Massimo Donà e la filosofia di Goethe: una sola visione – Giovanni Sessa
E’ nelle librerie, per i tipi di Bompiani, un libro davvero importante di Massimo Donà, Una sola visione. La filosofia di Johann Wolfgang Goethe (pp. 327, euro 14,00). Nelle sue pagine, il filosofo si confronta con il pensiero del grande scrittore tedesco, del quale legge, in termini teoretici, le opere. Il libro è stato preceduto da altre due monografie, dedicate rispettivamente a Leopardi e Shakespeare. Il motivo che accomuna i tre volumi è il medesimo. Donà interpreta questi tre grandi, valorizzando, alla luce delle proprie posizioni speculative, il loro tratto anti-platonico, anti universalista. Non casualmente, sostiene l’autore, Goethe era mosso da: «sovrumano amore nei confronti dell’irripetibile unicità dell’esistente» (p. 21): intese vita e natura quale: «espressione di una potenza incoercibile di cui sarebbe stato vano cercare di predeterminare il corso e la direzione […] poiché “in ogni luogo noi siamo al suo centro”» (p. 22). Sulla scorta di tale intuizione, il genio di Weimar comprese l’inanità degli “universali”, delle “idee”, al fine di comprendere il reale. I concetti determinano, “pietrificano” il conosciuto, nella migliore delle ipotesi parcellizzano, attraverso la procedura analitica, l’Uno-Tutto.
L’osservatore più superficiale della natura ha contezza del suo perpetuo moto. Com’ è pensabile, allora, pretendere di conoscerla a partire dalla “quiete” delle idee? Di tale contraddizione,Goethe ebbe chiara consapevolezza. Sapeva, inoltre, che l’atteggiamento gnoseologico platonico era sopravvissuto nella filosofia moderna. Le forme a priori di Kant, infatti, erano connotate dalla medesima staticità degli universali. Eppure, nel pensatore di Könisberg, nella Critica del Giudizio, palpitava un altro-non-altro modo di rapportarsi al mondo. La medesima visione si era manifestata in Bruno, Leibniz, in de La Mettrie e Leopardi, per non dire di Spinoza. Il loro pensiero non riduceva la natura a una serie di “problemi” (in quanto tali risolvibili), ma si presentava con il tratto di una: «vera e propria scrittura dell’enigma» (p. 28). Una posizione che riemergerà, rileva Donà, anche nella filosofia del Novecento: in Deleuze, nella Arendt e, ci permettiamo di aggiungere, anche nell’idealismo magico di Evola. Forme di pensiero che si sottraggono al logo-centrismo. Al fine di comprendere l’effettivo ubi consistam dell’idea goethiana di natura, è bene far riferimento alla “materia”: essa, l’esserci di tutto quel che è, in uno: «dice il suo esser posto e il suo non esser posto da me» (p. 35).
Ciò significa, da un lato, che io, soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto, viviamo una relazione d’attrazione, che ci rende non altri, l’uno rispetto all’altro, ma identici. Allo stesso tempo, siamo costretti a riconoscere che tale rapporto si sviluppa contraddittoriamente, in quanto la significazione, la “comprensione” del mondo, me lo fa esperire come assolutamente altro da me. Ogni realtà è: «insieme fenomeno (in quanto riconducibile a me) e noumeno (inconoscibile)» (p. 36). La materia è, pertanto, costituita da due forze, di cui avevano già detto Kant e Schelling, una attrattiva e l’altra repulsiva. In tale contesto speculativo, Goethe introduce il concetto di “metamorfosi”, cuore vitale della sua esegesi del naturale. Con tale espressione è da intendersi ciò che si dà “oltre la forma”. Non vi è in essa, precisa Donà, alcun rinvio alla ciclicità, ma a quel medesimo che eccede qualsiasi forma determinata. Per questo, strumento privilegiato nella esegesi della natura, risulta essere l’analogia, non la similitudine. Conoscere analogicamente implica la comprensione che, nei diversi spazi, si dà il medesimo. L’idea stessa di identità va ripensata. Essa può esser posta in un solo modo: «come quel che invero non ha alcuna forma» (p. 41), in quanto a ripresentarsi nelle continue metamorfosi della natura è: «sempre e solamente, la negazione di una forma» (p. 41).
“Materia” sta per quel movimento che non è nessuno dei “determinati”, degli enti che incontro nell’esperienza, ma che solo in essi pur si dà. La metamorfosi goethiana, sostiene Donà, è altra dal dialettismo hegeliano (e, in parte, anche da quello schellinghiano). Il sistema panlogista ha regole determinate, atte a disegnare l’identità. In Hegel la sintesi, il punto d’arrivo, è già inscritto nell’inizio: «La natura non ha sistema […] essa ha vita […] Essa è vita e successione da un centro ignoto verso un confine non conoscibile» (p. 50). L’energheia, per usare l’espressione leibniziana, è forza centrifuga, dispersiva, entropica che dal centro tende all’esterno. La disgregazione del vivente non avviene: «proprio in virtù di una forza contrapposta […] “centripeta”» (p. 51), che tende a specificarsi, a “conservarsi”. Dalla natura, orizzonte trascendentale dell’uomo, come dirà Löwith, siamo avvolti, non possiamo uscirne. Posto di fronte al rigoglio dei giardini palermitani, il tedesco comprese che la Urpflanze, la pianta originaria, non era riducibile alla dimensione della Gestalt, della forma platonica, Essa alludeva, al contrario, al centro ignoto di Tutto. Per tale ragione Goethe, come Heidegger, ritenne la physis coincidente con l’essere, con lo “sbocciare”.
Dovunque ci si trovi, si è sempre al centro della natura, coinvolti nella sua eterna danza, nell’eterno gioco della metamorfosi dionisiaca. In essa: «Tutto è nuovo e pur sempre antico» (p. 61). L’antichità è il senza-forma, la negazione originaria che si dà “positivamente” negli enti. Il nostro agire, quindi, è agito dalla natura stessa. In esso, Orfeo e Prometeo sono in uno e viviamo il finito come qualcosa che deve essere sempre superato, tendiamo, in quanto physis, a s-determinarci (grande rilevanza ha in Donà, a questo riguardo, la concezione agostiniana del tempo quale distensio animae). Il postulato ermetico “tutto pensa”, nasce da tale visione del Tutto, dalle sue correlazioni simpatetiche. Il pensiero, insomma, è lo schiudersi di un mondo. Goethe si fa latore di quel particolare sapere, non verbale, di cui Aristotele dice nel libro IV della Metafisica attribuendolo alle piante, in quanto sapere di chi: «non dice nulla» (p. 122). Quel sapere che non contrapponendosi al principio d’identità, ne smorza la luce apodittica e si sottrae al gioco dell’ “esser altri da me”, cui esso, inevitabilmente, rinvia. Del resto è pensiero del nulla! E’pensiero altro-non-altro rispetto al theorein e in Goethe sfocia nell’intuizione.
(Massimo Donà)
Essa consente di: «abbracciare in una sola visione ordinatrice l’attività vitale infinitamente libera di un solo regno della natura» (p. 155). La vera unità doveva essere caratterizzata dall’infinita e libera: «esplosione di un molteplice mai costringibile a “distinzioni irreversibili”» (p. 157). Insomma, il movimento naturale viene pensato da Goethe: «come un’unità immediatamente destinata a dirsi nella “forma del due”, ossia come polarità assoluta. Assoluta perché originaria» (p. 161). Tale tesi trova conferma nella Teoria dei colori. I colori si determinano solo a partire da un’impossibile sovrapposizione dello scuro al chiaro o del chiaro allo scuro: «che sono “uno” […] perché non riescono a determinarsi reciprocamente l’uno come assolutamente diverso dall’altro» (p. 265). I colori si stagliano (lo rilevò anche Steiner) sull’ambiguo confine che sembra dividere la luce dalla tenebre. Il gioco degli opposti è rintracciato da Donà, in un’esegesi puntuale de Le affinità elettive, nelle vicende d’amore dei quattro personaggi principali del romanzo.
Un libro importante, Un sola visione, non solo per la chiarificatrice lettura di Goethe, ma per quanti vogliano guardare al mondo con sguardo rinnovato.
Giovanni Sessa