L’eroe Rostam e altri miti dell’Antico Iran – Filippo Mercuri
L’eroe Rostam e altri miti dell’Antico Iran – Filippo Mercuri
Nel nostro precedente articolo1 abbiamo offerto al lettore un affresco sui costumi delle vite degli eroi dello Šāhnāmeh (Il Libro dei Re) di Ferdowsī2, un poema dalla prosa copiosa, ricca, patriottica e rivolta all’anima del popolo dell’Īrān3, il che permette di collocare il suo autore, a giudizio di Italo Pizzi, “nella nobile schiera dei più grandi poeti che vantino le letterature antiche e le moderne”, composta da “Omero, l’ignoto autore del poema di Giobbe, Eschilo, Virgilio, Dante, Shakespeare e Goethe”4. La sensibilità dell’iranista può convergere con la constatazione di un altro grande autore: “Osservisi che gli antichi poetavano al popolo, o almeno a gente per la più parte non dotta, non filosofa. I moderni all’opposto; perché i poeti oggidì non hanno altri lettori che la gente colta e istruita, e al linguaggio e alle idee di questa gente vuolsi che il poeta si conformi, quando si dice ch’ei debba ser contemporaneo non già al linguaggio e alle idee del popolo presente, il quale delle presenti né delle antiche poesie non sa nulla né partecipa in conto alcuno”5.
In questo spazio torneremo ad occuparci degli eroi iranici riflettendo sulla storia del più celebre di loro, Rostam, soffermandoci su come veniva scelto il nome per i nascituri, su quale educazione veniva loro impartita, sulla scelta della sposa e infine sulla cerimonia nuziale. Del resto, questa poco nota civiltà tradizionale ha dato i natali al profeta Zarathustra (in avestico Zaraθuštra), l’eroe di Friedrich Nietzsche, il quale “non prendendo nulla a prestito dalla filologia, e nemmeno dalla storia tradizionale, nella sua ricerca del Superuomo si rivela talvolta più «zarathustriano» di quanto generalmente si ritenga”6; infatti, “la grandezza di Zarathustra sta nel suo conoscere, ma dalla sua conoscenza sgorga una fonte, il suo canto, che disseta gli uomini, e li riavvince a una vita trasfigurata, riscoperta come ricchezza terrestre di gioia”7.
Fondamentale per il nuovo nato e futuro eroe dell’Iran era l’imposizione di un nome che fosse di lieto e fausto augurio, che corrispondesse a certe qualità di animo e di corpo secondo l’ideale di matrice indoeuropea per il quale “il nome di un bambino preconizza ciò che egli diventerà, imponendogli al contempo l’obbligo morale di realizzare questa aspettativa e lo ricollega alla famiglia da cui discende richiamando il nome del padre e, talvolta, anche quello della madre”8. In tal senso è degna di nota l’antichissima leggenda, dall’origine misteriosa e complessa, che già si era consolidata nella tradizione mitica degli Sciti, popolazione nomade di stirpe iranica proveniente dalle steppe orientali dell’Eurasia9, che vede come protagonista Rostam, il campione dei campioni che indossa una pelle di pantera10 ed è noto anche come l’Eracle dell’Iran11. Rostam, dopo aver superato Sette Fatiche, avrebbe infine intronizzato Kay Kobād, il leggendario capostipite della dinastia dei Kayanidi12.
I Kayanidi, nella tradizione epica iranica, sono la dinastia che governò l’Iran prima degli Achemenidi, la dinastia che avrebbe donato alla Storia sovrani del calibro di Ciro, Serse e Dario. Il prefisso Kay, dall’avestico kauui, deriva dal termine indo-iranico Kavi “visionario, poeta”13. Predecessori dei Kayanidi sarebbero stati i mitici Pišdādiāni, il cui capostipite, secondo lo zoroastrismo, sarebbe stato il primo uomo, Gayōmart, “Vita mortale”, portato in vita dalla suprema divinità creatrice, il “Saggio Signore” Ahura Mazdā (così in avestico, ma Ahuramazdā in antico-persiano cuneiforme e Ohrmazd in medio persiano e in fārsī).
Gayōmart, secondo lo Šāhnāmeh, sarebbe stato il primo re del mondo. Questi avrebbe governato per trent’anni, dapprima indossando pelli di animali e vivendo sulle montagne, e avrebbe insegnato all’umanità come nutrirsi e vestirsi. Durante il suo regno, il figlio Siāmak venne ucciso in battaglia dallo “Spirito Malvagio”, Ahreman (Aṇgra Mainiiu in avestico antico e Aŋra Mainiiu in avestico recente). Ahreman verrà sconfitto a sua volta in un’ulteriore battaglia con Gayōmart e il figlio di Siāmak, Hošang “colui che costruisce buone abitazioni; promotore della cultura e della vita sedentaria; che ha fatto una buona scelta (religiosa)”, il quale sarebbe succeduto a Gayōmart divenendo il capostipite dei Pišdādiāni14.
Torniamo ora all’Ercole dell’Iran. Il nome Rostam “dal corpo forte, donatore della corona, incoronante”15 sembra derivare dall’antico iranico *rautas-tauhma “Che ha la forza di un fiume”, ed è un epiteto di natura acquatica come quello di sua madre Rudāba < *Rautah-api “Lei (delle) acque del fiume”, e come quello suo figlio Sohrāb < *Sukhra-api “Acqua Rossa”16. Si noti che secondo la Tabula Albana l’Ercole degli Sciti avrebbe dato origine al suo popolo sconfiggendo in battaglia Araxes, un dio fluviale17.
Rostam avrebbe avuto dalla moglie Tahmina altri due figli: Faramarz, un maschio, e Bānu Goshasp, una femmina. Il nostro eroe avrebbe inoltre adottato Siyâvash, figlio del re Kay Kāvus e nipote del leggendario Kay Kobād, al quale insegnò come indossare l’armatura, come cingere la spada e usare la clava, come guidare i carri e domare i cavalli, come tendere l’arco e costruirsi le frecce, come sedersi a un banchetto e come, assiso sul trono, dovesse dare udienza, senza dimenticare come doveva comportarsi un uomo pio e devoto18. Costumi, questi, che ci ricordano come durante il nostro Medioevo il futuro cavaliere veniva inviato presso il castello di un potente barone come paggio. Rostam ricevette a sua volta questa educazione cavalleresca da suo padre, Zāl, il quale gli impartì le sue lezioni all’interno un giardino, facendosi accompagnare da copiose libagioni di vino allo stesso modo degli eroi di Omero: “il popolo dei Persiani, con la sua cultura cavalleresca, presentava una stretta affinità con l’antica kalokagathía ellenica, cioè con l’ideale educativo dell’uomo fisicamente e spiritualmente valente. […] Ora possiamo definire questo modello come greco-iranico”19.
Rostam era nato da Rudāba, la figlia di Mehrāb, il re di Kabul, e la storia di questa principessa virtuosa, bella, devota, risoluta e colta ha esercitato un’importante influenza su una favola dei Fratelli Grimm: Rapunzel20. Ecco come il poeta Ferdowsī descrive Rudāba: “Ell’è dal capo al piede | D’un eburneo candor, qual primavera | Le gote sue, d’un agile arboscello | La sua statura. Su le argentee spalle | Scendono a lei le brune trecce, ai capi | Ravvolte come anel. Son le sue guance | Qual melagrano, qual vermiglia pruna | Le labbra e sorgon da l’argenteo seno | Due grani rubicondi. A bei narcisi | In un giardin son gli occhi eguali, il ciglio | Nero qual penna di corvino augello; | Piegate son le sopracciglia a foggia | D’un arco di Tiràz, di cui nereggia | Lucida e folta la coperta. Cerchi | La bianca luna? è ben costei nel viso | Candida luna, e se fragranza cerchi | Di muschio, è sua quella fragranza. Bella | Qual paradiso ell’è, tanto ell’è adorna, | Piena di grazia e di dovizie e dolce | E cara, si davver! ch’essa è ben degna | Di te, famoso prence. Ella somiglia | A questa luna che pel ciel va errando”21.
Il “famoso prence” che si innamorò di Rudāba, ricambiato, era Zāl, noto anche come Zar o Zāl-e zar “vecchio”22. Zāl nacque con i capelli bianchi e venne perciò abbandonato dal padre Sām, “fuoco” in fārsī, quando era ancora in tenera età sui monti Alborz. Qui si prese cura di lui la Fenice-Simorḡ, l’“uccello simbolo di Dio che nidifica sull’albero della vita”23, che lo avrebbe fatto diventare un uomo intelligente, forte e bellissimo. Sām avrebbe infine riconosciuto il suo errore e Zāl, cui Simorḡ donò alcune sue piume contenenti il farr, la “luce di gloria” donata da Dio (in avestico xvarənah e in medio persiano xwarrah), sarebbe divenuto noto da questo momento in poi anche con il nome di Dastān, parola che potrebbe derivare dal medio persiano dastan “capace; discendente di *Dast”24 , venendo convocato dal re Manučehr presso la sua corte.
Simorḡ avrebbe in seguito istruito Zāl su come far nascere Rostam: il neonato era gigantesco, al punto che, crescendo, non sarebbe bastato il latte di dieci nutrici per saziarlo. Rudāba sarebbe rinvenuta da un lungo svenimento dopo che Zāl riuscì a praticare la versione persiana del parto cesareo (rostamzad). Dopo che le ancelle porsero il bambino alla madre, quest’ultima avrebbe parlato con flebile voce dicendo: «Oh Rostam!»; di qui l’antica interpretazione di questo nome come “Io sono libera da ogni travaglio”25.
Il padre di Rudāba, Mehrāb, era tuttavia un idolatra, probabilmente un buddhista26. L’amore di Zāl per la sua bella fu messo alla prova fino alla fine dal re Manučehr, il quale, avvalendosi di un’assemblea di sacerdoti mazdei, i Magi, gli avrebbe sottoposto diversi enigmi, che Zāl riuscì a risolvere27: un episodio che trova affinità con la storia di Giocasta a Tebe e con l’usanza del nostro Medioevo di dare in premio la mano di una nobile donzella a colui che si dimostrava capace di trovare la soluzione a determinati indovinelli.
In terra d’Iran la sposa veniva condotta a casa dello sposo, secondo quanto è proprio dell’originario costume indoeuropeo. “Il termine primitivo che indica il condurre in matrimonio è wedh. Questo implica lo sbocco finale di un nucleo semantico, che consisteva nel ‘condurre a casa il frutto raccolto’, e cioè un resto dell’antica civiltà di collettori. Ma che fosse oramai saldamente legato alla donna, è provato dal fatto che nelle lingue arie una forma arcaica come wedhū (vadhū in sanscrito) significa ‘donna’; che è dunque un oggetto di un condurre tutto dedicato a lei. E che si tratti sempre di un condurre, è mostrato da quanto avviene in latino: uno stesso verbo duco (deuk) sostituisce l’antico ‘condurre militare’ (nei) come l’antico ‘condurre matrimoniale’ (wedh). Ma il latino non «interpreta» soltanto l’antico wedh con la formula uxorem ducere. Il latino lo sostituisce con il verbo nubere, che non solo mantiene ma accentua il carattere originario del ratto: la sposa, sottratta, attraverso il simbolo di un velo (cf. nubes), alla vista del gruppo famigliare di origine, è equiparata al frutto sottratto a un concorrente, se non proprio a un vicino”28.
Ma lo sfarzo del matrimonio era ben lontano dalla semplicità del rito primitivo, come si può appurare leggendo delle nozze di Zāl e Rudāba29. Lo sposo e suo padre, accompagnati da un seguito di guerrieri e sacerdoti, con cammelli ed elefanti carichi di ricchi doni, incontravano il genitore della sposa, anch’egli con un seguito non di dissimile imponenza. Il suocero poneva sul capo del futuro genero una corona ornata di gemme affinché potesse proseguire nel suo viaggio verso il castello della sposa. Nelle prossimità del castello, si mostrava la madre della sposa, seguita da ancelle che cantavano le lodi dello sposo e che reggevano nappi d’oro contenenti gemme, monete, muschio e zafferano, che esse spargevano tra la folla e ai piedi dello sposo e del padre suo. Nel frattempo, compagnie di musicisti con trombe e tamburi arricchivano l’atmosfera di gioia. Il padre dello sposo scendeva da cavallo e, dopo essersi inchinato di fronte alla madre della sposa, veniva da lei invitato ad entrare e ad ammirare la propria figlia: il fiore del suo giardino, la gemma più preziosa. Raggiunta la sala maggiore del castello, ecco comparire la giovane, tutta bella vestita e ornata, seduta su un trono dorato. Il padre dello sposo si complimentava con il figlio per l’avvenenza della fanciulla mentre il padre di lei, assistito dai sacerdoti, e alla presenza di tutti gli invitati, dichiarava congiunti di due giovani, raccomandando al genero di amare la figlia ancor più della sua stessa anima.
Lo sposo poteva infine sedersi sul trono accanto alla sposa. Tutti gli astanti, in clima di festa, gettavano ai piedi degli sposi rubini, smeraldi, diamanti, muschio odoroso, canfora, zafferano e ambra gialla, dichiarando che il sole era finalmente congiunto alla luna. Veniva così presentata la carta sulla quale erano registrati i donativi che il padre faceva alla figlia sua e potevano cominciare i festeggiamenti, che potevano ripetersi per una settimana, perfino per un mese, con un’incredibile profusione di cibi e di vini. Lo sposo si sarebbe infine licenziato dai genitori della sposa e, accompagnato da numerosi auguri e benedizioni, avrebbe condotto la consorte, seduta su un palanchino, alla casa del proprio padre.
Note:
- Filippo Mercuri, La vita ai tempi eroici di Persia, su Pagine Filosofali, 23-12-2024, https://www.paginefilosofali.it/la-vita-ai-tempi-eroici-di-persia-filippo-mercuri/ .
- Firdusi, Il Libro dei Re. Poema epico persiano, recato in versi da Italo Pizzi, 8 voll., Vincenzo Bona, Torino 1886-1888. Un’ottima edizione italiana del poema, sebbene non integrale, è quella di Francesco Gabrieli per i tipi della UTET (1969). La versione dell’orientalista romano, al giorno d’oggi di difficile reperibilità, è stata ripresentata ai lettori da Luni Editrice nel 2018.
- Ricordiamo che con il termine “Persia” (Fārs) ci si riferisce a quella piccola regione dell’Iran dalla quale hanno avuto origine le prestigiose dinastie degli Achemenidi e dei Sasanidi. La lingua nazionale dell’Iran è il persiano moderno o fārsī. La parola Īrān, ovvero “la terra degli Ari”, deriva dal medio persiano Ērān (plurale obliquo di ēr “nobile”), a sua volta derivato dal termine indo-iranico *aryānām “degli Ari”, genitivo plurale di ā̆rya- “ariano, nobile”.
- Italo Pizzi, Dante e Firdusi. Prolusione ad un corso di lingue e letterature orientali, letta il 16 novembre 1908 nella R. Università di Torino, in «Rivista d’Italia», 12 (1909), 2, p. 190.
- Giacomo Leopardi, Memorie, a cura di Francesco Flora, Universale Economica, Milano 1950, p. 159.
- Paul du Breuil, Zarathoustra (Zoroastre) et la transfiguration du monde, Payot, Paris 1978, pp. 9-10.
- Giorgio Colli, Nota introduttiva a Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1968 e 1976, p. xiv.
- Jean Haudry, Gli Indoeuropei. Edizione italiana rivista e aumentata. Traduzione a cura di Fabrizio Sandrelli, Edizioni di Ar, Padova 2001, pp. 28-29.
- Mahmoud Hassanabadi, Rostam. A Complex Puzzle. A New Approach to the Identification of the Character of Rostam in the Iranian National Epos Shāhnāme, in Forogh Hashabeiky (ed.) International Shāhnāme Conference. The Second Millennium. Department of Linguistics and Philology, Uppsala University, Sweden, October 15–16, 2011. Conference proceedings, Acta Universitatis Upsaliensis, Uppsala 2014, pp. 67-84.
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- Firdusi, Il Libro dei Re. Poema epico persiano, recato in versi italiani da Italo Pizzi, vol. I, Vincenzo Bona, Torino 1886, pp. 123-132. Si veda anche A. Shapur Shahbazi, “HŌŠANG”, Encyclopædia Iranica, XII/5, pp. 491-492, disponibile online su http://www.iranicaonline.org/articles/hosang (visitato il 3-1-2025).
- Alireza Shapour Shahbazi, The Parthian Origins of the House of Rustam, in «Bulletin of the Asia Institute, New Series», 7 (1993), p. 158.
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- Firdusi, Il Libro dei Re. Poema epico persiano, recato in versi italiani da Italo Pizzi, vol. I, Vincenzo Bona, Torino 1886, pp. 427-436.
Filippo Mercuri