Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
Oscar Vladislas de Lubicz Milosz: il Fulcanelli della poesia – Stefano Eugenio Bona
Il est doux, il est sage, il est bien
De n’etre plus, de n’etre plus rien.
(Danse macabre)
I Parte
Il crinale tra poesia ed esoterismo ha riservato alcune tra le sorprese più clamorose e acclarate, partendo anche dalle Tre Corone della poesia italiana tra fine Ottocento ed inizio Novecento, ovvero Pascoli-Carducci-D’Annunzio: sappiamo bene i rimandi, molti già alla luce, altri ancora da sviscerare. Se ci portiamo indietro, in contemporanea ed innanzi a loro, ci imbatteremo in una commistione di cui è pregna anche la grande poesia europea, americana, sudamericana nel novero dei Byron, Goethe, Yeats, Pessoa, Eliot, Borges, Nerval, come degli Onofri e dei Comi per rimanere in Italia, in misura minore dei Dylan Thomas; fino ad arrivare ad un Crowley, poco noto in Italia per questa veste, ma è lui stesso, nei suoi scritti, a sottolineare di sentirsi prima di tutto poeta (1). Come dimenticare poi Bulwer-Lytton e Balzac, tra gli altri. E allora veniamo all’accezione da adottare per questo nugolo, in parte sottostimato dalla critica proprio per questo aspetto, a meno che non si impongano fattori contingenti atti ad elevarli agli occhi di tutti, ovvero che divengano sì famosi, ma per altro. Eccezion fatta per un Meyrink: fu proprio Der Golem a vendere in aerea mitteleuropea, come niente altro, nel primo dopoguerra. Al di là della modalità in cui si vive la poesia, nei cosiddetti “poeti esoterici” o anche (ma cambia e di molto la prospettiva) nei cosiddetti “poeti metafisici”, il Carme è alla sua radice, poiché si compie quel salto indispensabile, quel riscoprire le fonti del Linguaggio nel Tempio comune, si opera nel mistero del santuario del Logos, velo e nitore al contempo. Quindi è per noi impossibile disgiungere il valore assegnato da Novalis: “Il mago è un poeta. Il profeta sta al mago come l’uomo di gusto al poeta” (2). Ripreso a chiare lettere da Kremmerz, sempre per tornare sopra ad un significato originario della questione: “La fonte di ogni poesia è il gran libro della Natura: Poeta, vate, è colui che sta a contatto coi numi, i vecchi numi” (3).
Oscar Vladislas de Lubicz Milosz appartiene a questa schiera ed è forse il meno conosciuto in Italia, tranne che da certi addetti ai lavori…Il de Lubicz campeggia e collega immediatamente la mente alla coppia delle “meraviglie”, alchemica rarità tesa al Rebis : René ed Isha Schwaller de Lubicz. Se ci si chiede altro, oltre la parentela si scopre tutto un corollario di esperienze, inevitabilmente confluite in stille poetiche, seppur opportunamente diluite. Sull’altra parte del cognome invece, notorietà piena: il poeta premio Nobel Czesław Miłosz, dal ramo polacco della famiglia, scomparso pochi anni or sono, fu suo cugino alla lontana. Quello che viene additato come il possibile Fulcanelli (se non è lui, è l’humus da cui proviene a produrlo, consociativamente: a riguardo si parla inoltre di Jean Julien Champagne, Camille Flammarion, Pierre Dujols e Jules Violle, inoltre Eugène Canseliet se ne dichiarò discepolo) incontra Milosz nel 1916 a Parigi, in occasione di una conferenza tenuta proprio da Schwaller presso la Società Teosofica. Mentre sarà nel 1919 (10 gennaio), che René ricevette da Milosz il nome de Lubicz Bozawola (in riconoscenza del sostegno dato al poeta nella lotta per l’indipendenza degli stati baltici), con investitura cavalleresca, dopo una notte in digiuno e meditazione. Sempre in quell’anno, Milosz, Carlos Larronde (poeta, drammaturgo e giornalista), René Bruyez (pittore, scultore, poeta, giornalista e autore di teatro), Gaston Revel e i pittori Elmiro Celli e Luis de la Rocha fondano un gruppo denominato Centre Apostolique, dal motto “Gerarchia, Fraternità, Libertà”…Gli statuti del centro si propongono “di preparare le coscienze alla necessità della prossima manifestazione del principio della nuova vita” e “di estendere alla società umana il principio della gerarchia naturale, ossia quello della selezione secondo la qualità”. Il gruppo si riunisce inizialmente in un appartamento di proprietà di Georges Lamy (il primo marito di Isha) situato al 5 di rue Schoelcher. Questo Centre Apostolique ha un mezzo di diffusione: il giornale L’Affranchi, sul quale, dal Natale 1918, i componenti scrivono assumendo la denominazione di Fratelli d’Elia. Sempre in quegli anni il Centre Apostolique si fonde con un gruppo più interno, il Gruppo Mistico Tala (il Legame), guidato da Schwaller. Così si opera una sintesi ulteriore: quella dei Veilleurs, nome che Guénon farà notare come si ispiri agli Egregoroi del libro di Enoch.
I Veglianti sono diretti da René Schwaller (Aor), Jeanne le Veilleur (Isha), Jacques le Veilleur (Carlos Larronde), Milosz e Allainguillaume, un ricco mercante di carbone. Gruppo particolarmente criptico, pochissimo si sa, tranne che possedettero un calendario, principiante al primo grado di Ariete (20 marzo), e una scrittura iniziatica, composta dai caratteri sacri di Onorio di Tebe (riportati da Pietro d’Abano e da Cornelio Agrippa nel capitolo XXIX della Filosofia Occulta). Sicuramente Milosz ha apportato lui stesso un profondo anelito palingenetico attraverso le potestà dei glifi e dei segni, rimanendo segnato da quegli anni, e nonostante si allontani da certe esperienze, la sua poesia diviene sempre più una mappatura arcana (Poème des Arcanes è del 1926, verso la fine), ove sotto il linguaggio si legge un fil rouge incomparabile. Per parlare di certi ambiti si diviene la cosa stessa e non la si romanza. Quantomeno la si esperisce attivamente. Le vive fonti del linguaggio nella loro forza e nella loro problematicità applicate al mondo moderno, sono davvero il cuore di quel crinale tra poesia ed esoterismo che ci premuriamo di approfondire.
Come spesso capita agli ambienti ove si scatenano troppe “pile cariche”, il gruppo ebbe vita breve e già nel 1921 si sfalda, per una contrapposizone tra la corrente cristiana (Milosz e Alvart, alchimista e astrologo) e gli Schwaller-de Lubicz, principalmente. Fratture fisiologiche, come quella tra la corrente massonica di Ur (Reghini-Parise) ed Evola o come tra Evola e i cristiani antroposofi. Eppure tra Schwaller e Milosz il rispetto non venne mai meno, nell’identico solco Evola-Onofri (le lettere (4) testimoniano un dissapore anticristiano e antisteineriano di Evola, ma Onofri fu l’unico poeta a cui riconobbe una potestà). Lebois e Rousselot nelle loro biografie su Milosz, riportano il fatto che il poeta, anche alla fine della sua vita, non volle parlare mai dei Veilleurs. Tutti atteggiamenti che aiutano a circonfondere di mito quell’ambiente, ma chissà che non si possa far emergere qualche elemento, in futuro.
In mezzo alla sua biografia c’è un punto nodale, una notte dell’anima come la Nuit de Gênes per Valéry, ma in chiave illuminativa, non di smarrimento (all’altro grande poeta-filosofo la crisi genovese suggerì una lunga diaspora dalla poesia, ritenuta vaso inadatto a ricevere i contenuti mentali che andava preparando, segno di crisi nervosa e disarmonia, seppur comprensibile sotto molti lati): è il 14 dicembre 1914 quando sente il respiro dell’Assoluto, la certezza del proprio cammino, il benvenuto nei portali dello Spirito. Tale data funge proprio da spartiacque, anche per la critica, tra il primo periodo simbolista e quello da ricercatore degli Arcani puri. Questo episodio lo mise in una ricerca e in una pratica forsennata, fino ad una volontaria adesione cristica, al centro radiante del cuore. Nell’opera collettanea ‘In Luce del Graal’, Georges Buraud suggerisce un parallelo, accomunando Milosz a quei portatori di un cristianesimo reazionario (Bloy) o a quei rosacroce (Péladan) dalle cui spire uscirono i petali necessari al suo rotare un centro di poesia; e poi ancora all’appassionato Péguy: Quattro poeti-pensatori, mi sembrano aver suggerito nella loro opera, all’inizio della nostra epoca, un’immagine, intensa e splendente, seppur non sempre completa, della Ricerca del Graal (5).
La poesia esprime il giubilo dell’anima nel recare in palmo il calice d’oro, via quindi a sfolgoranti trasfigurazioni preraffaellite, con la Damsel of the Sanct Grael di Rossetti vegliante Musa, in una “cerca” (del Graal) che ha davvero molti punti di contatto con quella di Onofri (il valore mantrico e giornaliero del continuum poetico, in primis): Milosz, il grande errabondo di tutte le avventure del dubbio, della carne, dell’esoterismo e della fede, questo puro cavaliere cristiano non è stato ancora compreso e tante cose ha da dire agli uomini. Gran signore europeo, alchimista del pensiero, fratello di Paracelso, di Goethe e di tutti i “nobili viandanti”, fece della sua esistenza una “Cerca”. Nella sua opera filosofica si può scoprire, ritengo, la più vasta e pura esposizione di una metafisica del Graal, cioè di una cosmogenesi e di una poetica del Sangue Universale. Lunga, fervente, dolorosa fu la “Cerca” di Milosz! Dal mondo dei sogni ove, infante, errò nell’ancestrale patria lituana, alla lacerante iniziazione amorosa, fino alle rivelazioni mistiche dell’età matura ed alla raccolta ardente che fece delle verità ricevute per offrirle in seguito, in ginocchio, al Dio dei forti e degli umili, egli seguì la sua strada, aiutato dai compagni, i Maestri, attraverso la foresta in penombra della realtà (questa realtà alla quale poco credeva questo diplomatico gran signore) non avendo altro conforto che il pane della poesia…Tutto è stato per lui elemento per le combinazioni ardenti e sublimi della sua ricerca. Quest’uomo dal cuore debordante di collera, d’ironia e della più profonda e delicata compassione, questo amico dei diseredati, questo amante degli uccelli si è servito per la Grande Opera della sua vita, come un alchimista, della donna, dell’acqua, degli animali, della preghiera, della sofferenza; egli ha preso, corpo a corpo e cuore a cuore, l’enigma femminile, lottando con esso e narrandoci questa conquista nel mirabile racconto della Amoureuse Initiation. In essa ci rivela tutte le fasi della ricerca amorosa, quella che Baudelaire aveva dal canto suo tentata con una volontà meno inflessibile e con un meno felice destino. Per Milosz la donna è quell’Athanor sessuale di cui parlerà Péladan; sembra che la passione furiosa del suo eroe sia là soprattutto per irraggiare il calore ingenuo e misterioso e per renderlo trasparente al suo sguardo profondo (6).
‘L’Amoureuse Initiation’ (romanzo ambientato nella Venezia del XVIII secolo, 1910) è uno sguardo d’amore persino panico. Tra le pagine, Georges Buraud riporta un de Lubicz pronto a bere la vita fino alla feccia. Omnia munda mundis. All’estremo: Mi successe di udire, nel mezzo dei gemiti della sua lussuria, il Nome supremo, il balbettio dell’Assoluto. In un punto qualsiasi dell’esistente, quel che ode il cavaliere è vibrazione e certezza originaria.Il Nome può pure rimanere non pronunciato. Ma È. Per comprendere il Milosz cristico, bastino le parole di Isha (che potrebbero essere tuttavia ulteriormente precisate): I Saggi egizi chiamavano quest’opera sovrumana l’opera solare, o horusiana. I loro eredi cristiani l’hanno chiamata la via del Cristo, e si può dire che ogni uomo che incarna progressivamente la sua Entità immortale è della razza cristica, e partecipa allo sviluppo del Principio cristico nell’Umanità terrestre (8).
La redenzione che andò cercando Milosz è il mistero conosciuto in Egitto con il nome di Horus Redentore, ma veniva rivelato solo agli iniziati del Tempio (8). Quelle sul senso del Natale, sono ulteriori dichiarazioni utili per descrivere una personalità come quella di de Lubicz, proprio perché Isha rimase comunque sulla via della “teocrazia faraonica”, insieme al marito: Il Natale-Khoiak è l’istante in cui il fuoco del seme, seppellito a San Michele, ha vinto il drago infernale e rianimato il germoglio dal quale Osiride resuscita con il Sole. La Forza cosmica Michele ha trasformato il fuoco sterile satanico in fuoco vivente luciferino. La Forza cosmica Osiride ha trionfato dal fuoco sethiano e la vegetazione terrestre riprende il suo corso con la risalita del Sole (9).
II Parte
V’è una bellezza adamantina nella sua poesia, essa non è sfuggita ad Adelphi, che ha pubblicato l’antologia Sinfonia di Novembre, ma molto resterebbe da fare in Italia per un approccio significativo a questo poeta in lingua francese, eppur intimamente lituano. Il libro 519 della collana Biblioteca Adelphi comprende liriche dalle raccolte Le cahier déchiré, Le poème des décadences, Les sept solitudes, Les éléments, Autres poèmes, Symphonies, Nihumim, Adramandoni, La confession de Lemuel, Derniers poèmes. Davvero sembra quasi la carica dirompente di un mix ben dosato: sensibilità slava, nobiltà di forma e sostanza, meditazione rituale, un rincorrersi del vissuto amoroso e la nostalgia di tutti i cominciamenti mai avvenuti (Milan Kundera conia la felice espressione futuro grammaticale della nostalgia (10), per lui l’unicità di Milosz – la scoperta dell’archetipo di una forma della nostalgia che si esprime, grammaticalmente, non attraverso il passato ma attraverso il futuro (11) ), in un riassorbimento prima e dopo le parole. La nostalgia sottesa è lo squillo sinfonico di un autunno intraveduto ovunque. In Milosz una realizzazione della Malinconia di Dürer, un percorso lungo e sofferto, dal simbolismo e dalla decadenza dandy (ricordiamoci che farà in tempo a conoscere nomi come Oscar Wilde, Apollinairee probabilmente anche il maestro di tutti i simbolisti Mallarmé, tra fine Otto e inizio Novecento, in quella Parigi sempre linfatica) alla poesia esoterica. Decadentismo che non lo abbandona fino alla fine, come nella postuma ‘Schiava’: …I rovi delle tue braccia lacerano il volto / di un vile agonizzante che ama la sua croce, / E l’inno tremulo delle eterne vedovanze / Schiude i fiori del riso nei tuoi freddi occhi […] E l’onice dei miei occhi grevi di ombra e di languore / vede scintillare nella melma del tuo cuore / Le rose dalle labbra scarlatte dell’Ideale.
Sfogliamo la sezione tratta da ‘Il poema delle decadenze’(1899), agli albori. Ecco le sentite assonanze con l’amato Poe, nel calco di quella parola “Nevermore”, che rende nota di una irrimediabile predestinazione, una gotica rovina da sublimare nell’inconscio: Io sono un grande giardino di novembre, un giardino sconsolato / Dove tremano i derelitti del vecchio faubourg; / Dove il miserabile colore delle brume dice: Sempre! / E le fontane stillano: Mai più… (Brume) In ‘Sommeil’ (Sonno) si giunge a veri attimi prometeici e blasfemi, torna l’ebbro decadente, ma proprio lì ove sembra ondeggiare nel torbido, squarcia la scena lo streben metafisico di inesprimibile anelito: È tardi per l’Odio, è tardi per l’antica / Bellezza! Gli istrioni del cuore hanno perduto la memoria. / Ah! Lasciamoci cullare dal sonno, nera arca / Perduta nel muto diluvio solare, // Lasciamoci cullare dal sonno dei poveri / E dei malati, nel torpore del giorno ormai al declino; / Conosciamo la Gloria e la Lussuria e ogni altro / Sinonimo della scurrilità divina…Indi plana placido, avendo sempre di mira l’unità trascendente di tutte le religioni, nella sua immersione cristica: Lasciamoci cullare dal sonno, perché tutto è vuoto; / Perché i vini misti agli aromi sono stati versati, / E il Sogno, fra sontuosi incensi, si è inginocchiato / Per tutti i Simboli e per tutti i Riti. Quest’ultima quartina è rituale e viene ripetuta in ‘Lassitude,’ la Stanchezza, esempio di un abbandono permanente.
Il Regno di Hypnos è presente purin ‘Egeia’: una poesia che sembra fuoriuscire da quei fumi dell’anima rappresi su tela da uno Jakub Schikaneder, pittore ceco che prediligeva soggetti poveri, emarginati, in tinte pastellose e vellutate luci crepuscolari. Purissima e tormentata sensibilità slava. Uno stato di veglia non-veglia sempre dai bordi poco delimitati…Nuovamente una ripetizione tra una poesia e l’altra, i versi seguenti si ritrovano uguali in ‘Lassitude’ (con Elliné in luogo di Egeia), come a sottolineare delle fughe musicali (nelle poesie singole)dentro la sinfonia (il poema intero): Egeia, Egeia! Atroce è l’insonnia / Della Vita, mia amata, che in voi recita / La sua nenia infinita, di una monotonia / Che né i rimpianti né i timori né i fastidi mitiga! – Una rinuncia e un tempo sospeso, in questo finale, lascia presagire un Somnium come oblìo dell’impermanente, uno stato di immersione negli stati superiori di coscienza, non un riposo bestiale atto ad appesantire i centri vitali; una vera vita ermeticamente intesa solo dopo lo spurgo dei propri penetrali, nel colmo della stagione della passione, per ripensare il dolore e fissarsi in autunno: L’estate, inferno di rose, il baratro della vita è esperito (riprendendo ‘Sonno’). – Via trascritta nel furore de ‘La Poesia dei Domani’, all’interno della raccolta ‘Le sette solitudini’(1906): Tutti domani avranno la loro casa di silenzio / Dove l’oblio chiuderà gli occhi scevri di rimorso. / Perché, per quale piacere o per quale vendetta / Rifiutare ai vivi ciò che si concede ai morti?”. // Allora egli trarrà dai baratri del sonno / I ricchi, fruscianti in tutto il corpo di larve inaridite; / Nell’ottone ritorto delle trombe del risveglio / Sputerà il nome dei settemila peccati. Un futuro a rincorrere il silenzio, perché si sente fuori dal gioco della Natura matrigna (superarla è imperium magico) e vede le larve umane chiamate a giudizio.
‘Le sette solitudini’ è la parte più polposa della crestomazia Adelphi, la raccolta da cui sono riportate più liriche. ‘All’Oceano’ – Un baudeleriano ritorno, nella vastità della propria missione, qui il poeta scopre la fronte e tira innanzi: Tu levighi il granito sotto l’onda marina; / Ma i flutti dell’oblio non cancelleranno mai / Malgrado il duro e ostinato lavorio avverso / Il segno oscuro inciso sulla roccia della mia fronte. Sono anche poesie spesso lunghe sull’esempio di ‘Un chant d’adieux devant la mer’, dove il languore si stempera sulle onde di un mare evocato come suprema libertà: Ed eccoci davanti al mare, davanti al mare che non può / Morire. – Il vostro amore è un’ombra su una strada fortunosa… Un addio davanti al mare che è amplesso tragico in attesa della notte, a ripulire mente e cuore, come lancia nei bellissimi versi finali: Vorrei esser un coro di musiche antichissime, / Il fantasma di un canto nella vostra culla di dimenticata, / La voce del mare che consola i suoi annegati / Nell’ampio grembo delle fredde piante, via dal sole. // Vorrei ammantarvi di passione, accanirmi / Sul vostro letargo, imporre ai vostri fieri / Atteggiamenti il gesto adorante delle preghiere, / Possedervi nell’infinito, plasmarvi // Nell’abbandono di un grande sonno, come una docile / E calda terra tra le dita degli ispirati, // Sarchiare con un bacio di sangue la vostra collera, / Essere per voi come il sospiro per il rimpianto; // Vedere di voi, per un istante, solo la forma; / Dimenticare i vostri sguardi, il vostro fiato, il fiotto / Del vostro cuore e delle vostre vene che s’addormentano, / Poter dire: era il mondo, e l’ho distrutto… // Oh, non è nulla – è il segnale della partenza, nella notte…
‘La Straniera’ – epicedio dell’insofferenza cosmica, con dei passaggi che alludono al Fato, al giuoco governato da meccaniche ermetiche nel senso del Quasimodo de ‘La terra impareggiabile’(In questa città c’è pure la macchina / che stritola i sogni: con un gettone…Su, già scatta la manopola). Scorre questa sua precipua incarnazione, Milosz, elenca le vie le piazze gli indirizzi le sfumature dei destini e del Libro già scritto e veduto – Un tempo mi hai già incontrato, lo ricordi? / Sì, un tempo tristemente lontano, / Nel paese dei libri antichi e delle antiche musiche, / Nell’azzurro crepuscolo di una casa tranquilla / Dalle finestre letargiche. Pagine di vita sigillate nel profondo, la poesia si fa rabdomantica: Il fantasma delle parole che non ricordi / O che non hai pronunciato, / Dona uno strano senso alla tua presenza lontana. / Decifro nel libro del tuo silenzio / La tua storia morta per sempre, perfino per te. // La mia pallida ragione è un’illusione di chiarezza, / Un giorno di sole antico / Sulla strada dove la tua gioia incontrò il tuo dolore. / Tutto ciò forse non è mai stato / Ma se te lo rivelassi, moriresti di paura. Erompe sempre l’essenza del sogno, il lago del cuore, la pre-scienza dell’animico, la piena visione della trasmigrazione delle anime.
Svoltiamo su ‘Les Éléments’(1911). Il vento, l’oceano, il sonno, il solco, il passaggio e la certezza – ‘Le Vent’: Non c’è nulla quaggiù che induca a fare sosta / Ed è per questo che io sono il vento nei deserti / E il vento nel tuo cuore e il vento nella tua testa…// Gli amori, i doveri, le leggi, le abitudini / Sono altrettante prigioni ! Erra con me / Attraverso i Saana delle caste solitudini!” – Chiaro anelito, erotica unitiva, il letargo della materia come perfetta immersione nell’1: Allora, sul tuo volto ridendo soffierò / Puro sole autunnale e sul battello errante / Il vaporoso brivido delle porpore del naufragio; / E l’alba ti vedrà dormire profondamente / Sul seno del mare dal vento illuminato! Lo sfinito senso della débacle universale che ricordail tragico in Dylan Thomas (‘Forever falling night is a known’), curiosamente sempre intinto d’onirico (Ora il comune lazzaro / Dei dormienti che tracciano mappe /Prega di non svegliarsi e non risorgere mai / Perché il paese della morte ha l’ampiezza del cuore), in ‘Sinfonia Incompiuta’ (da ‘Symphonies’,1915): Sulla terra dove il cuore dei dormienti da solo / Viaggia nelle tenebre e nei terrori, e non sa verso quale paese…‘Nihumim’ (da ‘Nihumim’, 1915).
Il profondo scintillare della materia regale, l’asse che non vacilla di quella cittadella interiore da cui si sente pre-formato, e che non è come le città degli uomini, / Ma, in seno alla Realtà, nel silenzio della mente, / Il librarsi muto dell’oro interiore. ‘La Confessione di Lemuel’ (da ‘La confession de Lemuel’, 1922) è un diario magico, specchio posto alla fine dell’esperienza nei Veglianti, non a caso: Prima l’entusiasmo di riunire i Separati, / L’angoscia di sposare il fuoco con l’acqua, / Poi, l’immenso addio dello Sposo alla Sposa…Sembra quasi un tormento nelle pieghe della ierogamia… Un gioco raffinato – La divisione di due belle certezze, / il giorno e la notte…. La messa nero su bianco della corsa a cui deve aver dedicato tutto se stesso, ovvero la trasmutazione, la separazione alchemica del Puro dall’Impuro, distillato nell’arte poetica da quella regale, come normale travaso. Risuonano reali esperienze sottili, inconoscibili e intrasmissibili, qui la poesia non è nemmeno un simbolo ma un memoriale iniziatico, cifrato e lievemente estetizzato (soprattutto dal coro mistico di goethiana memoria): (Coro) – Parla. Rivela / Impietosamente ciò che la tua anima ha visto / Nel cosmo cieco, smarrito e abbandonato. / Parla e imita l’eternità quando dice: no. / Nei deserti dove mai nessun Sì ha risuonato. / Rivelaci come, dai piedi alla testa, il corpo / Diventa pensiero, in quei paesi più insensibili della lebbra. / Quale grido di tenebre imperfette di quaggiù / Contiene il nome della notte totale / Priva dei due soli? / Parla. Che cosa ti è successo nell’infinito ALTRO / Visto come attraverso gli occhi di una razza scomparsa? […] In quell’infinito ALTRO / Dove colui che ci contiene è ignoto, / Dove lo spazio è notte dentro la pietra.[…] (L’Uomo) – Venne il momento in cui sentii QUESTO: / Un’immensità improvvisa / Inesprimibile, diversa, separata, / Mi risucchiò in un universo dove il Sì non aveva più senso. / Paese chiuso ai nostri vivi e ai nostri morti:/ Tutto era pervaso di un’altra eternità, / Di un’altra necessità – di un altro Dio…/ L’onnipotenza di quel luogo / Non era neanche più nemica di quella di qui. / Separazione. / Oh separazione! / Le due onniscienze non si conoscevano.
In conclusione, il morso della melanconia sottende uno sforzo nelle brume di questa epoca ed è anche una cifra di un dolore esistenziale, ma in Milosz giammai autocommiserazione, piuttosto esercizio di disillusione perpetuo. Scepsi nobile, quella dell’esperimento e dell’ (auto)superamento, non ipercriticismo cerebrale. Una Sinfonia di Novembre continua, un trapasso in quel giorno sottile in cui i morti passeggiano sulla terra, poiché de Lubicz è poeta veggente e quando parla della patina in cui vede avvolto il mondo, è palmare cosa rappresenti per lui la scrittura: cifra di un’unione tra Micro e Macrocosmo, in quel soffio, in quel calore del Logos porta vita a tutta una natura stregata, che com-patisce aristocraticamente. Il poeta parrebbe accogliere con la sua testimonianza la stessa visuale di Cristina Campo ne Gli Imperdonabili (e lasciamo perdere una critica al creazionismo, non essendo questo lo spazio): Un tempo il poeta era là per nominare le cose: come per la prima volta, ci dicevano da bambini, come nel giorno della Creazione. Oggi egli sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini, teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte (12). Poiché la vocazione poetica, se è tale, brucia tutto e forma un olocausto di sé come lascito, riattivando le corrispondenze e patendo l’imbarbarimento (che è sempre anche quello della perdita delle fonti di una lingua), la nominazione è una magia naturale in Milosz, esattamente nel senso bruniano, è una fuga dal proprio tempo in nome di una concezione sacrale della poesia, un lamento che si traduce in stanze liriche cupe, con i raggi di quel miraggio: il pronunciamento primario. Anche argomenti triti e ritriti come la morte, la tristezza autunnale e via dicendo, riescono nell’intento e non gravano troppo, poiché O.V. de Lubicz Milosz possiede musicalità e leggerezza in ogni canto. Prerogativa di chi riesce a scrivere sull’acqua.
Note:
1- Precisamente in Aleister Crowley, Il risveglio della magia (a cura di Christian Giudice, introduzione di Luca Valentini), Edit@, collana – Arcana, Taranto, 2018.
2 – Frammento 1750
3 – Giuliano Kremmerz, I Dialoghi sull’Ermetismo, in La Scienza dei Magi, volume III Edizioni Mediterranee, Roma 2003, p. 68.
4 – Nel volume della Fondazione Julius Evola (quaderni di testi evoliani numero 35), Esoterismo e Poesia – Lettere e documenti (1924-1930), a cura di Michele Beraldo
5 – Georges Buraud, La cerca del Graal nella letteratura e nell’arte moderna – in AA.VV., La Luce del Graal (a cura di René Nelli, edizione italiana a cura di Gianfranco de Turris), Mediterranee, 2001, p. 279
6 – Ibid., pp. 279-280
7 – Isha Schwaller de Lubicz, La luce del cammino, Edizioni Ester, 2014, p. 515
8 – Ibid., p. 483
9 – Ibid., p. 481
10 – Prefazione di Milan Kundera in Sinfonia di Novembre, Adelphi, Milano, 2008, p.16
11 – Ibid., pp. 15-16
12 – Cristina Campo, Parco dei cervi (all’interno de Gli imperdonabili), Adelphi, Milano, 1987, p. 149
Stefano Eugenio Bona