Misteri Orfici e Dionisiaci – Chiara Toniolo
Orfeo è certamente una delle figure del mito greco più conosciute. Numerosi sono stati i pittori, i musicisti e i poeti che rimasero incantati dalla sua storia e che la rappresentarono attraverso la propria arte: da Tintoretto a Rubens, da Monteverdi ad Haydn passando per Poliziano, ognuno di essi ha raccolto parte del grande mito del cantore di Tracia e lo ha ri-raccontato adattandolo ai gusti e al pubblico della propria epoca. Ma il mito di Orfeo è ben lontano dalle interpretazioni moderne che ne hanno fatto, talvolta, una bella fiaba da raccontare ai nostri bambini prima di dormire. I miti sono da sempre un linguaggio simbolico ed iniziatico a cui avvicinarsi con estrema cautela e rispetto. É necessario imparare a conoscere l’alfabeto di questa lingua del sacro e il contesto storico all’interno del quale venne utilizzato, per poterlo interpretare correttamente alfine di non ridurlo ad un esclusivo atlante di archetipi che, come contenitori vuoti, vengono fin troppo spesso riempiti di tutte le patologie, insicurezze e caratteristiche dell’uomo moderno. Questo improprio atteggiamento verso i miti avviene perché nel linguaggio mitico i personaggi e gli eventi narrati hanno la straordinaria capacità di far vibrare le corde della nostra realtà animica, che, in un qualche modo, si sente attratta da questa lingua simbolica, ne cerca e ricerca la lettura e, talvolta, tenta anche di darle un significato. Ciò premesso non bisogna dimenticare che se il mito è da interpretare, ciò va fatto non in chiave modernistica, ma contestualizzandolo nella realtà storica e nel pensiero del popolo e delle genti che lo crearono.
Fatta questa doverosa premessa, nel corso del presente articolo cercherò di spiegare, molto brevemente (l’argomento è estremamente vasto) come partendo dal mito di Orfeo e da quello di Dioniso-Zagreo sia possibile rintracciare le fondamenta di uno dei culti misterici più affascinati del mondo antico: l’Orfismo.
Secondo i mitografi antichi Orfeo aveva per madre una Musa (Calliope o Polimnia) mentre suo padre era per alcuni Eagro, per altri il Dio Apollo (cosa che eziologicamente spiegherebbe la sua grande abilità nel canto e nella musica). La sua fama era legata al fatto di possedere una voce straordinaria e la capacità di suonare la lira in maniera così armoniosa da poter incantare le fiere fra i boschi, piegare gli alberi e far piangere perfino i sassi. Appartenente alla generazione antecedente alla guerra di Troia, aveva partecipato all’impresa di Giasone e degli Argonauti alla ricerca del Vello d’Oro. Proprio grazie al suo incredibile talento avrebbe fatto addormentare il drago che custodiva il Vello, permettendo al principe di Iolco di rubarlo e riportarlo in patria. Oltre a questo prezioso aiuto, si racconta di Orfeo anche un’altra storia dove troviamo per la prima volta l’accostamento al mondo misterico: il cantore, infatti, sarebbe stato iniziato ai Misteri di Samotracia, fra i più antichi conosciuti e, a sua volta, avrebbe reso partecipi i compagni Argonauti di questi riti che, fra le altre cose, offrivano la protezione in mare dalle tempeste. Già qui ci si presenta Orfeo come un mistagogo: un uomo capace di trasmettere ad altri un sapere iniziatico e di natura soteriologica. Avremo modo, fra qualche riga, di comprendere e approfondire meglio questa sua caratteristica. Se certamente l’impresa degli Argonauti lo ha reso celebre, è il suo amore per Euridice che lo ha fatto diventare un eroe romantico senza tempo. La vicenda racconta di come la bella Euridice, sposa novella di Orfeo, fosse stata uccisa dal morso di un serpente e fosse scesa nella casa della Morte. Orfeo disperato compì un viaggio, una katabasis nel regno di Hades per poter ritrovare la sua amata. Non vi è nulla di paragonabile alle superbe parole usate da Virgilio per raccontare la discesa agli Inferi di Orfeo e il suo inconsolabile dolore per la perdita dell’amata:
“E Orfeo, cercando nella cetra conforto / all’amore perduto, solo te, dolce sposa, solo te / sulla spiaggia deserta, solo te cantava al nascere e al morire del giorno. Poi, entrato nelle gole del Tènaro / il varco profondo di Dite, e nella selva dove fra le tenebre / si addensa la paura, si avvicinò ai Mani e al loro re tremendo, a chi non si addolcisce alle preghiere umane. E dai luoghi più profondi dell’Èrebo, / commosse dal suo canto, venivano leggere / le ombre, immagini opache dei morti: a migliaia, / come si posano gli uccelli tra le foglie, quando la sera o la pioggia d’inverno / dai monti li allontana; donne, uomini, e ormai privi di vita, / corpi di eroi generosi, / e bambini, fanciulle senza amore /e giovani arsi sul rogo davanti ai genitori…
Ma già Orfeo, eluso ogni pericolo, tornava sui suoi passi / e libera Euridice saliva a rivedere il cielo, / seguendolo alle spalle, / come Proserpina ordinava, / quando senza rimedio / una follia improvvisa lo travolse, / perdonabile, certo, / se sapessero i Mani perdonare: / fermo, ormai vicino alla luce, / vinto da amore, / la sua Euridice si voltò incantato a guardare. / Così gettata al vento la fatica, / infranta la legge del tiranno spietato, / tre volte si udì un fragore / nelle paludi dell’Averno.E lei: ‘Ahimè, Orfeo, / chi ci ha perduti, / quale follia?Senza pietà il destino indietro mi richiama e un sonno vela di morte i miei occhi smarriti. E ora addio: intorno una notte fonda mi assorbe e a te, non più tua, inerti tendo le mani’. Disse e d’improvviso svanì nel nulla, / come fumo che si dissolve alla brezza dell’aria, / e non poté vederlo mentre con la voglia inesausta di parlarle abbracciava invano le ombre; / ma il nocchiero dell’Orco non gli permise più di passare di là dalla palude...”[1]
Come divinamente raccontato dal Mantovano, Orfeo ebbe la straordinara possibilità di far ritornare sulla terra l’amata a patto che, come ordinato da Persefone, non si voltasse mai a guardarla finché non fossero giunti di nuovo sulla terra. La nota vicenda si conclude in maniera tragica in quanto Orfeo, dubitando della promessa della Signora degli Inferi, non riuscì a resistere e si voltò a guardare la sposa che subito si dissolse davanti ai suoi occhi. Il viaggio di Orfeo può facilmente essere comparato a quello compiuto dallo sciamano che attraversa le porte dei mondi e, come solo a lui concesso, ha poi la capacità e la possibilità di ritornare su questo piano dell’esistenza. Come puntualmente sottolinea Tonelli[2], Orfeo: “… commette due errori fatali: non si fida degli Dei e non riesce a controllare la propria emotività; è un altissimo messaggio sapienziale, lo stesso che risuona nelle tragedie di Eschilo, Sofocle e Euripide, che celebrano la sophrosyne come eccellenza spirituale”. In altre parole una incrollabile fede e il controllo delle proprie passioni sono elementi fondamentali per permettere all’uomo di affrontare e superare se stesso, anche di fronte alla morte. Possiamo quindi cominciare a marcare un fattore determinante nel mondo misterico orfico: l’uomo che riconosce che vi è un mondo sottile al di là delle apparenze riconosce anche l’essenzialità del dominio di Sé. Numerosi autori e commentatori antichi lessero nelle vicende di Orfeo, come poco sopra indicato, quelle di un iniziatore di Misteri, capace di trasmettere un messaggio di salvezza ai suoi iniziati e in una modalità piuttosto inedita per il mondo classico. Uno fra gli elementi straordinari dell’orphikòs bìos, lo stile di vita dei seguaci delle dottrine orfiche, era anche il possedere dei testi sacri di riferimento. Contrariamente a quanto si possa pensare, infatti, non solo le religioni indiane e quelle abramitiche presentavano e presentano dei testi sacri a fondamento del loro credo, già Platone descrive come i seguaci dei culti orfici fossero:
“Sacerdoti mendicanti e indovini [che] bussano alle porte dei ricchi e li persuadono di aver ricevuto dagli Dei, grazie a sacrifici e incantesimi, la facoltà di riparare con feste e divertimento a qualche colpa commessa dal padrone di casa o dai suoi antenati […] mostrano poi una quantità di scritti di Museo e di Orfeo […] secondo cui essi compiono i loro riti, convincendo non solo gli individui, ma anche gli stati che esistono per i vivi e per i morti assoluzioni e purificazioni dalle colpe mediante sacrifici e piacevoli divertimenti. Questi riti essi li chiamano iniziazioni, capaci di liberarci dai mali dell’oltretomba e affermano che, se li trascuriamo, ci attendono castighi terribili”.[3]
Quindi, anche in pieno V secolo a.C., la presenza di testi attribuiti ad Orfeo costituiva la leva per legittimare azioni a carattere proselitistico. Ciò è estremamente interessante perché non conosciamo, in campo greco, altri autori o testi con queste caratteristiche validanti, almeno fino al II-III sec d.C. e fino alla diffusione degli Oracoli Caldaici. Di che tipologia di libri si parla allora? Forse di manuali con prescrizioni minuziose di rituali purificatori? Purtroppo non conosciamo la risposta, in quanto il repertorio di testi mistici di cui ci parla Platone non è giunto fino a noi. Ci è giunta tuttavia una raccolta, risalente al pieno periodo ellenistico: gli Inni Orfici, attribuiti, come il nome stesso palesa, ad Orfeo. Essi sono una raccolta di 87 preghiere dedicate ognuna ad una divinità e con la particolarità di essere accompagnate da un profumo da bruciare per ognuna di esse. Tale peculiare associazione fra preghiera e aromi-incenso, manna e altri- costituisce un invito a non sacrificare esseri viventi agli Dei poichè, come accenneremo oltre, una delle caratteristiche degli Orfici è quella di seguire uno stile di vita vegetariano. Nel sacrificio tradizionale invece, vi era sempre una vittima animale da immolare alla divinità, così, anche in questo, l’Orfismo presenta delle particolarità notevoli.
Ovviamente l’attribuzione a Orfeo degli Inni Orfici è piuttosto difficile da confermare, ma il fatto che a grande distanza dal periodo di fioritura dell’Orfismo (VII-VI sec. a.C.), la figura del cantore di Tracia fosse ancora considerata come garanzia di conoscenze iniziatiche ci dice molto sulla diffusione che i culti ad esso associati ebbero durante tutta l’antichità. Che cosa offriva dunque l’iniziazione a questi riti? Ripercorrendo i miti connessi ad Orfeo, la risposta si palesa facilmente: la possibilità di una sorte migliore nell’Aldilà. Dato, infatti, il viaggio compiuto da Orfeo e soprattutto il suo ritorno dall’Ade, il musico aveva potuto raccontare ad altri come fosse il mondo di sotto. A tal proposito, grazie a una serie piuttosto numerosa di ritrovamenti di tavolette auree nelle tombe di devoti all’Orfismo, avvenuti in Magna Grecia, Tessaglia e Macedonia, conosciamo alcuni importanti dettagli della visione orfica dell’ Oltretomba. Su queste laminette d’oro vi sono delle indicazioni per ricordare all’anima del defunto cosa fare una volta giunto nell’Aldilà, affinchè la sua sorte fosse differente da quella degli altri defunti e potesse aspirare, come iniziato ai misteri di Orfeo, a una beatitudine eterna:
“E troverai a sinistra delle dimore di Hades una sorgente, e accanto ad essa un cipresso bianco, dritto; a questa sorgente non andare neanche soltanto vicino. Ma ne troverai un’altra, l’acqua fredda che scorre dal lago di Mnemosyne. Di fronte stanno i custodi. Di’ loro: “Sono figlia di Terra e di Cielo stellato e la mia stirpe è celeste: lo sapete anche voi. Ma date, presto, acqua fredda che scorre dal lago di Mnemosyne”. e loro ti lasceranno bere alla sorgente divina e dopo di ciò regnerai con gli altri eroi. Parole consacrate a Mnemosyne. Quando dovrai morire…”[4]
Il simbolismo che tali testi racchiudono è ricco e complesso per essere descritto in questo articolo, ma basti a fare intendere quanto fossero precise le indicazioni offerte dai misteri orfici e soprattutto che cosa essi offrissero ai propri adepti: una sorte beata, ben diversa da quella che attendeva tutti gli altri mortali. Qui entriamo nel vivo di un altro grande tema dell’Orfismo. Se coloro che conducevano una vita seguendo i dettami di Orfeo avevano una sorte migliore nell’oltretomba cosa ne era degli altri? Perché vi era questa netta differenza? La conclusione del mito di Orfeo ci permette di rispondere, almeno in parte a queste domande.
La chiusura della vicenda di Orfeo, come è noto, è che il cantore, disperato ed infelice, disperso fra i monti della Tracia, venne trovato dalle donne invasate da Dioniso, le Baccanti e, ancora vivo, fatto a pezzi. Questa particolare uccisione viene definitasparagmòs, cioè uno smembramento rituale tipico dei rituali dionisiaci. Nella teologia orfica Dioniso è un dio molto presente che si manifesta con diversi epiteti e forme, così come numerosi e multiformi sono i miti che lo riguardano. Lontano dalle narrazioni sacre legate ai grandi mitografi come Apollodoro ed Esiodo, si incontra Dioniso-Zagreo, una divinità forse di origine cretese, certamente comunque molto antica, la cui vicenda è fortemente collegata all’Orfismo. Il Dio sarebbe stato un bambino figlio di Zeus e Persefone (e qui ritorna il riferimento al mondo dei defunti) che con l’inganno fu ucciso, smembrato e divorato dai Titani figli di Gea. Il bambino sarebbe stato ingannato con dei giocattoli tra i quali uno specchio e proprio mentre in questo si guardava, i Titani lo avrebbero attaccato. Zeus accortosi dell’abominevole gesto,li avrebbe fulminati prima che divorassero per intero il fanciullo e, grazie ad Atena e ad Apollo, sarebbe stato ricomposto e riportato alla vita. Dal fumo e dalla cenere dei Titani sarebbero nati gli uomini destinati a possedere una parte divina, ereditata dalle carni di Zagreo e una titanica che di quella divina aveva osato nutrirsi. Secondo questo mito ogni essere umano è colpevole, ancora prima di venire al mondo di quel delitto. Il nostro stesso corpo è parte del castigo che siamo costretti a subire per cancellare la macchia che ancestralmente è caduta su di noi e, fino a che non saremo stati purificati, il ciclo delle rinascite continuerà per permetterci di espiare la colpa dei nostri antenati Titani. All’interno dell’Orfismo, infatti, è presente chiaramente la dottrina della metempsicosi come caduta dell’anima sulla Terra per espiare l’antica colpa che può essere redenta solo attraverso i riti di Dioniso, il solo Liberatore in quanto contemporanemente vittima, che lo stesso Orfeo avrebbe istituito. Non sappiamo, proprio per la natura misterica di questi riti, cosa prescrivessero precisamente, ma possiamo accostarci almeno alle dottrine essoteriche tipiche del modo di vivere degli Orfici che tanto meravigliarono i contemporanei:
“non ci si azzardava neanche a mangiare la carne di bue, né si immolavano animali agli Dei, ma si offrivano focacce e frutti immersi nel miele e altri sacrifici del genere, puri, e quando ci si asteneva dalle carni, poiché si riteneva empietà mangiarne e macchiare di sangue gli altari degli Dei…”.[5]
Le limitazioni non riguardavano solo la carne, ma anche altri alimenti come ad esempio le fave, il divieto di indossare capi di lana e l’accostarsi ai corpi dei defunti. Gli Orfici erano quindi, non solo dopo la morte, ma anche mentre erano ancora in vita individui che si distaccavano nettamente dal vivere comune. Perfino nelle sepolture, erano distanziati rispetto agli altri morti. Tutto nell’Orfismo, per concludere suggeriva una continua esaltazione del distacco, della purificazione, del desiderio di distinguersi per avvicinarsi quanto più possibile alla condizione dei Beati. L’espiazione dell’uccisione di Dioniso-Zagreo passava attraverso il mito di Orfeo come fosse il suo doppio sul piano umano dell’esistenza, come se per raggiungere la condizione di una divinità bisognasse farsi smembrare da quello stesso Dio per eliminare tutto ciò che di umano e titanico in noi si trovasse.
Il culto di Dioniso si sommava a quello orfico in una perfetta simbiosi che, presumibilmente, culminava nella massima iniziazione del mondo antico: quella di Eleusis.
Note:
[1] Virgilio, Georgiche, IV 467-503.
[2] A. Tonelli, Eleusis e Orfismo, MIlano 2015, pag.276.
[3] Platone, Repubblica, 364b-365a, trad. G. Lozza, Milano 1997.
[4] Tonelli, Eleusis e Orfismo, LO IA 2, Milano 2015, pag. 463
[5] Tonelli, Eleusis e Orfismo, Milano 2015, pag 347.
Chiara Toniolo
(fonte: articolo pubblicato sulla rivista Sirio, numero di Agosto 2021, con l’autorizzazione dell’autrice)