L’Oracolo di Delfi: la sapienza di Apollo e l’arte profetica della Pizia – Luigi Angelino
E’ universalmente riconosciuto come l’oracolo di Delfi possa essere considerato il più importante oracolo della religiosità ellenica del periodo arcaico. Il santuario panellenico di Delfi sorgeva a circa 500 metri sul livello del mare, in prossimità del vivace golfo di Corinto, crogiuolo di significativi scambi culturali e commerciali. La maggior parte degli archeologi ha stabilito che la costruzione principale risale al periodo miceneo, anche se le prime testimonianze che ne attestano l’attribuzione sacrale al dio Apollo emergono nel corso dell’VIII secolo a.C.. Dopo varie vicissitudini, come l’incendio che colpì il tempio verso la metà del VI secolo a.C. o il terremoto che lo distrusse nel 373 a.C., la ricostruzione, nella forma in cui è ancora al giorno d’oggi più o meno riconoscibile, fu portata avanti a partire dal 325 a.C., al termine della cosiddetta “terza guerra sacra” che segnò un sanguinoso decennio nella parte centrale dello stesso quarto secolo a.C. (1).
Il tempio attualmente accessibile ai numerosi visitatori consiste in un felice esempio di periptero, che misura 21,64 per 58,18 metri come rapporto proporzionale tra lunghezza ed altezza. A ben testimoniare l’influenza culturale di quella parte di Grecia continentale, le colonne sono in stile dorico, nel numero di 15 per ogni lato del tempio. Ad accogliere il pellegrino, con un messaggio diacronico di profondissimo significato, sul quale ci soffermeremo in seguito, vi era incisa la massima “Gnothi seauton” (Conosci te stesso). L’interno del tempio è formato da tre settori principali: il “pronaos”,che era preposto a raccogliere i responsi dei “sette sapienti”, il “naòs” che ospitava altari dedicati al culto di divinità di sommo prestigio, come quello in onore di Estia oppure quello a favore del più popolare dio del mare, Poseidone, ed, infine, l’opisthodomos, dove presumibilmente si raccoglievano le offerte votive. Ma il “sancta sanctorum” del luogo di culto era situato nei sotterranei del tempio, dove sorgeva il vano denominato “adyton”.In questo antro l’enigmatica “Pythia”pronunciava i suoi responsi, meglio definiti “oracoli” (2).
Seguendo i dettami della ricca simbologia religiosa dell’epoca, all’interno della cella del tempio, proprio di fronte alla statua di culto, bruciava un fuoco perenne che doveva essere alimentato esclusivamente dal fuoco di uno degli alberi sempreverde, l’abete. Dalla parte superiore del tempio pendevano numerosissime ghirlande di alloro, come segno della marcata sacralità del luogo, dove era necessario avvicinarsi con l’animo disposto a ricevere le illuminazioni divine. Si narra, poi, che al centro del pavimento vi fosse una specie di crepa, da cui filtravano particolari vapori, in grado di portare i soggetti in uno stato di alterazione della coscienza, nel linguaggio comune moderno chiamato, in maniera forse troppo semplicistica, “trance”. Si tratta, comunque, di una consuetudine molto in voga presso i templi religiosi antichi, in particolare nel mondo greco, in quanto si credeva che le divinità parlassero tramite soggetti umani, prendendo possesso temporaneamente della loro parte spirituale. Per quanto riguarda la composizione dei vapori, le citazioni letterarie sono molteplici e diversificate, riguardo all’intensità del delirio indotto e circa la capacità di trasformazione momentanea della Pytia. Al di sopra della precitata crepa, era collocato il “tripode”, una sorta di sedile sul quale la Pytia sedeva, quando doveva pronunciare i vari oracoli. Inoltre, come in tutti i luoghi di culto che si rispettano, non poteva mancare un elemento essenziale, come dispensatore della vita, l’acqua: all’interno del tempio vi era una fonte, chiamata “kassotis” (3), a disposizione della Pytia, dei sacerdoti e di quelli che chiedevano risposte celesti. Secondo la visione tradizionale, Delfi si trovava esattamente al centro del nostro pianeta. A dimostrazione di ciò, nel tempio dedicato ad Apollo si conservava un oggetto misterioso, l’”omphalos” (4), una sorta di pietra che segnava quel luogo come l’ombelico del mondo conosciuto. Un antico racconto voleva che Zeus, allo scopo di determinare il preciso centro della terra, avesse liberato due aquile dai punti opposti del globo, in modo che il loro volo si potesse incrociare proprio nel punto dove, poi, sarebbe stata fondata la città sacra. Per quanto riguarda il concetto di “sacralità” del luogo, secondo i paradigmi ellenici, è necessario premettere qualche importante considerazione. Innanzitutto, Delfi si poneva come luogo sacro della “ierogamia”, ossia dell’unione tra il dio del cielo Urano e la divinità della terra Gea, il principio maschile unito a quello femminile. Secondo la leggenda, Apollo si recò sul monte Parnaso con l’intenzione di uccidere il drago-serpente Pitone, figlio di Gea, che si era macchiato della grave colpa di molestare Latona (5), madre del dio, quando questa era incinta di Febo.
Apollo riuscì a colpire a morte il mostro con le sue frecce e conquistò il tempio, in precedenza dominato dal drago-serpente. Tuttavia, Apollo dovette fare i conti con le rimostranze di Gea che ottenne da Zeus una punizione esemplare per l’azione del figlio: il padre degli dèi ordinò che questi si sottoponesse ad un rituale di purificazione, servendo anche per sette anni come pastore sotto il re Admeto e che istituisse i “giochi pitici” per onorare la memoria del defunto Pitone. Apollo, in un primo momento eseguì alla lettera le disposizioni di Zeus, ma dopo aver ottenuto il “lasciapassare della purificazione”, incontrò il dio Pan che gli insegnò i misteri dell’arte divinatoria. Il dio rientrò a Delfi in maniera trionfale, assumendo le sembianze di un delfino, evento che può spiegare l’etimologia del nuovo toponimo del sito. A questo punto Apollo, divenuto a pieno titolo il creatore dell’Oracolo delfico, fece in modo che la sacerdotessa che ivi era insediata, diventasse un suo strumento per comunicare con gli umani (6). Non a caso alla donna fu attribuito il nome di Pitya o Pitonessa, proprio in ricordo dell’uccisione del terribile drago-serpente. Non vi è dubbio che questa leggenda contenga una chiave di lettura allegorica più profonda, rispetto al dato testuale delle imprese del dio Apollo. La narrazione appare molto verosimilmente come il compendio di un percorso iniziatico dell’individuo che, sconfitta la propria parte animale/materialista (il drago), si libera dei propri istinti più bassi (la purificazione), ottenendo il controllo della parte più intima del proprio essere (controllo del tempio/omphalos).
Secondo i racconti più datati, Delfi diventò una delle più ambite mete del mondo antico, raccogliendo pellegrini che provenivano da ogni Paese allora noto. La sacerdotessa dispensava vaticini che potevano avere sia una portata individuale che pubblica. Capitava di frequente che grandi città inviassero delegazioni sacre, chiamate “theoriai”, per chiedere alla sacerdotessa vaticini legate alle più svariate questioni della vita politica e sociale, come gli esiti di una guerra imminente, l’elezione di un magistrato o la fondazione di una nuova colonia. Come la Sibilla Cumana, anche la Pitia dava responsi spesso di difficile interpretazione, lasciando coloro che la interrogavano nel dubbio e nell’incertezza. A tale proposito, si ricordano significativi episodi, come quando i Messinesi, interrogando la Pytia sulle loro difficili relazioni con l’opulenta Cartagine, ottennero il seguente responso: “I Cartaginesi vi raggiungeranno con l’acqua”. I Siculi pensarono che il pericolo sarebbe arrivato da un estenuante assedio, capace di assetare gli abitanti di Messina e, invece, accadde che furono sconfitti dopo una cruenta battaglia in mare. Famosi sono anche gli ondivaghi vaticini durante le Guerre Persiane, dapprima favorevoli all’impero orientale, di seguito in grado di predire la vittoria degli Ateniesi, se questi avessero adoperato la tattica di schierarsi dietro “un muro di legno”, intendendo con questa espressione la flotta di navi presente durante la storica battaglia di Salamina. E ancora, sembrò che la sacerdotessa si prendesse gioco del ricchissimo Creso, re della florida Lidia, quando gli predisse che se si fosse opposto ai Persiani “sarebbe caduto un grande impero”. Allora il re fiducioso intraprese le ostilità contro l’impero orientale, ma a cedere le armi contro gli avversari, furono proprio le sue truppe (7).
Nella sua funzione catalizzatrice, come centro religioso e di più ampia portata socio-culturale, l’Oracolo di Delfi si prestò anche a scopi di contrasto politico. Pur dichiarandosi “divinamente imparziale”, in determinati frangenti non esitò a prendere posizione a favore dell’una o dell’altra parte in gioco. Nella “Guerra del Peloponneso”(8), l’Oracolo di Delfi si schierò apertamente dalla parte degli Spartani, predicendo che il celeste Apollo li avrebbe sostenuti sino alla fine contro gli odiati Ateniesi. Dopo questo esempio eclatante, l’atteggiamento sacerdotale confermò questa tendenza ed il tempio indirizzò il suo favore verso le potenze egemoni del tempo: dopo Sparta, concesse che i suoi vaticini diventassero cari ai cittadini di Atene, poi a quelli di Tebe, fino a diventare una “simbolo forzato” dell’unificazione della Grecia, sotto il dominio di Filippo di Macedonia e di suo figlio Alessandro che, in realtà, approfittarono delle rivalità e del fallimento strutturale dell’ordinamento delle “poleis”. Al di là delle inevitabili strumentalizzazioni politiche, di cui ogni apparato religioso è stato vittima nel corso della storia, la devozione nei confronti dei responsi dell’oracolo di Delfi non si affievolì, fino a buona parte del quarto secolo, costituendo forse il luogo di culto più famoso del mondo antico, almeno in termini di fama e di popolarità. Atene era collegata a Delfi proprio dalla cosiddetta “Via Pitica”, che fungeva anche da importante arteria di collegamento tra la capitale dell’Attica ed il Peloponneso. Grazie ai reperti archeologici e ad una buona dose di immaginazione, si può ritenere che un tempo i dintorni dell’Oracolo fossero ricchi di eleganti costruzioni, nonché adornati da imponenti statue e da tempietti votivi dedicati a molteplici divinità.
Abbiamo accennato in apertura alla mitica Pizia e, nel prosieguo della trattazione, all’origine del suo nome. Ora è giusto chiedersi cosa significasse essere una Pizia dell’Oracolo di Delfi, o meglio quali caratteristiche dovessero avere le giovani donne che volevano intraprendere quel percorso. A non tutte le donne era riconosciuta la possibilità di assumere il ruolo di “Pizia”. Le candidate dovevano dapprima essere ammesse nella casta sacerdotale del santuario, scelte tra le donne originarie del territorio del luogo sacro che offrissero garanzie di specchiata ed indiscussa moralità. Anche le donne sposate potevano aspirare a svolgere quella prestigiosa funzione, ma avevano l’obbligo di lasciarsi alle spalle ogni legame affettivo, sia nei confronti del coniuge che dell’eventuale prole (9). Nel periodo di massimo splendore del culto oracolare delfico, le Pizie in carica erano tre, delle quali due si alternavano nella elaborazione dei vaticini, mentre la terza fungeva da riserva. Gli incarichi di Pizia, soprattutto nel primo periodo di istituzione del santuario, erano affidati a donne di buona cultura nelle varie discipline del sapere, come la filosofia, la letteratura e la geografia. Quando, tuttavia, Delfi conobbe un lento ma costante processo di decadenza, al mistico ruolo furono chiamate anche donne semi-analfabete. Tale elemento, secondo gli studiosi, sarebbe un importante indicatore delle ragioni che trasformarono l’arcaica pronuncia dei responsi in versi, solitamente formati da pentametri o da esametri, nella più tarda formulazione in passi espressi in prosa, più facilmente masticabili da soggetti meno dotati sotto il profilo culturale. Rispetto alla posizione sociale e giuridica riconosciuta, in linea generale, alla donna nella Grecia antica, la Pizia godeva di importanti privilegi, potendo ricevere un compenso notevole, nonché possedendo proprietà private ed essendo esente dal pagamento delle tasse. Inoltre le “Pizie” erano ammesse a partecipare a tutte le più significative cerimonie pubbliche, altro aspetto negato solitamente alle donne nell’antica società ellenica. Per motivi di carattere climatico, le Pizie pronunciavano i responsi da marzo a novembre, mentre tra dicembre e febbraio la credenza popolare voleva che Apollo lasciasse Delfi, per farvi ritorno all’inizio della primavera. In realtà, si trattava di un equilibrato calcolo economico: non conveniva tenere in piedi un’organizzazione che, comunque, comportava dei costi, in un periodo dell’anno in cui il numero dei pellegrini sarebbe stato fortemente limitato dalle avversità meteorologiche.
L’accesso dei viandanti, che affrontavano lunghi viaggi da ogni angolo del mondo conosciuto, era consentito soltanto previo lo svolgimento di un cerimoniale formale ed altamente simbolico. I pellegrini, che si avvicinavano al “recinto sacro”, erano considerati “impuri” e dovevano obbligatoriamente sottoporsi ad un rituale di purificazione, chiamato “katharmos”, che si svolgeva presso la fonte Castalla (10), a cui erano tenuti a partecipare anche i sacerdoti del tempio e le Pizie, dopo aver bevuto l’acqua della già citata fonte Kassotis. Al termine della purificazione, il pellegrino doveva compiere un sacrificio, denominato “prothysis”, che solitamente prevedeva l’immolazione di un bue o di una capra, a seconda delle possibilità di colui che si accingeva a chiedere il parere divino. Dopo la morte dell’animale immolato, le sue membra erano immerse nell’acqua fredda: se esse davano segnali di movimento, ciò veniva interpretato come buona disposizione del dio nei confronti del richiedente.
Inoltre, prima di essere ammesso al cospetto dell’oracolo, la persona era sottoposta ad un interrogatorio da parte del sacerdote di turno, che aveva il compito di comprendere le sue intenzioni e la liceità della richiesta. Si pensa che, in questa fase, avvenisse anche una sorta di pagamento in denaro o in natura, il cui ammontare dipendeva, con ogni ragionevole probabilità, dall’importanza del responso che si intendeva chiedere e dalle facoltà economiche del pellegrino. E’ lo stesso Socrate, nel Protagora di Platone, a cercare di far luce sulla famosa iscrizione “conosci te stesso”, divenuta lo slogan programmatico e spirituale dell’Oracolo di Delfi. Secondo il filosofo, la tradizione affonderebbe radici nell’epoca dei mitici “sette sapienti” (11), individuati nei personaggi di Talete di Mileto, Pittaco di Mitilene, Biante di Priene, Solone di Atene, Cleobulo di Lindo, Misone di Chene e Chilone di Sparta. Nell’attribuzione specifica della paternità del motto, vi è una pluralità di ipotesi: una buona parte delle citazioni antiche la riconosceva a Chilone, qualcuno a Solone, altri a Talete, mentre secondo Aristotele la massima era uscita direttamente dalla bocca di una delle Pizie. Ma più che sforzarsi a comprendere chi sia stato il primo a pronunciare la frase, è interessante analizzarne le implicazioni filosofiche che mostrano la profonda evoluzione del pensiero ellenico. L’invito del “conosci te stesso” potrebbe apparire banale e di immediata evidenza, mentre esorta a sviluppare una capacità di introspezione, difficilmente attuabile, senza le necessaria maturazione spirituale così diversa in ciascun individuo.
Ed all’entrata del tempio delfico, la massima assumeva un significato pratico ancora più pregnante, come se volesse recitare “prima di fare domande, pensa a conoscere te stesso”, in quanto è proprio dalla conoscenza del proprio io che possono scaturire le domande più corrette e, quindi, l’approccio di conoscenza verso l’intera realtà che ci circonda. La consapevolezza del proprio mondo interiore può garantire una migliore visione dell’universo, nell’accezione ermetica della stretta compenetrazione tra microcosmo e macrocosmo. “Conosci te stesso” significava in primo luogo prendere coscienza della fragilità e dell’imperfezione umana, tenendo chiaro nella mente che cercare di superare i propri limiti può portare al disordine, quello che i Greci chiamavano “caos”. In tale contesto, i pensatori ritenevano che vi fosse un comportamento umano sommamente imperdonabile, che veniva compendiato nel termine”hybris”, traducibile nella nostra lingua come tracotanza, arroganza o superbia ma che, nell’accezione greco-antica, comprendeva tutti i precitati significati. Le narrazioni ed il teatro greco sono molto prolifici nel descrivere modelli umani e divini che fungono da monito contro l’arroganza di voler cambiare il proprio destino. Uno degli esempi paradigmatici più compiuti è costituito dalla tormentata esistenza di Edipo, che inutilmente cercherà di sottrarsi all’ineluttabilità del proprio destino, così come vaticinato, che sarebbe diventato un parricida e perfino un figlio incestuoso.
Nella massima “conosci te stesso”, così come sviluppata da Socrate (12), tramite la testimonianza scritta di Platone, i temi dell’anima e dell’autocoscienza oltrepassano i contesti religiosi dell’Orfismo e del Pitagorismo, per diventare gli oggetti principali della riflessione morale. L’intellettualismo etico di Socrate si fonda su un ideale altissimo, perseguibile soltanto da pochi, che verrà ripreso in altre culture, come nel pensiero di Agostino d’Ippona, per il quale la verità risiede nell’interiorità dell’uomo (“noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas”) (13). Ed in epoca molto più recente, Kierkegaard, grande ammiratore della costruzione concettuale socratica, ha ben evidenziato la sua idea di filosofia, da non ritenersi come mera costruzione astratta, ma come vera e propria ricerca esistenziale (ciò che in fondo mi manca è di veder chiaro in me stesso…Si tratta di comprendere il mio destino) (14).
Dalle testimonianze di Plutarco fino agli studi recenti, non sono state avanzate teorie univoche che potessero spiegare la natura delle presunte sostanze psicotrope presenti nel sottosuolo del tempio. E’ facile pensare, che le Pizie fossero verosimilmente condizionate anche da una “sorta di suggestione psicologica”, a cui si aggiungeva l’assunzione diretta o indiretta di sostanze che, al giorno d’oggi, potremmo definire di natura “stupefacente”. Le Pizie, comunque, assumevano dei comportamenti così inusuali, tanto da rasentare la “follia”, entrando in uno stato della coscienza diverso da quello consueto. Al di là delle speculazioni scientifiche o pseudo-scientifiche, che sono state diffuse intorno alla natura dei vapori sprigionati dalla crepa ctonia nel tempio, nonché della relativa capacità allucinogena, in grado di indurre la sacerdotessa in uno stato di alterazione della coscienza, la funzione di mediazione con il mondo divino richiedeva purezza di intenzioni e consapevolezza mistica di elevazione spirituale. Questo almeno è il messaggio simbolico che ancora oggi la tradizione dell’Oracolo di Delfi ci vuole lasciare, oltrepassando le inevitabili strumentalizzazioni politiche e sociali a cui è stato sottoposto nei secoli, come del resto qualsiasi altra espressione di religiosità. Non vi possono essere spiegazioni scientifiche convincenti che siano in grado di descrivere il fenomeno dell’invasamento profetico. Nell’ambiente ellenico, si parlava di “enthousiasmos” , ovvero di una vera e propria possessione da parte della divinità, o anche di “pneuma”, intesa come “soffio divino” , che si sviluppava in determinati individui fin dall’infanzia, magari favoriti da una già collaudata tradizione familiare.
La Pizia, nel suo processo di trasformazione estatica, ben incarna il principio femminile, la “Grande Madre” che offre rigenerazione costante ad ogni forma di vita. In buona sostanza, la sacralità di Delfi, trasfigurata nel mito dell’uccisione del drago-serpente, affonda radici in epoche ben più remote, rispetto all’istituzione oracolare. Il culto maschile di Apollo si unisce ad una consuetudine cultuale pre-indoeuropea, di origine mediterranea, nel quale assume grande importanza la parte femminile della divinità. E’ chiaro, tuttavia, che non è possibile stabilire con certezza se vi sia stata continuità tra i culti ctoni-femminili precedenti ed il successivo straripante culto oracolare di Apollo, attestato in epoca storica (15). Sta di fatto che la religiosità apollinea, così come emerge nelle sincretiche e misteriche pratiche oracolari di Delfi, conferma la sua doppia natura “ctonia” e “solare”, comprendendo in sé le capacità più estreme: la sapienza e la follia, l’arco e la lira, la profondità e l’elevazione, imponendosi come un vero e proprio emblema di “coincidentia oppositorum”.
Note:
1 – Michael Scott. Traduzione di Daniele A. Gewurz, Delfi. Il centro del mondo antico, Ed. Laterza, Bari 2017;
2 – Marie Delcourt, L’oracolo di Delfi, Ed ECIG, Genova 1998;
3 – Questa sorgente d’acqua minore era, comunque, collegata alla fonte “Castalla” citata in seguito;
4 – Nel museo di Delfi si conserva una copia di marmo della pietra, rappresentata come ricoperta da cordoni intrecciati;
5 – Latona, dalla sua unione con Zeus, è indicata come genitrice sia di Apollo che di Artemide;
6 – Plutarco, Dialoghi delfici. Il tramonto degli oracoli. Gli oracoli della Pizia, Ed. Adelphi, Milano 2005;
7 – Erodoto, Storie-Libro I, XLVI;
8 – La guerra del Peloponneso durò circa 27 anni, dal 431 al 404 a.C.;
9 – Walter Burkert, La religione greca di epoca arcaica e classica, Ed. Jaca Book, Milano 2003;
10 – La fonte si trova sul monte Parnaso, ai piedi della roccia di Hiampea, ggi chiamata Flembuco;
11 – Platone fu il primo ad enumerare i “sette sapienti” nel Protagora;
12 – Pierre Courcelle, traduzione di Francesca Filippi, Conosci te stesso. Da Socrate a San Bernardo, Ed. Vita e Pensiero, Milano 2003;
13 – Agostino da Ippona, De vera religione, XXXIX, 72;
14 – https://www.homolaicus.com, Il giovane Kierkegaard, consultato in data 22/08/2022;
15 – Marco Maculotti, https://axismundi.blog, Apollo il distruttore: “coincidentia oppositorum” nella mistica, consultato il 22/08/2022.
Luigi Angelino,
nasce a Napoli, consegue la maturità classica e la laurea in giurisprudenza, ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione forense ed un master di secondo livello in diritto internazionale, conseguendo anche una laurea magistrale in scienze religiose. Nei primi mesi del 2022 ha pubblicato con la Stamperia del Valentino 7 volumi (Caccia alle streghe, Divagazioni sul mito, L’epica cavalleresca, Gesù e Maria Maddalena, L’epopea assiro-babilonese, Campania felix, Il diluvio). In precedenza con altre case editrici ha pubblicato vari libri, tra cui il romanzo horror/apocalittico “Le tenebre dell’anima” e la sua versione inglese “The darkness of the soul”; la raccolta di saggi “I miti: luci e ombre”; i thriller filosofici “La redenzione di Satana I-Apocatastasi” e “La redenzione di Satana II- Apostasia”; il saggio teologico/artistico “L’arazzo dell’apocalisse di Angers” ; il racconto dedicato a sua madre “Anna”; la raccolta di storie “Viaggio nei più affascinanti luoghi d’Europa”; un viaggio onirico nel sistema solare “Nel braccio di Orione”; una trattazione antologica di argomenti religiosi “La ricerca del divino”. Di recente è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica italiana.