L’epopea di Gilgamesh – Luigi Angelino
“Epopea di Gilgamesh” è il titolo attribuito dagli studiosi moderni ad un ciclo epico di ambientazione sumerica, che risale in maniera presuntiva a circa 4.500 anni fa, in quanto la data di elaborazione più probabile è individuata tra il 2.600 ed il 2.500 a.C.. Il poema fu redatto in caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla e ne esistono diverse versioni, pervenute fino ai nostri giorni seguendo varie provenienze. Il ciclo epico narra le gesta di Gilgamesh, re sumero di Uruk, nipote di Enmerkar e figlio di Lugalbanda. Di tale opera la versione più conosciuta è quella che fu elaborata per la biblioteca del re assiro Assurbanipal (1), attualmente conservata nel British Museum di Londra, anche se sono stati analizzati dagli esegeti alcuni frammenti di testi derivanti da altre ricostruzioni più antiche. Il ciclo epico di Gilgamesh, composto secoli prima dell’Iliade e dell’Odissea, costituisce il più antico e significativo esempio di elevazione spirituale della civiltà umana, capace di influenzare tutte le culture successive ed, in particolare, la sapienza biblica. Alcune tavolette cuneiformi riportanti le vicende di Gilgamesh sono state scoperte nella penisola anatolica, redatte in lingua ittita ed hurrita, evidente dimostrazione di come fin dall’antichità sia stata avvertita la ricchezza dell’ispirazione dell’opera (2). Le fonti storiche che riguardano il testo sono abbastanza complesse, abbracciando un periodo di tempo di ben duemila anni, anche se quella considerata più attendibile è il poema originario in lingua sumera, con la successiva versione in lingua accadica. Quest’ultima è considerata la base per le traduzioni moderne, mentre la composizione originaria in lingua sumerica serve per lo più allo scopo di chiarire alcuni dubbi interpretativi. Il nucleo più antico dell’epopea è considerato come una raccolta di storie separate e si fa risalire alla terza dinastia Ur, mentre la versione accadica dovrebbe essere stata redatta all’inizio del secondo millennio a.C., quando alcuni anonimi autori utilizzarono il materiale raccolto per formare un’epica unitaria. Secondo la tradizione, la versione standard, formata da dodici tavole, sarebbe stata fissata da Sin-leqi-Unnini (3) tra il 1300 ed il 1100 a.C., per poi finire nella prestigiosa raccolta della biblioteca del re Assurbanipal a Ninive. Per quanto riguarda il ritrovamento del capolavoro sumerico, in maniera estremamente sintetica si può dire che esso fu scoperto nel 1853 dall’archeologo Hormuzd Rassam e nel 1870 ne fu pubblicata una traduzione in inglese da parte dell’assirologo George Smith, alla quale seguirono molte altre versioni nelle lingue moderne. Circa vent’anni fa, Andrew George ha pubblicato una versione critica del poema, presentando il testo delle dodici tavolette in lingua originale, con a fianco la traduzione in inglese (4).
La trama del poema, nella sua versione originale, racconta delle vicende di Gilgamesh, re di Uruk, la cui storicità è molto controversa. Egli è presentato, all’inizio, come un re oppressore, contro il quale la popolazione invoca l’aiuto degli dèi. Questi, allora, decidono di creare il “guerriero primitivo”, Enkidu, inviandolo nella città di Uruk per tenere testa al tremendo sovrano. Dapprima Enkidu apprende le pratiche amorose ed i primi rudimenti della civiltà, unendosi alla prostituta sacra (5) Samhat, in un percorso di ascesi simbolica di acquisita consapevolezza. Così istruito, Enkidu raggiunge Uruk dove conosce il re ed ha con lui un violento, ma leale combattimento. La lotta è ad armi pari e ciascuno dei contendenti riconosce l’altissimo valore dell’altro, stringendo una solidissima amicizia, da alcuni autori accostata a quella di omerica memoria tra Achille e Patroclo. Gilgamesh convince Enkidu a seguirlo nella foresta dei Cedri per sconfiggere il mostro Humbaba. Dopo un duro scontro, il mostro viene immobilizzato e chiede clemenza a Gilgamesh che si lascia quasi impietosire. L’amico, tuttavia, lo convince delle parole menzognere del prigioniero e lo spinge ad ucciderlo. Rientrati ad Uruk, Isthar (6), dea dell’amore, si invaghisce perdutamente di Gilgamesh, ma il re la rifiuta e la schernisce, ricordandole il triste destino incontrato da tutti i suoi precedenti spasimanti. Allora la dea, ferita ed umiliata, si rivolge al dio del cielo An, che, dopo molte esitazioni, manda il Toro Celeste per punire lo sfrontato Gilgamesh. Il sovrano di Uruk ed il suo fedele compagno riescono a sconfiggere e ad uccidere il Toro celeste, ma tale azione suscita la riprovazione del consiglio degli dèi che decide di punire con la morte uno dei due eroi. La scelta ricade su Enkidu che, colpito da una malattia mortale, dopo dodici giorni di atroci sofferenze e di accorate suppliche all’amico Gilgamesh, perde la vita. Il re di Uruk è disperato per la perdita dell’amico e, dopo avergli celebrato un sontuoso funerale, non riesce a darsi pace per la sua morte, decidendo di intraprendere la strada per conoscere il segreto dell’immortalità. A questo punto, Gilgamesh parte vagando per la steppa, alla ricerca di Utanapsistim, l’unico sopravvissuto al diluvio universale, a cui gli dèi avevano consentito di vivere in eterno. Il viaggio di Gilgamesh diventa irto di ostacoli e più avventuroso, dovendo superare la montagna protetta dagli uomini-scorpione ed il mare della morte, per raggiungere il grande Utanapistim. Questi, allora, gli racconta del diluvio universale e dell’esistenza della pianta dell’eterna giovinezza, nascosta in fondo al mare. Dopo essersi di nuovo messo in viaggio, Gilgamersh la recupera dagli abissi ma, sulla via del ritorno, mentre sosta presso una pozza d’acqua per le purificazioni, un serpente mangia la pianta, rinnovando la sua pelle. Persa la speranza dell’immortalità, Gilgamresh si dispera, ma raggiunge la consapevolezza dell’inesorabile destino mortale degli uomini. La XII tavola appare alquanto slegata dal resto della trama, poiché, come in una sorta di flashback, narra della caduta dei preziosi strumenti di guerra di Gilgamesh negli inferi e del recupero di questi da parte di Enkidu. Nonostante le raccomandazioni ricevute, Enkidu viola le regole del mondo dei morti e non può tornare più nel mondo dei vivi, anche se Gilgamesh ottiene dagli dèi il consenso per incontrare l’ultima volta l’amico che gli racconta dell’inevitabilità del destino umano.
Prima di passare ad una breve rassegna sulla struttura del testo e sui suoi significati simbolici, mi preme sottolineare le notevoli relazioni di alcuni temi presenti nell’epopea di Gilgamesh con i testi biblici, in special modo con il libro della Genesi. Si pensa che alcuni temi siano diventati così diffusi in ambito mesopotamico da influenzare tutte le popolazioni della medesima area geografica, in particolare gli Ebrei durante il periodo di deportazione babilonese (7). Sappiamo infatti, con ragionevole certezza, che la redazione del torà pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia Masoretica e dell’Antico Testamento della Bibbia cristiana, fu fissata proprio in tale contesto socio-culturale. Vi sono numerose assonanze e similitudini, nella trama e nei personaggi, come il Giardino dell’Eden, il Diluvio Universale, la figura del serpente et cetera. Peraltro, il riferimento al diluvio universale è presente nelle testimonianze di tutte le antiche civiltà, al punto da far pensare ad un archetipo unico, come eco di un’ancestrale reminiscenza, alla quale tutte le generazioni successive avrebbero attinto. Dando uno sguardo alla struttura del poema, è d’obbligo precisare che i popoli del vicino oriente non erano soliti dare un titolo alle opere letterarie e tanto meno era diffusa la consuetudine di segnare il nome degli autori. Come abbiamo detto in apertura, “Epopea di Gilgamesh” è un titolo coniato dagli esegeti moderni, mentre gli scribi babilonesi e, prima di loro, quelli sumerici, usavano citare le opere letterarie nei cosiddetti “cataloghi”, a noi pervenuti in numero notevole, che riportavano la riga iniziale del testo (8). Nel caso della versione canonica del poema di Gilgamesh, avremmo potuto trovare l’iscrizione: “Sha naqbaimuru” (di colui che vide ogni cosa). In pratica le opere erano contrassegnate con l’incipit del testo di riferimento, come è stato riscontrato con i libri della bibbia ebraica. Ciò che rendeva complicata l’identificazione di un’opera era il fatto che molto spesso l’incipit era simile per molti testi, utilizzando espressioni idiomatiche, un po’ come il “c’era una volta” che anticipa ogni fiaba. Oltre all’utilizzo dei cataloghi, per indicare le opere custodite in una biblioteca, gli scribi avevano l’abitudine di annotare alcune osservazioni al margine di ogni testo. A questa tipologia di annotazione, gli studiosi moderni hanno attribuito la definizione di “colofone” (9). Di solito le annotazioni erano apposte alla fine di ogni tavoletta, quando l’opera risultava troppo lunga. Un colofone poteva contenere molteplici informazioni, davvero importanti per capire il contenuto e l’origine di un’opera. Nel caso specifico, una costante di tutti i colofoni ritrovati, oltre alla già citata prima riga, è stata l’aggiunta “serie di Gilgamesh”.
E’ importante notare che, mentre nei colofoni della versione classica appare la scritta “serie di Gilgamesh”, in quella ittita si legge “canto”, una precisazione forse molto più assimilabile ad un vero e proprio titolo. Una vera querelle è derivata dall’interpretazione del sibillino finale canonico, non particolarmente apprezzato da una parte degli studiosi, perchè ritenuto troppo slegato dal resto della vicenda. A tal proposito sono state riesumate versioni alternative dell’epilogo, appartenenti ad altre tradizioni precedenti o contemporanee, come ad esempio l’elogio funebre alla morte di Gilgamesh. Alcuni preferiscono considerare la conclusione del poema con il ritorno di Gilgamesh nella città di Uruk (10), così come riportato nella XI tavola, richiamando la figura stilistica dell’inclusione: l’opera si aprirebbe con la lode della città di Uruk e si chiuderebbe allo stesso modo. In realtà si tratterebbe di un’interpretazione forzata, in quanto contrastante con la fissazione canonica assira del poema in XII tavole, anche se è quasi certo che quest’ultima sia stata aggiunta da Sinlequiunnini, o da un gruppo di scribi, mitizzati dai posteri nella sua figura. A ben guardare, inoltre, il racconto della morte dell’eroe falserebbe il reale messaggio del redattore. Il suo intento, infatti, era quello di descrivere un percorso di maturazione e di consapevolezza interiore, sottolineando l’acquisita saggezza del sovrano, al termine di tutte le straordinarie peripezie vissute, mentre l’evento della sua morte era dato per scontato.
L’epopea di Gilgamesh è una delle prime riflessioni della civiltà umana sul senso della vita e di conseguenza sul significato della morte, articolandosi con estrema raffinatezza di contenuti su tre temi principali: il viaggio, la tradizione culturale ed il senso della vita. Una gran parte di critici intravede nell’opera un percorso educativo del protagonista, simboleggiato attraverso i luoghi descritti nel testo. La parabola di Gilgamesh doveva servire ai destinatari dell’opera che si accingevano ad intraprendere un percorso per acquisire un grado di consapevolezza superiore. Non a caso Gilgamesh all’inizio è descritto come un oppressore, mentre alla fine del poema si impone come sovrano saggio ed amato dal suo popolo. Ad indicare la vastità delle esperienze vissute dal protagonista è proprio il prologo: “Gilgamesh vide ogni cosa, ebbe esperienza di ogni cosa, in ogni cosa raggiunse la sua compiuta saggezza”. La metafora del viaggio come percorso educativo è rivelata anche dalla doppia scansione temporale in cui si dipana l’intera vicenda: nella prima parte del poema, il protagonista vive in una dimensione irreale, quasi appartata dal resto del mondo, mentre nella seconda parte si muove in un contesto sociale, conquistando la stima e la riconoscenza dei propri sudditi. Il secondo tema è quello culturale, in quanto il poema ci offre un quadro preciso ed, in certi casi, anche dettagliato della struttura sociale sumerica. In particolare, si sottolinea l’importanza della conquista della “scrittura”, come strumento di diffusione culturale e di possibilità di comunicazione duratura e fondante lo stesso concetto di storia. Il prologo non fa che anticipare il gesto che compirà Gilgamesh nell’epilogo, quando avrà acquisito un adeguato livello di saggezza: egli fece incidere tutte le sue fatiche su una stele di pietra. Si può dire che tutta la sapienza sumerica sia racchiusa nella straordinaria scoperta della scrittura, per tradizione attribuita a Enmerkar, nonno di Gilgamesh. Nell’opera si recupera anche il senso degli avvenimenti storici, quando il protagonista disporrà il ripristino degli edifici di culto distrutti dopo il diluvio, divenendo anche il prototipo dell’eroe culturale. Le sue imprese riassumono le conquiste tecniche dell’evoluta ed ancora misteriosa civiltà sumera, come gli scavi dei pozzi nel deserto, il taglio dei cedri da utilizzare come materiale di costruzione, la navigazione a vela et cetera. A questi si aggiungono particolari che descrivano anche il funzionamento della vita quotidiana, come le modalità di accoglimento degli orfani, lo schema del calendario, i costumi sessuali e l’agricoltura (11).
Il terzo tema che informa l’intera opera è quello della ricerca del senso della vita, focalizzandosi sul destino dell’uomo inesorabilmente segnato dalla mortalità. Poetiche e significative sono le parole di Utnapisitim, quando, riflettendo sul mondo, ricorda: “tutto assomiglia alle libellule che sorvolano il fiume, il loro sguardo si rivolge al sole, e subito non c’è più nulla” (tav. X). Lo stesso Gilgamesh, all’inizio del poema, afferma: “L’umanità conta i suoi giorni e qualunque cosa faccia è vento” (tav. II). Gilgamesh non si arrende ai limiti della natura, mettendosi alla ricerca di un antidoto alla mortalità. Le avventure, però, gli insegnano la consapevolezza che tali limiti non devono essere oltrepassati, come si evince dall’accorato appello ad Enkidu nel finale, quando lo esorta a non lasciarsi ingannare dalla speranza di poter lasciare il mondo delle ombre. Sullo sfondo della narrazione, si intuisce la riflessione sumerica sull’esistenza di una forza superiore anche al destino degli uomini, cioè il fato, che sarà poi sviluppata nel contesto culturale ellenico, dove sarà chiamata “moira”, trasfigurata nelle tre divinità (moire) che determinano l’esistenza di ciascun individuo(12). Molto suggestiva è la tesi secondo la quale il viaggio di Gilgamesh andrebbe collocato nelle strade del cielo, piuttosto che tra i monti ed i fiumi della Mesopotamia, interpretando in chiave simbolica i luoghi ed i personaggi incontrati dall’eroe. Uno degli elementi più significativi, da mettere in relazione con il fenomeno della precessione degli equinozi (13) e che farebbe chiarezza sul periodo di effettiva ambientazione della vicenda, è lo scontro con il Toro celeste, inviato per placare le ire della dea Isthar. Al termine della lotta con l’animale, Enkidu gli strappa la coscia ed il membro. Per alcuni studiosi, si tratterebbe di un’indicazione della costellazione del Toro, che non è rappresentata da un esemplare intero, ma tagliato a metà della vita, mancante proprio della parte posteriore. Questa scena vorrebbe raccontarci il passaggio dall’età dei Gemelli a quella del Toro, avvenuta all’incirca nel 4500 a.C.. (14) Non a caso nel racconto, poco dopo l’uccisione dell’animale sacro, Enkidu muore ed il toro, così menomato, viene assunto in cielo. Parimenti, il nome del mostro Khumbaba rievocherebbe la divinità elamitica Hmba, legata a sua volta alla stella Procione, l’alfa della costellazione del Cane Minore, dai Sumeri annoverata tra quelle appartenenti al Cancro. Ed in questo ultimo segno è collocata la porta dello Zodiaco collegata al genere umano, mentre al suo opposto, nel segno del Capricorno, è individuata la porta dove si incarnano gli dèi. Seguendo questa schema, il viaggio di Gilgamesh e di Enkidu potrebbe essere letto come un percorso spirituale dal mondo materiale a quello celeste. Di straordinaria importanza, inoltre, appare la descrizione del passo del monte Masu, alle cui porte sono posti di guardia gli uomini-scorpione. Il termine masu è traducibile come “gemelli” e, tra le “stelle gemelle”, i Babilonesi elencavano la lambda e la ipslon Scorpii, cioè quelle del cosiddetto “pungiglione” della costellazione dello Scorpione. E non bisogna dimenticare che, dal punto di vista astrologico, l’ottavo segno è quello associato alla morte fisica, mentre i successivi quattro sono legati all’elevazione dell’anima per poi portare alla rinascita primaverile dell’Ariete. Nel testo è scritto che Gilgamesh entrò in una oscurità come mai non si era vista prima, che possiamo collocare tra la costellazione dello Scorpione e del Sagittario, con una simbologia quanto mai dettagliata, in cui ricorre il numero 120 (i pali che corrispondono alle remate per raggiungere la destinazione finale), equivalente ai 120 gradi dei quattro segni zodiacali rimanenti, per raggiungere il termine della costellazione dei Pesci, dove lo aspetta Utnapistim, prima della rinascita.
Gli straordinari riferimenti alla volta celeste, contenuti nell’epopea di Gilgamesh, hanno favorito il formarsi di alcune teorie che ritengono la civiltà sumera come diretta emanazione di una più sofisticata civiltà extraterrestre. In particolare, uno dei primi fautori dell’intervento alieno nello sviluppo della vita del nostro pianeta, è stato Zacharia Sitchin (15) che ha avanzato molteplici ipotesi nel suo vasto progetto editoriale. Secondo queste teorie, l’epopea di Gilgamesh, così come altre iscrizioni degli Accadi e dei Sumeri, e perfino i più antichi libri della Bibbia, dovrebbero essere letti come rudimentali documenti storico-scientifici di ciò che era avvento sulla Terra, dopo l’intervento extraterrestre. Si tratta di una problematica interpretativa molto complessa e di difficile semplificazione poiché, secondo tali ricostruzioni, i Nephilim menzionati nella Bibbia dovrebbero essere identificati con gli Annunaki della mitologia sumerica, che letteralmente significa “coloro che sono venuti sulla Terra”. Secondo Sitchin, gli Annunaki sarebbero arrivati dal mitico pianeta Nbiru, quando questo giunse nel suo punto orbitale più prossimo alla Terra, per verificarne l’abitabilità e sfruttarne le risorse. Alcuni ritrovamenti archeologici hanno contribuito ad alimentare le convinzioni sui paleoastronauti, rendendo ancora più affascinante il mistero sulle divinità menzionate nei poemi sumerici, come Enki ed Enlil che non sarebbero altro che personaggi politici e militari di spicco, provenienti dal pianeta Nbiru (16). A Tell-Brak, un sito preistorico sul fiume Khabir, furono ritrovate centinaia di statuette di alabastro, chiamate “Divinità Occhio”, con uno strano copricapo affusolato, dalla forma vagamente umanoide. L’aspetto di tali statuette ha alimentato la fantasia dei sostenitori dell’intervento extraterrestre, che le hanno interpretate come raffigurazioni di creature aliene divinizzate. Lo stesso diluvio universale, presente nelle mitologie di tutte le antiche civiltà mondiali, meritevole di un approfondimento a sé stante, sarebbe derivato da una catastrofe naturale intorno a 13000/12500 anni a.C.. Gli extraterrestri non avrebbero fatto niente per salvare l’umanità, tranne qualche rarissimo esemplare, limitandosi a lasciare il nostro pianeta a bordo delle loro astronavi in direzione di Nbiru, che compirebbe una non identificata orbita intorno al Sole, in una posizione più o meno intermedia tra Marte e Giove. Gli Annunaki tornerebbero sulla Terra periodicamente, ogni 3600 anni, quando l’orbita di Nbiru si avvicinerebbe nel punto orbitale più vcino. La comunità scientifica tradizionale ha sempre respinto questa ricostruzione sull’origine della civiltà umana, anche se negli ultimi anni vi è stata qualche apertura possibilista.
Al di là delle varie teorie sulla simbologia dell’epopea di Gilgamesh, nonchè sulla sua ambientazione in Cielo o in Terra, non vi è dubbio che rimane un’eccezionale opera letteraria in grado di testimoniare l’elevatissimo livello culturale raggiunto dalla civiltà sumera, ancora oggi per certi versi misteriosa, a prescindere dai collegamenti con un eventuale intervento alieno. Le ricerche attuali tendono a dimostrare che i Sumeri, probabilmente di origine indoeuropea, si stanziarono in Mesopotamia molto prima della metà del quarto millennio a.C., così come si credeva fino ad alcuni decenni fa. Ancora oggi non è stato spiegato come mai fossero così abili in numerose arti ed attività tecnologiche, arrivando a costruire splendide e ben strutturate città, come Ur, Uruk, Eridu, Kish e Nippur. Ciò che desta più meraviglia è, comunque, la loro straordinaria conoscenza in campo astronomico ed astrologico. Gli eventi principali della vita di Gilgamesh, delineati con raffinata abilità stilistica, ci conducono nella dimensione diacronica di un mondo sapienziale che ha già raggiunto la consapevolezza della complementarietà tra ciò che è umano e ciò che è divino.
Note:
1 – Assurbanipal fu re degli Assiri tra il 667 ed il 626 a.C.. E’ citato nel libro biblico di Esdra;
2 – Cfr. Giovanni Pettinato, I Sumeri, Ed. Bompiani, Milano 2007;
3 – Il nome del mitico scrittore può essere tradotto diversamente, a seconda di come si trascrive. Per la maggior parte degli studiosi, la versione corretta è “il dio Luna è colui che accetta le mie preghiere”;
4 – Cfr. Andrew George, The epic of Gilgamesh, Penguin Press 1999;
5 – Il fenomeno della prostituzione sacra è abbastanza comune nei rituali delle antiche civiltà medio-orientali, fino ad entrare nelle pratiche greco-romane, seppure con costumi diversi;
6 – Isthar era la dea dell’amore, della fertilità e dell’erotismo. A lei era dedicata una delle otto porte della città di Babilonia. Il suo aspetto era nel contempo benefico e terrificante;
7 – L’esatto periodo della deportazione dei Giudei a Babilonia è alquanto controverso. Si stima che sia avvenuto in un periodo compreso tra il VII ed il VI secolo, sotto il regno di Nabucodonosr II;
8 – Cfr. Giovanni Pettinato, La saga di Gilgamesh, Ed. Rusconi, Rimini 1992;
9 – Il termine colofone è di derivazione greca e sta ad indicare le annotazioni a margine dei libri antichi o dei libri moderni, quando essi abbiano ispirazione artistica;
10 – La città di Uruk, fondata dai Sumeri, era situata nella Mesopotamia meridionale. E’ considerata la “prima città” strutturata della storia, contenendo gli elementi della stratificazione sociale e della specializzazione del lavoro;
11 – Cfr. nota nr. 2;
12 – Le moire nella mitologia greca erano Cloto, Lachesi ed Atropo (la prima svolgeva il filo del destino, la seconda lo assegnava a ciascun uomo, la terza aveva il compito di recidere il filo);
13 – Sul tema della precessione degli equinozi, cfr. Luigi Angelino, I miti-luci e ombre, Cavinato editore international, Brescia 2018;
14 – Cfr. Renzo Baldini, Analisi di miti ancestrali ed altre ricerche, Centro italiano discipline astrologiche, pubblicazione edita in occasione del III Congresso internazionale FAES- Milano-novembre 2004, pdf. (www.cida,net);
15 – Zacharia Sitchin (1920-2010) ha pubblicato numerosi libri sulla cosiddetta archeologia misteriosa, con particolari interpretazioni rifiutate dalla comunità scientifica tradizionale. Le opere più importanti, per le quali si rimanda ai cataloghi specializzati, sono diventate best-seller, per l’originalità del pensiero;
16 – La comunità scientifica nega l’esistenza dell’ipotetico pianeta indicato da Sitchin, sulla base della mancanza di alcun riscontro astronomico, né tanto meno archeologico. Il termine Nbiru in lingua sumera indicherebbe, invece, un corpo celeste, con ogni probabilità il pianeta Giove.
Luigi Angelino