L’Ethos Lidio e la sua rappresentazione trenodica: l’affacciarsi sul baratro dell’animo umano? – Gabriele Cupaiolo
Avevamo fatto riferimento al modo musicale greco nella sua declinazione di vera e propria qualitas sincretica dell’inno, del peana e dell’imeneo euripidei. Riallacciarsi a quelle considerazioni significa pensare di nuovo, e stavolta più approfonditamente, a come ad un antico – e a rendere un ascoltatore non più tale nel cuore è Monteverdi, con i suoi accenni di cadenze perfette, nella ragione Rameau, col suo Traité de l’harmonie réduite à ses principes naturels – avvenisse meno di rado che al fruitore moderno di concedere il proprio animo al dominio della frase musicale, una volta che le ricche sfumature di una melodia più varia – non sottoposta al rigido principio di tensione-distensione – ne avessero imbrigliato i sensi. Il θρῆνος euripideo rappresenta un ottimo esempio di genere propriamente patetico, concepito per suscitare emozioni intime e personali ancor più che per celebrare l’occasione dell’emozione – come l’imeneo e l’inno – o un sentimento collettivo – come il peana. Esso consiste in una forma di lirica corale, non propriamente innodica, poiché l’elogio del morto presuppone un intento commemorativo, più che vivamente invocativo, simile al ditirambo, date le due modalità esecutive che lo definiscono: o l’alternanza di cori (secondo uno stile definibile ‘antifonale’), o l’alternanza di solista e coro (in questo caso parleremmo di stile ‘responsoriale’). Lo Pseudo-Plutarco, nel De musica 15, attribuisce al θρῆνος la prerogativa del modo lidio, il quale avevamo annoverato fra i modi caratterizzati da un carattere positivo e gioioso; non nasce contraddizione con il tema funebre, dato che è lo stesso autore ad affermare che gli uomini del suo tempo, immemori della gravità e della solennità della musica antica (θεοῖς φιλή), ‘portano nei teatri (musica) molle e leggera’ (κατεαγυῖαν καὶκωτίλη εἰς τὰ θέατρα εἰσάγουσι), soprattutto eseguita secondo l’armonia lidia, che Platone rifiuta nel terzo libro della Repubblica, in quanto adatta solo ai θρῆνοι – un modo dunque sì caratterizzato da un sentore ‘maggiore’, ma particolarmente utilizzato ai fini di un’espressività apatica e nostalgicamente vuota: non dimentichiamoci delle innumerevoli sfumature che potevano essere consentite dai generi cromatico ed enarmonico, in virtù delle successioni cromatiche1, che producono un effetto sonoro simile ad un lamento, nonché da particolari combinazioni metriche – il ritmo puntato, l’equivalente di una successione di trochei, nella sensibilità moderna produce un effetto di inerte marcia, anche in contesti di utilizzo del modo maggiore2: il canto trenodico non possiede una solennità funebre, bensì è un vero e proprio pianto di coro, come viene ben espresso nell’Ecuba, al v. 212, quando Polissena dice κλαίω πανδύρτοις θρήνοις (‘Piango con lamenti pieni di gemiti’).
(Euripide)
Lo ripetiamo, i Greci erano privi di una teoria della tonalità, dunque buona parte di quel senso di affermazione procurato dai modelli cadenzali, per antonomasia IV, I6, V, I poteva essere eluso in una misura a noi sconosciuta, desumibile, in parte, solo grazie ai lavori dei moderni autori intenti nella scrittura modale3. In Euripide il termine θρῆνος compare innanzitutto nell’Ifigenia in Tauride, ai vv. 143-5:
ἰὼ δμωαί,
δυσθρηνήτοις ὡς θρήνοις
ἔγκειμαι,
‘Oh, ancelle, in quali gemebondi singhiozzi io giaccio’: Ifigenia, a conferma della mancanza di solennità all’interno del canto in questione, si trova indolente δυσθρηνήτοις θρήνοις, fra lamenti ‘lugubri, ‘ molto dolorosi’; lo stesso termine δυσθρήνητος contiene la radice θρην-, legata al pianto inteso anche in un senso melodico (θρηνεύω significa ‘piangere’ – Platone, Apologia di Socrate, 38d; Euripide, Fenicie, vv. 1434-5; Oreste, v. 984; Eracle, vv. 1053-4 -, ma anche ‘innalzare’ canti – ᾠδάς θρηνήσει in Sofocle, Aiace, vv. 630-1; ἀοιδήν […] ἐθρήνεον – Iliade XXIV, vv. 721-2), e presenta il prefisso δυσ-4, che qui non nega il secondo elemento della parola composta, ma anzi lo amplifica. A porre un accento sugli attributi musicali del θρῆνος-lamento concorrono i vv. 181-2: ἐξαυδάσω τὰν ἐν θρήνοις μοῦσαν νέκυσιν μέλεον, ovvero ‘intonerò per i morti la triste musica dei cordogli’. Una traduzione letterale chiarisce ancora di più questo riferimento: la μοῦσα è ἐν θρήνοις, naturalmente ‘insita nei lamenti’; la musicalità è intrinseca al suono dei gemiti, non esclusivamente della forma ‘canto funebre’, ma proprio per questo il lamento assume, a posteriori, una valenza formale nel momento in cui sia esercitato in coro: la stessa considerazione è valevole anche per due esempi del tutto simili, quelli di Elena, vv. 165-6 (ἢ τίνα μοῦσαν ἐπέλθω δάκρυσιν ἢ θρήνοις ἢ πένθεσιν; ‘quale canto potrei spiegare, tra le lacrime, il lutto e il cordoglio?’) e 174-6 (μουσεῖα θρηνήμασι ξυνῳδὰ πέμψειε Φερσέφασσα, ‘possa Persefone mandare cori in accordo coi miei lamenti), nonché per Fenicie, vv. 1301-3 (βοᾷ βαρβάρῳ ἰαχὰν στενακτὰν μελομέναν νεκροῖς δάκρυσι θρηνήσω, ‘con barbaro grido intonerò un lamentevole suono che si addice ai morti). Nel secondo passo è particolarmente interessante l’uso dell’aggettivo ξυνῳδός, ‘consono’, ‘accordato’, come trait d’union fra μουσεῖα e θρήνημα, in quanto termine qualificato dalla radice ῳδ- e di significato, letteralmente parlando, musicale: la stessa espressione sintagmatica compare anche nell’Oreste, ai vv. 132-3 (αἵδ’ αὖ πάρεισι τοῖς ἐμοῖς θρηνήμασι φίλαι ξυνῷδοι – ‘ecco qui le mie amiche, accordate ai miei lamenti’), nelle parole di Elettra a colloquio con Elena.
Nelle Fenicie, vv. 1635-6, leggiamo: σὺ δ’ ἐκλιποῦσα τριπτύχους θρήνους νεκρῶν κόμιζε σαυτήν, Ἀντιγόνη, δόμων ἔσω (‘E tu, Antigone, abbandonando i triplici lamenti dei morti, ritirati in casa’), ossia le parole che Creonte rivolge ad Antigone, affinché non si preoccupi di onorare il cadavere di Polinice; abbiamo ancora un esempio di lamento ‘dei morti’, indice dell’espressività, in certi contesti, di dover specificare a quale scopo questi pianti fossero destinati (cfr. Supplici, vv. 87-8, τίνων γόους ἤκουσα καὶ στέρνων κτύπον νεκρῶν τε θρήνους […]?). La variante τριπτύχων νεκρῶν γόους prende vita, presumibilmente, quale parafrasi del testo5, e non senza ragione: γόος significa ‘pianto’, ‘lamento’, ed è termine che, più volte comparendo insieme a θρῆνος (cfr. Supplici, vv. 87-8 poc’anzi menzionati; Andromaca, vv. 91-3, ἡμεῖς […] θρένοισι καὶ γόοισι […] πρὸς αἰθέρ’ ἐκτενοῦμεν e Medea, v. 1211, ἐπεὶ δὲ θρήνων καὶ γόων ἐπαύσατο) rafforza l’idea che molto facilmente i Greci mettessero in correlazione i gemiti con la musicalità, come si evince dall’attestato utilizzo del termine per descrivere lo squillante verso dell’usignolo – animale musicale per eccellenza (Sofocle, Aiace, v. 628), del quale attributo è l’essere πάνδυρτος (Sofocle, Elettra, v. 1077: cfr. Ecuba, v. 212, dove avevamo visto lo stesso attributo riferito al θρῆνος). La terminologia del lamento e del commiato è dunque accostata a più riprese ad una qualità melodica e poetica, secondo una concezione piuttosto distante dalla nostra, più austera e ritenuta nell’espressione del dolore. E sempre a proposito dell’usignolo, nell’Elena leggiamo, ai vv. 1111-3:
ἔλθ’ ὦ διὰ ξουθᾶν
γενύων ἐλελιζομένα
θρήνων ἐμοὶ ξυνεργός
Ossia ‘Vieni qui, ad aiutarmi nei canti funebri, col tuo squillante trillo proveniente dalla tua gola dorata’; proprio nel momento in cui i protagonisti sono giunti ad elaborare un piano ingannatore, e si accingono a realizzarlo nel finale, il Coro invoca il grazioso volatile, secondo i canoni della preghiera agli dèi (con indicazione del luogo in cui vive, della sua sfera d’azione e delle sue potenzialità)6, affinché si unisca concretamente alle esecuzioni di commiato. Del θρῆνος l’usignolo è perciò paradigmatico simbolo, per via del sinolo di dolcezza e tristezza che ne connotano il trillo (cfr. Odissea XIX, vv. 518-23; Eschilo, Agamennone, vv. 1140-5; Sofocle, Elettra, vv. 103-9, 142-52, 1075-7)7.
Un connubio, quello tra dolcezza e tristezza, che, se realmente noto nel contesto del genere trattato (e del lamento in generale), forse suggerisce qualcosa di più su quel modo lidio caratterizzato da terza maggiore e, perciò, all’apparenza difficile da accostare al canto funebre; e la conferma di questa corrispondenza è data dai vv. 608-9 delle Troiane (ὡς ἡδὺ δάκρυα τοῖς κακῶς πεπραγόσι θρήνων τ’ ὀδυρμοὶ μοῦσα θ’ ἣ λύπας ἔχει – ‘come sono dolci le lacrime per coloro che soffrono e i lamenti di lutto e la poesia che contiene dolori’; cfr. vv. 120-1). Euripide scrive propriamente di dolcezza insita nei ‘lamenti θρήνων’, dunque senza utilizzare un unico termine; la specificazione lascia pensare che qui si stia parlando, propriamente, dei ‘lamenti presenti nei cortei funebri’, ma se anche così non fosse, come abbiamo detto, l’importante è denotare un collegamento fra i termini ἡδύς e θρῆνος: sia il lamento che il genere poetico-musicale sono da affiancare ad immagini di commozione, pianto, impotente desolazione e talvolta dolce nostalgia, più che ad icone di gravità, solennità, grandiosità titanica.
Insomma, se volessimo azzardare paragoni musicali, il θρῆνος probabilmente sarebbe più affine alle note del Che farò senza Euridice? gluckiano, piuttosto che alle marce funebri ottocentesche o all’apocalittico Dies Irae di Tommaso da Celano; Orfeo ricorda l’amata, tanto da pronunciare (in modo maggiore) le parole della celebre aria e da compiere l’estremo gesto del suicidio. La rassegnata pateticità della commemorazione funebre è ampliata da quel tipico gesto del battersi il petto (Supplici, vv. 87-8: τίνων γόους ἤκουσα καὶστέρνων κτύπον νεκρῶν τε θρήνους […]; ovvero ‘Di chi ho udito i lamenti, il battersi del petto e i canti per i morti […]?). Molto interessante è che i vv. 91-3 dell’Andromaca, ἡμεῖς […] θρήνοισι καὶ γόοισι […] πρὸς αἰθέρ’ ἐκτενοῦμεν (‘Noi […] leviamo al cielo canti funebri e lamenti’), prefigurino la monodia lirica seguente, che ha caratteristiche tali da rappresentare – probabilmente – una vera e propria novità nella tecnica tragica: i vv. 103-16 infatti, all’interno dei quali Andromaca rievoca rapidamente le tappe del proprio doloroso e recente passato, costituiscono l’unico esempio di impiego del distico elegiaco all’interno della tragedia; che fosse un brano cantato ce lo suggeriscono la presenza di dorismi – il dorico è il dialetto per eccellenza delle composizioni corali – e le fonti scoliastiche. Abbiamo così un importante indizio su quello che potesse essere il ritmo del canto trenodico: molto simile a quello dell’elegia, anche quando tale da presentare molte similitudini col linguaggio parlato, e affine a quello dell’inno scritto, anch’esso caratterizzato dalla presenza di molti dattili (il metro era infatti l’esametro).
Potremmo formulare a oltranza altre ipotesi sulla qualità ritmica e armonico-melodica di questo genere, ma chissà: probabilmente la consapevolezza di poter solo immaginare quel che ormai non è più concepibile dal nostro orecchio rispecchia il fine ultimo del genere, il sentimento che qui soltanto con l’arida ragione si è cercato di evocare.
Note:
- Si pensi all‘Agitato del preludio 3 n. 2 di Rachmaninov.
- Si pensi alle battute 15-28 del terzo movimento della Sonata 2 di Chopin, altrimenti noto come Marcia funebre.
- Si pensi, per degli esempi di modo maggiore o minore quasi privo di funzioni tonali, alla Première Série delle Images di Debussy, o, per il solo modo maggiore, al balletto Daphnis et Chloe di Ravel.
- Kyriakou 2006,
- Mastronarde 1994,
- Fusillo 1997, 142-3.
- Ivi, 143.
BIBLIOGRAFIA (Per la bibliografia sui modi si veda l’articolo sull’inno: https://shorturl.at/ginCZ)
Sul canto trenodico
Fusillo, Euripide. Elena, Milano 1997.
Kyriakou, A Commentary on Euripides’ Iphigenia in Tauris, Berlin 2006.
D.J. Mastronarde, Euripides. Phoenissae, Cambridge 1994.
Gabriele Cupaiolo