l’atto di rabbia. Invece i continui e intensissimi scatti d’ira hanno un’altra spiegazione: sono segno di un malessere molto profondo. Chi si adira facilmente e perde a volte il controllo, non si riduce così per un motivo oggettivo, ma per la interpretazione che vi dà, come una sciocchezza che però fa andare su tutte le furie. Tale interpretazione esagerata di ciò che accade avviene perché il collerico associa il proprio malessere alla sciocchezza che avviene nella realtà. Un marito o una moglie che non sente l’amore del partner, inizia a urlare per una semplice disattenzione perché in essa vi vede il proprio dramma interiore. Ma, oltre a queste spiegazioni, ci sono anche motivazioni inconsce che spiegano l’ira della gente. Gli dei, scacciati dal mondo visibile, ritornano in quello dei sotterranei della mente creando malessere. In questo senso la psicologia analitica e la psicologia archetipica interpretano il malessere della nostra società occidentale, che spesse volte è rabbioso, anche verso sé stessi con il suicidio.
Nel mondo occidentale c’è un’enorme sofferenza morale, infatti il tasso di suicidi è più alto che nel resto del mondo e nei fiumi europei vi sono alte dosi di farmaci antidepressivi. È vero che alla vita si associa il dolore, quindi tutte le persone della terra soffrono. È significativo che il verbo greco paschein significava all’origine anche “accadere” in senso neutro. Ma dato che ciò che ci piomba addosso senza essere voluto è spesso un fatto negativo, il verbo ha iniziato a significare soprattutto “soffrire”. L’uomo europeo ha molti rimedi farmacologici per eliminare il dolore fisico, mentre nei paesi poveri questi farmaci sono rari. Ma l’uomo occidentale, a quanto pare, soffre soprattutto nella mente e nello spirito. Un mondo vuoto, nichilista, senza valori di qualsiasi tipo (morali, civili, religiosi) rende le persone dei cadaveri ambulanti o peggio degli animali sofferenti, sazi ma disperati. Il pensiero laico vede nel mondo una serie continua di lotte e prevaricazioni, un po’ come detto da Zambrano, per la quale la storia per rinascere ed evolversi ha bisogno del sacrificio degli umili, dei reietti, dei muti. Invece chi ha una visione religiosa della vita si considera specchio o immagine di un mondo non di questa terra, come quanto rivelato da Paolo (2 Corinzi 3,3): i cristiani sono scritti da Dio mediante l’insegnamento apostolico non su pietra ma “su tavole che sono i cuori umani”, nell’originale greco suona en plaxin kardiais sarkinais. Per questo i testi sacri o iniziatici sono oscuri. Essi contengono già su questa terra una rivelazione non di questo mondo. Per questo Eraclito era detto l’Oscuro. Pensiamo anche al Gorakh Bani, un poema sapienziale indù di epoca medioevale attribuito a Gorakhnath: esso sfida la logica razionale ed è anche oltre l’intuizione, è misterioso, enigmatico, come a dire che quando l’iniziato prende la parola non può essere compreso dai più.
Gli scritti religiosi, occidentali e orientali, hanno la caratteristica quindi di parlare di cose che l’uomo laico e moderno capisce male. Gli autori affermano di avere rapporti diretti con il sacro e il suo mondo, di adoperare le energie, di fare miracoli e dirigere gli avvenimenti con la magia, di richiamare gli spiriti. Linguaggio simbolico? Verità? Sin dall’antichità le religioni praticano sacrifici di esseri viventi, anche umani. Nella Messa cattolica è Cristo che si offre vittima nel pane spezzato sull’altare. È ancora oggetto di discussione se il popolo ebraico abbiamo mai praticato sacrifici umani. Per molti i riferimenti nella Bibbia costituirebbero un linguaggio simbolico? È nota la tesi dell’insigne semitista Garbini in merito. Nella Bibbia compare il dio cananeo Molok, al quale erano offerti in sacrificio bambini. Garbini ipotizza che la parola tradotta con Molok non sia la resa esatta. In ebraico abbiamo la parola molek, traslitterato dai greci con Molok e inteso come un nome proprio, il nome di questa divinità, che però per Garbini non esisterebbe. Secondo Garbini la parola ebraica molek deriverebbe da quella fenicia molk, che è il participio causativo passivo del verbo “mandare in alto”. Quindi la parola fenicia molk indicherebbe la vittima del sacrificio (qualcosa che è fatta mandare in alto, cioè bruciata sull’altare, e i cui fumi erano assorbiti dagli dei) e quindi il sacrificio stesso. Allora il termine ebraico molek non indicherebbe per Garbini il dio Molok ma l’atto cruento del sacrificio. In questo senso Garbini interpreta alcuni brani della Bibbia, come 2Re 23, 10. La traduzione italiana della chiesa cattolica che risente della interpretazione greca traduce: … facevano passare i figli per essere uccisi in onore di Molok. Invece Garbini, intendendo Molok non come il nome di un dio straniero ma come l’atto del sacrificio, traduce: … facevano passare i figli per essere uccisi nel sacrificio. Ora, Garbini si chiede: se i figli non sono uccisi per la divinità straniera Molok, sono uccisi per essere sacrificati a quale dio? Egli conclude che è il dio biblico, che come testimonia Numeri 28 era placato (lui e i suoi angeli) dal fuoco dei sacrifici. Garbini quindi ipotizza che all’inizio il culto ebraico era un culto violento, come i culti cananei, quelli vicini a Israele: esso poi sarebbe stato coperto con piccoli espedienti tra cui l’invenzione del dio straniero Molok. Si tratta semplicemente di una ipotesi filologica. Oggi gli studiosi non credono che gli ebrei abbiano mai praticato sacrifici umani per la semplice ragione che non è attestato da fonti storiche attendibili. Nella Genesi, dopo il peccato originale, si fa largo il problema della violenza: Caino e Abele, Lamech, l’imperialismo di Babele, e così via. La Bibbia è uno specchio dell’umano: la Bibbia riflette la vita dell’uomo, la Bibbia non è un trattato teologico, ma il racconto dell’uomo, con le sue miserie, che incontra Dio. La Bibbia, riflettendo l’umano, riflette anche il peccato e i meccanismi distorti nella vita relazionale dell’uomo. Ma la Bibbia spesso non fa la apologia della violenza, la descrive e poi ne indica una soluzione facendo appello a Dio. L’autore biblico non esalta caino, ma lo considera riprovevole. Inoltre, non bisogna correre il rischio di interpretare sempre i passi violenti della Bibbia come reali. La Bibbia usa un linguaggio simbolico per esaltare la forza di Dio. Nella Bibbia compaiono altri riferimenti ai sacrifici umani che sembrano essere ordinati dal dio biblico, ma gli esegeti oggi li intendono come la esaltazione della sua supremazia sulle forze del male e sugli uomini malvagi. Millenni prima si parlava un linguaggio diverso dal nostro. Per esempio anticamente la Bibbia e i greci intendevano il cielo come una calotta che nasconde Dio e il mondo degli spiriti. Ezechiele all’inizio del suo scritto riferisce che i cieli si aprono e che vede Dio. Gli studiosi oggi non interpretano letteralmente la scena, simile a una scena di Platone.
Il cielo non si è mai aperto né a Ezechiele né a Platone: infatti i due autori riferiscono di vedere cose diverse. È che i due autori del passato usano un linguaggio simbolico per esprimere la conoscenza superiore di cui essi sarebbero dotati. Lo stesso linguaggio simbolico è usato dagli apocalittici tra la fine del I millennio e l’inizio dell’era cristiana: anche loro riferivano di vedere il futuro osservando le visioni celesti. La concezione del tempo era che il tempo della divinità è un tempo onnipresente, quindi vedendo ciò che sta oltre il cielo è possibile vedere tutto il tempo insieme, anche quello futuro. Ma gli apocalittici riferiscono cose diverse, quindi non sono visioni reali, ma un modo simbolico di esprimere una loro presunta conoscenza iniziatica del futuro. In terzo luogo, bisogna aggiungere che la mentalità semitica antica è unitaria e simbolica, attribuisce tutto a Dio, è lui che ordina stragi e omicidi, mentre in realtà c’è di mezzo il piano umano ma che l’autore biblico di millenni prima non considera.
Bibliografia di riferimento:
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- W. von Soden, Introduzione all’orientalistica antica, Brescia 1989.
Nota:
[1] Oggi gli egittologi ricostruiscono quali dovevano essere le vocali dell’egiziano antico grazie al confronto con il copto (l’ultima fase dell’egiziano antico che ha un alfabeto che segna anche le vocali), oppure se una parola egiziana è entrata in altra lingua con segnalazione delle vocali oppure grazie al confronto con la stessa radice che compare in lingue affini. Se non si riesce a capire l’esatta vocalizzazione, convenzionalmente si inserisce una vocale neutra (che varia da egittologi di paese in paese): in Europa questa vocale neutra convenzionale è la E, che gli studiosi adottano, sempre per convenzione, anche in altre lingue ormai morte che segnavano solo le consonanti, per esempio il fenicio o il sudarabico.
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 39 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.