Novalis o della Comunità sacra: tornano gli Inni alla Notte e Cristianità o Europa – Giovanni Sessa
Il genio di Friedrich Von Hardenberg, meglio noto come Novalis, pseudonimo con il quale firmò i propri scritti sulla prestigiosa rivista «Athenäum» dei fratelli Schlegel a partire dal febbraio 1798, irrompe nella vita culturale in un frangente storico tormentato ma connotato in Germania, sotto il profilo intellettuale e spirituale, da grande fervore. È l’età nella quale il “genio tedesco” mostra tutto il proprio fulgore creativo. Le opere di Novalis possono essere considerate vero e proprio scrigno segreto dell’humus romantico che si irradierà presto in Europa. La recente edizione della silloge di scritti novalisiani, Monologo, Inni alla Notte, Cristianità o Europa, nelle librerie per Iduna, consente al lettore di apprezzare appieno la grandezza poetica e speculativa di Novalis. Il volume è arricchito dalla prefazione di Luigi Iannone e dall’introduzione di Rosario F. Esposito, traduttore delle tre opere (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 112, euro 16,00).
Novalis nacque nel 1772 e, come tutti i geni “cari agli dei”, chiuse i suoi giorni prestissimo, nel 1801. Secondogenito di una numerosa famiglia (11 figli!) a undici anni padroneggiava il greco e il latino. Diligente e scrupoloso, fu giovane sensibilissimo. Nel 1790 si iscrisse all’Università di Jena quale uditore presso la facoltà di Lettere. Fu ammaliato da Schiller. Passò, l’anno successivo, alla facoltà di Giurisprudenza di Lipsia, allora vivacissimo centro intellettuale, non trascurando gli interessi naturalistici, occupandosi, in particolare, di chimica e matematica. Completò gli studi in Giurisprudenza a Wittemberg nel 1794. Frequentò inoltre, a muovere dal 1797, l’Istituto geologico di Freiberg, divenendo ingegnere minerario. Al contempo, si immerse nelle opere e nel mondo ideale del teosofo Franz Von Baader. In tale frangente esistenziale dovette confrontarsi con la morte prematura dell’amatissima fidanzata, Sophie Von Kühn, e del fratello Erasmo. Di lì a qualche anno avrebbe dovuto sposarsi con Julie Von Charpentier, ma il suo stato di salute cagionevole si aggravò all’improvviso. Giunse a confortarlo, negli ultimi istanti di vita, l’amico Friedrich Schlegel. Il suo volto restò sereno anche in tale drammatica contingenza. Si spense il 25 marzo del 1801, mentre, intorno a lui, faceva irruzione la primavera, quasi a testimoniare quanto aveva sempre pensato: l’essere uno di vita e morte.
Entriamo nelle vive cose del volume in questione. Il Monologo è una breve introduzione alle altre due opere. Gli Inni alla Notte furono scritti nel 1799. Causa occasionale dell’opera va considerata la meditazione sulla morte di Sophie che divine, nella poetica novalisiana, donna angelica capace di redimere la condizione umana. Nota Esposto: «Quello che ci sembra […] necessario notare è che essi non si esauriscono in tale fatto» (p. 15). Gli Inni, infatti, vanno letti in chiave religiosa, esito ultimo dell’educazione pietista che era stata impartita a Friedrich dal padre. Poco prima della dipartita terrena, Novalis si era espresso, a riguardo, in tal modo: «La religione è il Grande Oriente entro di noi […] Senza di essa io sarei infelice» (p. 17). I suoi studi lo stavano orientando verso il Cattolicesimo. Gli Inni testimoniano la convinzione di Novalis che il pensiero moderno, che nell’Illuminismo aveva avuto la sua ultima espressione, non era atto a dare risposte significative ai grandi temi della vita, a cogliere il nesso ineludibile che lega il visibile all’invisibile. Cuore vitale della poetica novalisiana è il misterium vitae. Esso si mostra nel simbolo della Notte, custode del Mondo delle Madri, del quale dirà, con pertinenza argomentativa, Bachofen. Due sono gli eventi fondamentali della storia umana: la nascita del Cristo a Betlemme e la sua morte-Resurrezione sul Golgota.
Gli Inni sono costituiti da sei composizioni diseguali per ampiezza. La prima presenta il contrasto di luce e tenebra. I corpi celesti, il cielo stellato con la sua animazione luminescente, rendono la notte simbolo della vera vita. Nel secondo inno la luce diurna diviene espressione di mera potenza terrena: «la notte è la chiave dell’amore e del cielo […] non subisce i limiti dello spazio né quelli del tempo» (p. 19). In Novalis è profeticamente presente il tema dell’Eros cosmogonico di cui dirà, all’inizio del secolo XX, Klages. Nel terzo componimento la solitudine del poeta è simile alla notte oscura dei mistici, che il Nostro aveva incontrato dopo lo studio, risultato per lui dirimente, dei neoplatonici. Novalis guarda gli occhi della donna amata, li legge quale testimonianza d’eternità. Ella protende verso di lui le mani, il poeta le afferra facendone simbolo del transito dal visibile all’invisibile. Nella quarta composizione, il romantico perviene all’ “ultimo mattino”, ha acquisito sicurezza, è conscio del fatto che la morte è passaggio a un altro stato dell’essere. Così, nel quinto inno, Novalis, passando in rassegna il percorso storico dell’umanità, individua nella Resurrezione una promessa di redenzione. Lo fa lontano tanto dalle letture protestanti, quanto da quelle dell’ortodossia cattolica, servendosi della figura ellenica di Orfeo, esperito in modalità panica e “paganeggiante”. Presenta Orfeo quale quint’essenza della vita vivente, mentre ammannisce fiere e selve con il suo incedere musicale. Nel sesto componimento poetico, il romantico legge la morte quale liberazione dai condizionamenti e dai limiti meramente terreni, in versi che ricordano il mondo ideale dello Zend-Avesta di Fechner, elogiando la donna angelicata, mediatrice tra limitato e illimitato, medium della coincidentia oppositorum.
Hanno forse ragione, pertanto, quei critici che hanno sostenuto che in Cristianità o Europa, il tedesco: «rigetta la Riforma, ma nello stesso tempo rigetta anche il Cattolicesimo, e si augura la nascita di un nuovo Cristianesimo differente da tutte e due le confessioni» (p. 21). Questo testo capitale si articola in tre parti. La prima parte è dedicata all’esaltazione del cristianesimo medievale (stante la lezione di Evola, in quella fase storica il cristianesimo fu semplice scorza che copriva il ritorno dell’Antico). L’Europa era unita spiritualmente e politicamente: il culto consentiva la presenza viva della santità, capace di donare pace all’anima e guarigione ai corpi. Nella seconda parte, Novalis interpreta la Riforma come cesura dalla quale si sarebbe sviluppata la modernità e tesse l’elogio, che ci pare paradossale alla luce del dato storico, della Compagna di Gesù. Nella terza parte e nella conclusione, l’autore rinvia all’unità d’Europa e afferma la necessità: «della religione come vincolo per eccellenza dell’unità europea» (p. 25), nella consapevolezza che il destino dell’Europa è il destino del mondo.
Un libro di grande attualità, da valutare oltre le scolastiche esegetiche nelle quali è stato fin qui letto. Lo comprese Julius Evola con il suo idealismo magico.
Giovanni Sessa