Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
L’inno al Logos di Giovanni – Luigi Angelino
L’inno al logos, meglio conosciuto come il “prologo” del vangelo attribuito in maniera pseudo-epigrafica all’apostolo prediletto dal “Maestro”, costituisce uno dei cardini della dottrina cristiana, seppure il suo contenuto sia caratterizzato da presunti elementi gnostici. La Chiesa Cattolica inserisce il passo giovanneo nella liturgia natalizia, in quanto il suo contenuto farebbe riferimento in maniera esplicita, almeno secondo la visione tradizionale, all’incarnazione di Gesù, il Logos, latinizzato in Verbum, nella finitezza materiale della percezione umana. Tuttavia, in considerazione dell’importanza filosofico-teologica del brano, è ancora più significativo riproporlo in un clima “pasquale” di rinascita ed, usando un linguaggio cristiano, di “resurrezione”, volendo attribuire al termine una valenza molto più estesa rispetto all’evento narrato e sul quale le fonti storiche scarseggiano, come mi sono già espresso in altri contesti. Mi sembra opportuno introdurre la trattazione con dei brevi cenni storici in merito alla storiografia relativa al Vangelo di Giovanni. Come è noto, esso costituisce uno dei quattro vangeli canonici contenuti nel Nuovo Testamento della Bibbia, composto in lingua greca, nella versione coinè e, per convenzione, suddiviso in 21 capitoli.
Per la particolarità del linguaggio usato (non particolarmente forbito come quello di Luca) e per le notevoli digressioni teologiche, soprattutto in merito all’identità del Cristo, il codice narrativo del quarto vangelo si presenta molto diverso rispetto agli altri tre che, proprio per la convergenza teleologica, vengono definiti “sinottici”. Secondo le ricostruzioni più attendibili, il vangelo di Giovanni sarebbe stato elaborato nella sua forma compiuta nell’ultimo ventennio del I secolo, dopo la stesura di quelli di Marco, di Matteo e di Luca. Si ritiene che la sua composizione abbia conosciuto uno sviluppo alquanto indipendente in seno ad una comunità che si suole denominare “scuola giovannea”, anche se alcune espressioni contenute nel testo ci fanno pensare che gli anonimi autori conoscessero almeno il vangelo di Marco, quello che attualmente è considerato il più antico (1). In particolare, la scuola giovannea, sorta intorno alla figura del “discepolo che Gesù amava” (2), dal punto di vista storico e sociologico avrebbe numerosi punti in comune con i “cenacoli” di tradizione ellenistica che cercavano, mediante diversificate soluzioni, di spiegare la contrapposizione tra l’umano ed il divino, tra il bene ed il male, tra la luce e le tenebre. Seguendo la testimonianza del vescovo Papia di Ieropoli (3), morto nel 130, sembrerebbe che davvero ad Efeso esistesse una sorta di “scuola giovannea”, guidata da un tal presbitero di nome “Giovanni”. E’ evidente che non si possa trattare, a causa del notevole lasso di tempo trascorso, dell’apostolo di Gesù, ma di un omonimo oppure, ipotesi ancora più plausibile, di un “erede” del suo pensiero che ne utilizzava il nome per acquisire maggiore prestigio. Si tratta di un’abitudine abbastanza frequente nell’antichità ed accettata dalle convenzioni sociali.
Vi è da aggiungere, come è stato giustamente osservato, che nella narrazione viene adoperata sempre la prima personale plurale, il “noi”, ad indicare che le testimonianze non erano frutto dell’esperienza diretta di un singolo, ma di un’intera comunità. Non essendo la sede per disquisire sulle infinite diatribe storiche, che hanno affrontato la spinosa questione delle modalità di composizione del quarto vangelo, in particolare sul periodo di tempo impiegato per definirne l’elaborazione, mi limito a sottolineare come il testo presenti le caratteristiche di un compendio ricco di argomentazioni filosofiche, teologiche, mistiche e letterarie, a lungo meditate e digerite da una comunità attenta anche agli eventi politici dell’impero romano, come la distruzione del tempio ebraico ai tempi di Tito o l’intransigenza delle scelte di Domiziano.
A parte il prologo, l’inno al Logos, su cui focalizzeremo la nostra attenzione, il Vangelo di Giovanni è considerato suddiviso fondamentalmente in due parti. La prima è chiamata “Vangelo dei segni” (1,19-12,50), raccontando la storia del ministero pubblico di Gesù a partire dalla sua iniziazione battesimale per finire al momento topico dell’ingresso trionfalmente effimero in Gerusalemme. E’ importante comprendere il significato dei “segni” con cui Gesù vuole gradualmente rivelare la propria natura divina ai seguaci ed alla gente comune che, con un preciso intento semantico, non vengono denominati “miracoli” come nelle classificazioni riguardanti i tre vangeli sinottici. La seconda parte, il cosiddetto “Vangelo dell’ora”, parte dall’ultima cena, dove gli anonimi autori inseriscono l’episodio della “lavanda dei piedi” a differenza dell’istituzione dell’eucaristia, come avviene in Marco, Matteo e Luca, seppure con sfumature leggermente discostanti, per arrivare alla narrazione dettagliata dell’arresto, del processo, della morte e della resurrezione (4).
Come abbiamo detto in apertura, l’inno al Logos ha la funzione di “prologo” del quarto vangelo, allo scopo di fornire una precisa chiave di lettura all’intero testo. Sotto il profilo strutturale, legando il prologo a quanto narrato nelle due parti successive, il fine principale è quello di dimostrare che Gesù Cristo è rivelazione del Padre e tutto quanto da lui affermato costituisce parola di Dio. In secondo luogo, il prologo intende escludere ogni ipotesi “adozionista”, come sarà sviluppata in alcune eresie dei primi secoli dell’era cristiana, secondo la quale Gesù non sarebbe stato della stessa natura del Padre, ma una figura minore destinata ad una particolare missione (5).
L’ouverture giovannea, inoltre, non si perde in alcun inserimento postumo sulla natività di Gesù, come nei testi di Luca e di Matteo, cercando di dare un’autorevolezza filosofica più di stampo ellenistico all’incarnazione del Maestro. Sulla sua composizione si sono scatenati molteplici dibattiti, anche se la maggior parte degli esegeti ritiene che si tratti di un riadattamento editoriale di un pregresso inno al logos, già utilizzato in alcuni ambiti liturgici da parte delle prime comunità cristiane. Alcuni autori hanno evidenziato le similitudini del prologo giovanneo con il terzo trattato dell’opera gnostica, Protenoia trimorfica (6), la cui elaborazione è attestata nella prima metà del II secolo. Le analisi filologiche, paragonando l’inno al logos al resto del vangelo, ne hanno evidenziato la peculiarità della terminologia: ad esempio l’utilizzo del termine logos che non si ritrova più nei passi seguenti.
Pertanto, la maggior parte della comunità scientifica ritiene che il prologo derivi da un testo elaborato da un autore qualche decennio prima rispetto alla stesura definitiva del vangelo, scelto poi come parte introduttiva del racconto della missione di Gesù di Nazareth. La traduzione italiana dei prime versetti del prologo, di seguito riportata, non rende giustizia al suo significato originario, e forse neanche quella latina: In principio era il Verbo e Il Verbo era presso Dio e Il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di Lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era luce per gli uomini. Quella luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno accolta (7). Il termine italiano “parola” non corrisponde esattamente al termine greco “logos”, come del resto neanche il sostantivo latino “verbum” ha lo stesso significato.
Nonostante ciò, “verbum”, dal punto di vista linguistico, esprime un concetto di maggiore duttilità: non a caso nella nostra lingua identifichiamo con i “verbi” le parti essenziali di una frase (senza il verbo, il periodo non ha senso compiuto, tranne le eccezioni in cui, comunque, è sottinteso). In estrema sintesi “logos” vuol dire sia pensiero che parola. Tuttavia, i due significati sono assolutamente complementari: come pensiero, il “logos” indica una tipologia di conversazione interiore secondo la ragione, come “parola” intende la manifestazione esterna di essa. Nel pensiero filosofico, grandi autori come Platone ed Aristotele tracciarono il valore razionale del “logos”, opponendosi alle esigenze del verbalismo sofistico. Gli Stoici del periodo ellenistico, che influenzarono con ogni ragionevole probabilità, la comunità giovannea, riprendendo la concezione eraclitea, identificavano il “logos” con la “divina ragione”, di cui era compenetrato il mondo.
Nell’Antico Testamento biblico, è il libro della Sapienza che inizia a “personificare” la parola di Dio, mostrando una chiara influenza della filosofia ellenistica. Il primo pensatore, tuttavia, che “ipostatizzò” la parola di Dio fu Filone di Alessandria che cercò di coniugare la tradizione platonico-stoica con le massime riportate nei libri sapienziali di matrice giudaica (8). Il “logos” di cui parla il prologo del vangelo giovanneo, pertanto, non è soltanto un prodotto fonetico, ma si impone principalmente come contestualizzazione di una vera e propria azione, a partire dall’inizio del tempo fino al compimento della storia della salvezza, seguendo in via preliminare un ragionamento di tipo cristiano.
In apparenza i primi versetti dell’inno potrebbero sembrare contraddittori: da un lato si afferma “in principio era il verbo”, escludendo che vi fosse altro prima e senza di lui, dall’altro sembra che lo stesso sia adoperato come strumento di mediazione tra il Creatore ed il creato. La dicotomia può essere in parte risolta, intendendo tale sviluppo come la progressiva manifestazione della volontà realizzatrice da parte dell’Essere Supremo. E’ necessario precisare che le traduzioni ufficiali del testo redatto in lingua greca, compresa la Vulgata latina (9), hanno sempre privilegiato una trasposizione linguistica “contestualizzata” rispetto ad una di carattere “letterale”. Nell’idioma ellenico, infatti, cambia il significato se le espressioni legate alla parola theòs (dio), siano accompagnate o meno dall’articolo determinativo (problema, invece, che non presenta la lingua latina, priva di articoli): theòs con l’aggiunta dell’articolo determinativo vuol dire inequivocabilmente “Dio Padre”, mentre privo di tale articolo può significare “potenza” o “dio”, ma non “Dio Padre”. Questa differenza apparentemente sottile, ma che implica un’interpretazione nella sostanza ben diversa da quella tradizionale, potrebbe accordarsi con la teologia gnostica delle ipostasi e con le conseguenti dottrine delle creazioni sottostanti proiettate dall’Uno. Le traduzioni ebraiche hanno sottolineato come gli autori si riferiscano al “logos” utilizzando pronomi impersonali, cercando di evidenziare come esso rappresenti una sorta di strumento e non una persona vera e propria. Una simile interpretazione ovviamente tende a conciliare la ferma credenza, da parte degli Ebrei, che il Messia non sia ancora venuto e a ribadire l’unità monolitica dell’esistenza dell’unico Dio, a fronte della difficile scissione in tre persone della dogmatica trinitaria cristiana.
Analizzando con attenzione l’inno, ci chiediamo con quali proprietà ontologiche il Logos possa esistere separatamente da Dio Padre e se esso sia da considerare un principio creatore increato oppure se si presenti già come un valido indicatore della dicotomia teologica tra “generato” e “creato”. Molti studiosi hanno intravisto i germi dell’ipotesi di una “doppia creazione”, avvicinandosi alle teorie dello gnosticismo dualista. Secondo questa corrente di pensiero, il Logos giovanneo può essere accostato al Demiurgo platonico che, dal centro dell’universo e del tempo, ha il compito di plasmare la materia, mediando con il mondo delle idee. Ampliando il discorso, fino a comprendere le concezioni ermetiche, il Logos potrebbe assumere il ruolo di “elemento trans-mutativo”, come in alchimia si impone il fuoco che, con la sua azione, può comportare il cambiamento di stato di quanto esiste nell’universo.
Ancora più in contrasto con la tradizione si può interpretare l’espressione: “tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui, il Niente è stato fatto di tutto ciò che esiste”. Questa criptica affermazione sembrerebbe suggerire il principio di una doppia creazione di stampo gnostico-dualistico, portata avanti dai Manichei ed estremizzata, secoli dopo, dai seguaci del Catarismo, secondo cui l’una deriverebbe dal Logos divino e l’altra dal Nulla (10). Anche la concezione del tempo manifestata nell’inno ha decisive assonanze con il pensiero gnostico: il Logos irrompe nella vita umana, potendo salvare la vita di coloro che lo accolgono ed alterando la percezione del tangibile da parte degli eletti. Questa visione contrasta sia con il concetto di tempo sviluppato in ambiente ebraico, secondo cui il tempo avrebbe un inizio, ma non una fine se non quando ciò sarebbe determinato dalla volontà di Dio, sia con quello lineare di matrice cristiana, per il quale la storia della salvezza troverebbe compimento con la seconda venuta di Cristo (parusia), quando si spalancherebbero le porte all’inizio della dimensione divina.
Seguendo il pensiero degli gnostici della scuola alessandrina, il “logos” si identifica con il pensiero o la Sophia (11), l’ipostasi primordiale che, separandosi dalla coscienza che l’ha creata, produce effetti sulla materia. L’organizzazione della stessa materia, che potrebbe corrispondere alla cosiddetta “creazione” nel suo complesso, deriverebbe da un pensiero plasmante che, però, non riproduce la totalità, ma qualcosa di diverso. Gli gnostici della suola valentiniana mostrarono un grande interesse per gli scritti di Giovanni ed, in particolare, per l’inno al logos. A seguito della scoperta della biblioteca nei pressi del sito di Nag Hammadi (12) nell’Alto Egitto, gli studiosi hanno avuto la possibilità di analizzare un elevato numero di testi in lingua copta, provenienti probabilmente da originali in greco redatti tra il secondo ed il terzo secolo. Del resto alcuni esponenti di spicco della patristica cristiana avevano già attestato la vicinanza delle comunità gnostiche al vangelo di Giovanni, anche se tali testimonianze forse non riuscivano a far comprendere in pieno la portata del fenomeno, in quanto troppo intrise di argomentazioni apologetiche in difesa dell’ortodossia prevalentemente portata avanti dalla costituenda Chiesa occidentale per motivi politici. Sta di fatto che lo studio della documentazione ritrovata a Nag Hammadi ha mostrato ripetuti riferimenti agli scritti giovannei che possiamo definire soprattutto di “ordine concettuale”, in quanto le citazioni dirette sono poche, a fronte, invece, di numerose allusioni, peraltro nella maggior parte variate o parafrasate e non riportanti le fonti di origine. L’opera più importante della raccolta è il Vangelo di Tommaso (13), l’unico manoscritto risultato completo, a differenza degli altri giunti solo in versione parziale.
Anche la misterica egizia, seppure in un contesto storico-sociale ben più antico, affronta il tema della “parola divina”. Nei segreti procedimenti oracolari egizi, Ptah era considerato il “verbo”, la parola del celeste Nut, la divinità che attribuisce forma e consistenza ad Autum o Aton, il dio del sole. A tale proposito, di particolare rilevanza è un brano rinvenuto inciso sulla stele di Shabaka (14):”perchè ogni cosa ha origine a seconda di ciò che il cuore di Pitah ha pensato e che la sua lingua ha ordinato”. Ptah è, dunque, la divinità creatrice, il grande Artigiano che modella la materia, emergendo dal caos dell’oscurità. Non a caso, nel tempio di Menfi, città consacrata a Ptah, il gran sacerdote vanta il prestigioso titolo di “Decano dei Mastri Artigiani”, eleggendo quel luogo sacro a centro di origine degli studi delle arti speculative ed operative, come l’architettura, la scultura, la medicina, le applicazioni magiche e le tecniche di lavorazione in tutti gli ambiti naturali.
Coloro che contestano la derivazione gnostica del vangelo di Giovanni sottolineano come nell’inno al “logos” non sia tracciata una vera e propria concezione dualista che contrappone lo spirito alla materia, negativizzando il significato di quest’ultima. Il termine greco “sarx”, infatti, traducibile in italiano con il vocabolo “carne”, non avrebbe un significato negativo, ma indicherebbe la piena assimilazione di essa da parte del divino, escludendo il modello gnostico. Si osserva, inoltre, che la struttura linguistica dell’inno, pur presentando evidenti influssi del pensiero ellenistico, contiene categorie fraseologiche più vicine al mondo giudaico, anche se espresse nell’idioma greco. Del resto il greco era la lingua più diffusa nel Mediterraneo, soprattutto nella parte orientale e, pertanto, redarre un testo in quella lingua consentiva un ampio bacino di divulgazione fra utenti di diversa provenienza geografica e stratificazione sociale.
La potenza espressiva dell’incipit giovanneo ha sempre stimolato, attraverso i secoli, le più abbondanti e diverse speculazioni interpretative, specialmente nella sua forma originaria in lingua greca: “ev arkè èn o logos” come riferimento al principio costitutivo di tutte gli elementi dell’universo. Come non dimenticare la profonda riflessione di Goethe che, all’inizio del suo capolavoro, il Faust, tenta di codificare la migliore traduzione del passo, scartando il tradizionale termine latino “verbum” e scegliendo, fra le varie opzioni analizzate, come “ lo spirito” o “la forza”, l’espressione “l’azione” (15).
Note:
1 – Cfr. Pierre Dumoulin, traduzione di Rita Pusceddu, Giovanni. Il Vangelo dei segni. Il Vangelo dell’ora, EDB Edizioni, Bologna 2016;
2 – Cfr. Gv. 13,23; 19,26-27; 20,1-10; 21,7;
3 – Papia di Ieropoli è venerato come santo dalla Chiesa Cattolica: fu vescovo di Ieropoli, città abbastanza vicina a Laodicea in Frigia;
4 – Cfr. Charles K. Barrett, Il vangelo di Giovanni ed il Giudaismo, Paideia editrice, Brescia 1980;
5 – Cfr. Adriana Destro e Mauro Pesce, Come nasce una religione. Antropologia ed esegesi del vangelo di Giovanni, Edizioni Laterza, Bari-Roma 2000;
6 – La Protenoia Trimorfica fu ritrovata nella biblioteca copta di Nag Hammadi. Secondo gli studiosi l’opera fu redatta dai Barbelognostici (i seguaci del redentore gnostico Barbelo) e poi rielaborata dai Sethiani e da altri gruppi gnostici cristiani;
7 – Si tratta della traduzione della CEI (Conferenza episcopale italiana) che, come il Magistero di altri Paesi, ha cercato di attingere direttamente al significato del testo greco, a prescindere dalla mediazione delle precedenti traduzioni latine;
8 – Cfr. http://www.fuocosacro.com, Inno al logos, consultato in data 06/04/2022;
9 – Prende il nome di “Vulgata”, la traduzione latina della Bibbia dall’antica tradizione ebraica e greca, elaborata negli ultimi anni del IV secolo da Sofronio Eusebio Girolamo, canonizzato come santo dalla Chiesa Cattolica;
10 – Cfr. Giuliana Iacopino, Il Vangelo di Giovanni nei testi gnostici copti, Edizioni Istituto Patristico Augustini, Roma 1995;
11 – Sophia, in estrema sintesi, nella visione teogonica e cosmogonica gnostica, è un Ente o un Eone, a secondo delle correnti, che collabora sia nella formazione del malvagio mondo materiale, sia nel recupero delle anime alla perfezione spirituale, riconducendole verso il Padre dell’universo;
12 – La località di Nag Hammadi viene anche denominata “isola elefantina” e si trova a circa 450 km a sud della capitale egiziana, Il Cairo;
13 – La particolarità del Vangelo di Tommaso consiste soprattutto nella particolarità della sua costruzione narrativa: esso non cerca di raccontare la vita di Gesù, ma ne raccoglie i detti. Come gli altri vangeli apocrifi/gnostici, fu composto in un data imprecisata da anonimi autori tra il II ed il III secolo d.C., attribuito in maniera pseudo-epigrafica al Tommaso, seguace di Gesù, per acquisirne prestigio editoriale;
14 – La pietra o stele di Shabaka, secondo gli studiosi, risale alla venticinquesima dinastia egizia. Nei secoli successivi fu usata come macina: ecco perchè i geroglifici che vi sono incisi sono notevolmente danneggiati;
15 – Die tat, in lingua tedesca.
Luigi Angelino,
nasce a Napoli, consegue la maturità classica e la laurea in giurisprudenza, ottiene l’abilitazione all’esercizio della professione forense ed un master di secondo livello in diritto internazionale, conseguendo anche una laurea magistrale in scienze religiose. Nei primi mesi del 2022 ha pubblicato con la Stamperia del Valentino 7 volumi (Caccia alle streghe, Divagazioni sul mito, L’epica cavalleresca, Gesù e Maria Maddalena, L’epopea assiro-babilonese, Campania felix, Il diluvio). In precedenza con altre case editrici ha pubblicato vari libri, tra cui il romanzo horror/apocalittico “Le tenebre dell’anima” e la sua versione inglese “The darkness of the soul”; la raccolta di saggi “I miti: luci e ombre”; i thriller filosofici “La redenzione di Satana I-Apocatastasi” e “La redenzione di Satana II- Apostasia”; il saggio teologico/artistico “L’arazzo dell’apocalisse di Angers” ; il racconto dedicato a sua madre “Anna”; la raccolta di storie “Viaggio nei più affascinanti luoghi d’Europa”; un viaggio onirico nel sistema solare “Nel braccio di Orione”; una trattazione antologica di argomenti religiosi “La ricerca del divino”. Di recente è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica italiana.