Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
L’Egitto e il destino dell’uomo – Marco Pucciarini
Alla radice della complessa religione funeraria egiziana (1) vi è la particolare idea che gli Egiziani ebbero sui rapporti esistenti fra la vita e la morte. Protesi verso il godimento della vita, non riescono a concepire la morte come una “negatività” e sono portati a escludere la possibilità di una estinzione completa dell’uomo con la morte. Il Gardiner (EnRE. VIII, 20) mette chiaramente a fuoco questa particolare attitudine mentale ed esistenziale dell’uomo egiziano, così poco accessibile per noi e assai lontana dalla moderna mentalità: “La vita e la morte – scrive – sono fatti da sempre impostisi alla nostra osservazione. Tuttavia la morte è una falsità giacché non siamo mai riusciti ad accettarla come vera di noi medesimi, e, inoltre, perché non ammetteremmo mai che essa possa essere vera nei riguardi di noi stessi. Conseguentemente, se dopo la morte fisica non siamo morti, dobbiamo essere vivi”, questo era il sentimento degli antichi Egiziani, per cui si passa ad una nozione d’immortalità più che di sopravvivenza. Tale atteggiamento, originato da una naturale incapacità di accettare la morte, dovrebbe portare a un’indiscutibile fede nella continuazione della vita, dopo un passaggio agonico puramente transitorio; invece, in una contraddizione tipica della religiosità egiziana, a esso si sovrappone il sentimento del terrore di ciò che ci attende nell’aldilà. Da un lato l’uomo egiziano, avvinto nella quotidianità di una goduta esistenza, è portato a rimpiangerla nell’attesa di abbandonare il suo mondo. Dall’altro, il “passaggio” diviene un mistero con tutte le sue tremende incertezze, le sue prove e sofferenze. A differenza dei Mesopotamici (Sumeri, Assiri, Babilonesi), gli Egiziani non produssero né poemi né poemetti di carattere eroico-mitico (2). Moltissimi furono i generi letterari ai quali essi, nella loro altrettanto lunga attività culturale, dettero origine. Tuttavia il loro pensiero religioso e sapienziale non amò esprimersi in grandi costruzioni letterarie, tendenti a trattare il problema sia religioso sia antropologico in modo unitariamente complesso. Nessun poema cosmogonico paragonabile all‘Enuma elish dei babilonesi e nessun poema eroico-mitico pari a quello di Ghilgamesh. Così, a differenza che tra i Mesopotamici, anche le riflessioni concernenti il problema della vita e della felicità assunsero tra gli Egiziani dimensioni veramente articolate. In ogni modo, circa lo stesso problema, la differenza più notevole, tra gli uni e gli altri è quella concernente la stessa soluzione del problema. Tante e così ricche sono, infatti, le espressioni di gioia e di ottimismo che si incontrano nei testi egiziani, che si stenta quasi a credere che gli Egiziani abbiano mai avuto, nei riguardi dell’esistenza umana, pensieri così tristi come i Babilonesi. Chiara testimonianza di ciò paiono essere già le poesie d’amore (3). Solo gli Egiziani, fra tutti i popoli pre-greci, fecero dell’amore un argomento letterario di largo impiego, assumendolo come elemento equilibratore delle aporie della vita (4).
Una qualche breve composizione amorosa, rinvenuta fra i testi della III dinastia di Ur, non è tale che lasci intravedere l’esistenza di una consistente tradizione letteraria nel mondo mesopotamico (5). Degli Egiziani si può dire invece senz’altro che essi ebbero il gusto di descrivere e cantare l’amore, descrivere e cantare soprattutto le emozioni e tenerezze delle coppie di fidanzati o di giovani sposi Per questo nacquero le tre sillogi di poesie amorose contenute nel papiro Harris 500, il noto papiro conservato a Londra e databile al tempo di Ramses II (1298-1232 a.C.) (6). Ma non è solo il papiro Harris che ha conservato poesie d’amore; altre tre ci sono giunte conservate in un papiro di Torino, e hanno di particolare il fatto che a parlare dei sentimenti dei due amanti sono, in qualità di segreti testimoni, gli alberi del giardino: melograno, fico, sicomoro, all’ombra dei quali gli amanti si scambiano le loro effusioni d’amore (7). Altre, sia pure brevissime, sono note mediante un ostracon del Cairo; altre tre ancora nel frammento detto di Posener (8). Ma, insieme alle tre raccolte del papiro Harris 500, un particolare sviluppo letterario possiedono le altre tre raccolte del papiro Chester Beatty (I, II, III), soprattutto la seconda, che, redatta in forma di alterni monologhi celebrativi degli innamorati, è presentata come “parole della grande rallegratrice del cuore” (9). E questa è la composizione che mostra, meglio di ogni altra e sotto vari aspetti, l’esistenza nell’ambito stesso della produzione amorosa egiziana del genere letterario in cui. tra gli ebrei del V sec. a.C., fu composto il Cantico dei Cantici. Ma un’altra non minore testimonianza, oltre la poesia d’amore, mostra come gli Egiziani valutarono il vivere come una gioia, e rifuggirono dal sentirsi e dal presentarsi sopraffatti dal peso immancabile delle malattie e degli affanni; o anche della morte (10). Non altrimenti che un canto di gioia appaiono le rappresentazioni delle varie attività umane offerte dalle scene con le quali artisti e pittori ornarono le pareti delle tombe, sia dei corridoi che delle camere mortuarie. I molteplici mestieri, le varie occupazioni domestiche, le diverse professioni, e anche le attività di svago e i vari passatempi, tutto vi appare rappresentato con fine gusto, garbo, misura e serena compostezza da far apprezzare la vita in ognuno dei suoi aspetti, anche in quelli abitualmente faticosi e spesso estenuanti. C’è come la volontà di mostrare che né la sofferenza di oggi né la morte di domani equivalga alla possibilità di poter vivere la vita cosi come è fatta. Fiducioso in se stesso, l’Egiziano credette anche di poter veramente e concretamente superare quel destino della morte, di fronte al quale i Mesopotamici si erano dichiarati impotenti Presso nessun altro popolo, lo stato dell’uomo nell’altro mondo fu visto o si è voluto vedere soddisfacente come presso gli Egiziani (11). Incoerenze e contraddizioni emergono tra i numerosi testi e le non poche iscrizioni riguardanti la vita dell’aldilà, ma una certa coerenza non manca.
Costante, così, fu la distinzione dell’uomo in due elementi: l’elemento materiale, il corpo (Djet), e alcuni vari elementi d’ordine non fisico in esso contenuti. Né meno costante fu l’idea di ritenere che, alla morte di ognuno, il suo elemento materiale si duplicasse per tal modo da avere, da una parte, il cadavere che era deposto nel sarcofago, e, dall’altra, un’impalpabile proiezione dello stesso corpo, che scendeva a soggiornare nella Dat (D’t) o Duat (Dw’t), ossia il mondo sotterraneo. Separati dal cadavere esistevano, inoltre, gli elementi spirituali (12). Non meno di tre: il ba, principio immateriale capace di rianimare il cadavere e di farlo tornare alla luce nella forma desiderata dal defunto; l’ach, “personalità efficace”, posseduto in vita soltanto dal sovrano, e il cui compito era di illuminare e glorificare il defunto; infine, il ka, che alcuni interpretano come genio protettore, una forza di vita indistruttibile, creata nello stesso tempo che l’uomo, ma che entrava in funzione solo nella vita dopo la morte; altri invece l’intendono come un insieme di forze fisiche ed energie spirituali che permettono all’uomo di sussistere in quanto essere e persona. Da qui la necessità della mummificazione. Il cadavere andava conservato perché il ba fosse in grado di meglio riconoscerlo e, penetrandovi, incarnarsi in esso e farlo durare eternamente. Per quello che riguarda il genere di vita che il trapassato conduceva nell’aldilà, le idee non furono sempre le stesse e occorre distinguere i tempi più antichi da quelli più recenti. Nei tempi più antichi esse non differirono molto da quelle comuni agli altri popoli, mesopotamici compresi. Allo stesso modo che altrove, infatti, anche tra gli Egiziani le migliori condizioni di vita per un morto potevano raggiungere quelle di un tranquillo borghese, ma solo a patto che i parenti non si dimenticassero di deporre presso la sua tomba convenienti offerte di cibo, ovvero ornare la stessa tomba di scene di caccia, pesca, raccolti agricoli, perché dall’animazione agricola fossero trasformati in cibo. Era inoltre opinione diffusa che il morto, pur dimorando nella sua tomba, poteva uscirne sotto una qualche forma “verso la luce” e visitare i luoghi che, da vivo, aveva frequentato. Quest’antica concezione non fu mai del tutto rimossa, e anche in tempi molto recenti continuò a essere la più diffusa in tutti quegli strati della popolazione che non si potevano permettere i costosi riti della mummificazione o tombe sontuosamente decorate. Nel frattempo, comunque, e sin dai tempi della V Dinastia (2480-2350 a.C.), cominciò a farsi avanti, nel contesto della ideologia regale, una nuova concezione. Diverso da quello comune era da ritenere, secondo i sacerdoti di Heliopolis, il destino oltremondano dei faraoni. Partecipi della natura degli dèi, ai sovrani era riservata la glorificazione solare. Ogni sovrano, purificato prima di tutto da una particolare lustrazione, e assunta la forma di un qualche animale (uccello, cavalletta, scarabeo), saliva verso i raggi del sole, trasportato da volute d’incenso ovvero salendo i gradini di una scala tenuta dagli dèi.
Giunto a destinazione, il dio Ra lo prendeva nella sua barca, da dove poi passava, dopo aver compiuto lodevolmente alcune mansioni, nel gruppo degli dèi. In ogni modo, la prospettiva della felicità oltremondana cominciò a far parte e diffondersi pure tra il popolo, in connessione con il diffondersi del culto del dio Osiride (13), che, da semplice divinità di Busiris, divenne in breve tempo potenza ctonica a Memphis, partecipe della Grande Ennade a Heliopolis e patrono dei morti e delle necropoli di Abydos. Di lui si raccontava che, divenuto re del mondo, fu ucciso dal dio Seth, e che le sue sorelle Iside e Nephtys dopo averne ritrovato e ricomposto il corpo, ottennero dalla madre Nut (secondo altre versioni, da Ra o da Anubis), che risultasse e diventasse, per tal modo, il dio supremo del regno dei morti. Mediante l’idea di un dio morto e risuscitato, e benefico, sovrano di tutta l’oltretomba, prese pure a diffondersi la persuasione che, non solo ai sovrani, ma a tutti fosse possibile garantirsi una migliore vita oltremondana, attraverso i riti di assimilazione alle vicende di morte e di resurrezione del dio. La credenza era già comune ai tempi della XI Dinastia (2134-1991 a.C.). Così, secondo le norme, i racconti, le figure del Libro dei Morti, il morto, che si era assimilato alle vicende della morte e risurrezione di Osiride, intraprendeva un lungo viaggio, e, dopo aver fatto la “confessione dei peccati” (14), entrava in una amena e spaziosa pianura dei domini di Osiride, situata nel “campo delle offerte e dei cìperi”, e là continuava a svolgere le attività esercitate durante la vita (15). Larghissimo fu, dunque, lo spazio che, in Egitto, ebbero le credenze circa la possibilità, proposte da una parte autorevole del sacerdozio, di sfuggire alla tristezza angosciosa del dopo-morte. Un po’, forse, perché sorretti da una forte fiducia in se stessi, e un po’ forse perché meno disposti a guardare con la freddezza dell’intelligenza i problemi esistenziali della vita (16), e un po’, e soprattutto, perché quanto mai sensibili, per antica tradizione, alle suggestioni della magia (17), gli Egiziani presero per tempo e continuarono a nutrire, quasi per non sentirsi degli sconfitti, una speranza che altri popoli, soprattutto i Mesopotamici, avevano già da tempo ritenuto una follia. Neppure perciò l’idea del fato, inteso come assoluta impossibilità per l’uomo di uscire dalla morsa dei tragici destini sia umani sia personali, ebbe un particolare rilievo. Gli Egiziani, riguardo alle condizioni del vivere umano, non ritennero che fosse sufficiente considerare solo l’esclusivo orizzonte dato delle gioie del vivere, e, relativamente al problema del post-mortem, neppure ritennero che fosse tranquillamente condivisibile l’ottimismo magico-sacerdotale. Lungo tutti i secoli, molti spiriti non mancarono di denunziare le superficialità sia dell’uno sia dell’altro atteggiamento. Grida di dolore e di disperazione occorrono un po’ ovunque nei testi. S. Morenz ne ha raccolte alcune, e occorre scorrerle come sfondo religioso culturale alle due operette più note sul pessimismo egiziano (18). Le angosciate grida, unite anch’esse a degli inviti per una vita di piacere, mostrano chiaramente come le due operette non nacquero come espressioni di una qualche, anima sconsolata, ma come, piuttosto, voce di molte voci, espressione di un diffuso stato d’animo Così già la prima, comunemente indicata con il titolo di Dialogo di un disperato con la sua anima, e scritta durante i difficili tempi che intercorsero tra la fine dell’Antico Regno (c.2200) e gli inizi del Medio (c. 1991), i così detti tempi eracleopolitani (Din.VII-XI) (19). Sotto forma di dialogo, essa racconta e descrive le vicende e le considerazioni per le quali, un uomo (che la mancanza delle prime linee del testo non permette di meglio identificare) decide di porre fine alla propria vita (20). Egli è stanco di tutto La vita è priva di ogni attrattiva per poter essere vissuta sino in fondo. L’onestà e l’onore sono in piena decadenza. Ognuno cerca il proprio interesse e profitto a spese degli altri. Nessun rispetto neppure tra i fratelli della stessa famiglia: non ci si può fidare di nessuno! A questo punto interviene il suo ba, il quale, non sicuro di poter sopravvivere in seguito alla morte violenta, tenta di dissuadere l’uomo dal suo proposito, suggerendogli di non farsi sopraffare dall’angoscia, di procurarsi una conveniente sepoltura e di darsi, nel frattempo, al divertimento e alla gioia. Ma lo “stanco della vita” non si lascia convincere. Replica notando che i piaceri della carne comprometterebbero la sua reputazione.
D’altra parte, un mondo privo di amicizia è un mondo senza gioia, e se nella vita non c’è possibilità di gioia l’unica via per trovare un po’ di pace è la morte. E’ questo il tema centrale, ripetutamente espresso con una serie di paragoni: “La morte è oggi per me la salute per l’invalido, come l’uscire all’aria aperta dopo una malattia” (vv. 131-133). La morte è l’unico suo grande bene: essa è per lui come l’odore di mirra, l’odore di loto, la fine della pioggia, ecc. (vv. 134-143). A questo punto anche il suo ba, come in un atto di condiscendente comprensione dello stato d’animo del disperato, accetta ch’egli compia il suo gesto: “Smetti, o mio compagno, o mio amico, di lamentarti! Gettati nel fuoco, e (così) come tu dici, raggiungerai la vita” (v. 140). L’altro racconto, composto anch’esso durante lo stesso tormentato periodo eracleopolitano (c.2200-1991 ), pervenuto in quattro copie papiracee del Medio Regno (c. 1991-1750), è quello dello Oasita eloquente, ovvero I lamenti del contadino, o con altri titoli simili (21). Lo scritto narra le vicende di un certo Hu-en-anpu, un abitante dell’oasi del sole (odierno Wadi en-Natrun), il quale subisce prepotenze e angherie e vuole giustizia, ma, prima di ottenerla, è costretto a presentare nove estenuanti suppliche (22). L’operetta si compone di due parti: una narrativa e breve che racconta la triste vicenda capitata al contadino, e l’altra, più lunga, comprendente le nove suppliche in cui si intende stabilire il diritto che ogni uomo ha di essere trattato secondo giustizia. Mentre, dunque, un giorno l’oasita si recava, secondo il suo costume, in città per vendere i prodotti del suo campo, si trovò completamente privato dei suoi pochi beni dalla vorace prepotenza dell’intendente Thut-Nakht che aveva alte protezioni presso la corte. Per più giorni l’oasita supplicò l’intendente affinché gli restituisse i suoi averi, ma in compenso ricevette una buona dose di legnate Si rivolse quindi al soprintendente e capo della corte, Rensi, che, incantato dai modi garbati e eloquenti del contadino, parlò della vicenda al sovrano. Questi però, incuriosito, dispose che Rensi differisse la riparazione dei danni, e ordinasse al contadino di mettere per iscritto le lamentele, e che, nel frattempo, tanto lui che la sua famiglia avessero il necessario per vivere. Una dopo l’altra il contadino inoltrò nove diverse suppliche e lamentele, sino a che, stanco di attendere una giustizia che sembrava aver perso la sua strada, richiamò il dignitario al suo dovere ricordandogli che un custode e dispensatore della maat (“giustizia”) deve essere preciso e imparziale come l’ago della bilancia, e che se la disonestà permette di accumulare ricchezze soltanto la maat conduce all’eternità. E aggiungeva di essere ormai deciso, nel caso che non fosse ascoltato, di andarsene a chiedere giustizia presso il tribunale di Anubis (I.115), ossia di uccidersi.
La decisione però non fu messa in atto, poiché alla fine riuscì a riottenere quanto gli era stato rubato. Il racconto si conclude in un modo meno tragico e sconsolato del Dialogo precedente, e perciò stesso, a prima vista, potrebbe sembrare più la descrizione di un’epoca carica di ingiustizie che una considerazione sulle tristezze della vita. Ma quest’ultimo aspetto non è per nulla assente, se è vero che al contadino il suicidio appare come l’unica via per uscire dalla disperazione, a lui come a tanti altri del suo tempo. Stando alla testimonianza delle Ammonizioni di Ipuwet, vissuto durante la stessa epoca (23), non furono pochi gli Egiziani che preferirono piuttosto togliersi la vita che continuare a vivere in un mondo implacabilmente dominato dalla corruzione e dall’ingiustizia. Un vento di follia e di anarchismo pervade la società egiziana. Tutto va in malora: sarebbe stato meglio non nascere per niente; ci sì comporta in modo efferato; si violano pure le tombe. Tale è l’incuria dei parenti che i loro stessi morti restano privi anche dei riti tradizionali; ma soprattutto tale e tanta è la disperazione degli spiriti, che non sono pochi coloro che, stanchi del patire ingiustizie e disagi, decidono di togliersi la vita e si gettano fra le fauci dei coccodrilli, facendo del sacro fiume la loro tomba. Con il suo proposito di togliersi la vita, dunque, l’oasita esprime molto più che un sentimento strettamente personale. Erano in molti, con lui a condividere la stessa angoscia, lo stesso pensiero; in molti a ritenere che il suicidio fosse l’unico efficace rimedio contro l’inutilità della vita. Il che sta a significare che, forse, l’immagine che vuole gli Egiziani esclusivamente confinati entro un modulo di irriducibile ottimismo, confidanti nelle risorse della propria intelligenza o in quelle della magia, è fortemente riduttiva della complessa realtà egiziana. Oltre le due operette morali, esiste nella letteratura egiziana qualche cosa di ancora più specifico per attestare come la vita umana non fu vista e sentita, dagli spiriti più rappresentativi, che come un insieme d’insolubili e angoscianti problemi. Parlo del “Canto dell’Arpista” (24): un invito ad affogare il senso dell’angoscia nella ricerca piena e illimitata delle gioie e dei piaceri (25). Nella forma più completa il canto è contenuto nel papiro Harris 500, e esso appare, secondo l’indicazione dello scriba, come la trascrizione di un testo inciso in una parete della tomba del re Antef: Canto che si trova nella tomba di Antef e che sta davanti all’arpista. E’ il testamento di quel buon sovrano “dal felice destino”. Di qui il nome del componimento, tanto più che, fra le scene con cui già anticamente in Egitto si usò ornare le pareti delle tombe, una assai frequente fu quella che rappresentava un arpista in atto di intrattenere, con il suono e il canto, gli ospiti di un convito.
Il canto non e presente solo ed esclusivamente nel papiro Harris 500 (26); sebbene notevolmente frammentato compare anche nella tomba di Pa-Atum-em-heb a Saqqara, appartenente al periodo di Amarna (1375-1360), ora al Museo di Leida, e inoltre in una decina di testi, più o meno diversi tra di loro, la cui età si estende dallo stesso periodo di Amarna, al quale appartiene quello della tomba di Neferthotep di Tebe (c. 1350-1320), sino ai tempi della XX Dinastia (c. 1200-1185). Per quanto riguarda il tempo di origine del canto, la questione in parte dipende dall’identificazione del re Antef (Jn.tw.f), poiché tre sono i re noti con questo nome: Antef I che fu il fondatore della XI Dinastia (c. 2134-1991 ); Antef II, uno dei re della XII dinastia (c. 1570- 1610), probabilmente uno dei re che, data la disgregazione politica, regnarono su particolari territori; e Antef IlI, uno dei re che, in posizione subalterna dal dominio centrale, regnarono in qualche territorio durante la XVIII dinastia (c. 1570-1318). Tenuto conto che di questi tre re dal nome Antef, il più noto fu sicuramente Antef I (XI dinastia), e molto probabile che alla sua tomba intese riferirsi lo scriba del papiro. Il canto cioè sarebbe nato in tempi molto anteriori al periodo (XVIII dinastia) nel quale, secondo le testimonianze superstiti, conobbe la sua larga diffusione. L’ipotesi può però essere non pienamente convincente, poiché non sembra conveniente distanziare troppo il tempo dell’origine da quello della sua maggiore diffusione, per cui non sarebbe improbabile l’attribuzione ad Antef I, nell’ipotesi che lo scriba si riferisse veramente ad esso, poté nascere e nacque solo come finzione letteraria, per dare al testo una patina di maggiore antichità e quindi il prestigio di una più convalidata esperienza. Quel che sembra di potersi meglio affermare, è che il testo del canto, come ci è dato dal papiro Harris 500 – trascritto o meno da uno scriba dalla tomba dell’uno o dell’altro Antef – fu il modello e il prototipo delle altre recensioni e che, pertanto, la sua età debba collocarsi intorno alla prima metà del XIV secolo a.C. Almeno da allora cominciò a risuonare insistente l’invito a risolvere, in una pragmatica visione edonistica, le profonde tristezze della vita. Niente, in realtà, è stabile e sicuro nel continuo fluire delle generazioni, tutto è caduco; rovinate e distrutte sono le tombe dei sovrani, e nessuno sa più nulla del mondo di là. Meglio dunque godere il più possibile per tutto il tempo che si sta sulla terra:
“Rallegra il tuo cuore: ti è salutare l’oblio! – Segui il tuo cuore sin tanto che vivi’ – Metti mirra sul tuo capo, vestiti di lino fine, profumato di vere meraviglie, che fan parte dell’offerta divina – Aumenta la tua felicità, che non languisca il tuo cuore. – Segui il tuo cuore, compi il tuo destino sulla terra. – Non affannare il tuo cuore, finché venga per te quel giorno della lamentazione. – Ma non ode la loro lamentazione colui che ha il cuore stanco (= chi è morto?) i loro pianti non salvano nessuno dalla tomba – Pensaci. Passa un giorno felice, e non te ne stancare – Vedi, non c’è chi porta con sé i propri beni; vedi, non torna chi se n’è andato!”.
L’edonismo, la proposta di vivere la vita in quello che essa possiede di più piacevole e rifuggire dai pensieri angoscianti, fu una delle correnti del pensiero greco; ma molto prima che dai filosofi greci, questa visione delle cose, fu formulata proprio dagli Egiziani. Assertivo e drastico nelle sue affermazioni, l’Arpista non lascia un qualche spazio neppure ai lamenti: non servono a nulla, la situazione è quella che è. Di certo esiste solo la vita terrena, e non sono né i riti funerari né le tombe né le lamentazioni che offrono validi motivi per credere a un’apprezzabile sopravvivenza. Anche le voci delle apparizioni dei morti, sono solo il frutto della fantasia. Nessuno è mai tornato dall’aldilà. E’ quindi inutile continuare a illudersi com’è inutile continuare a lamentarsi. L’unica cosa che l’uomo possa fare per consolarsi della sua triste situazione, è godere, per quanto gli è possibile, del tempo presente, fare del piacere il programma della propria esistenza. Né gli dèi né la magia possono cambiare l’ordine delle cose, dare all’uomo la possibilità di superare il suo destino, e di realizzare il desiderio di una sopravvivenza felice. Le credenze tradizionali circa la possibilità di una vita felice oltremondana non sono che velleitarie illusioni, illusioni avverse al vero interesse dell’uomo, perché, cullandolo con la speranza di una vita futura, lo privano anche delle uniche gioie che, nella vita, gli sono possibili. Non potendo gioire di una speranza certa nell’eterna felicità, l’uomo è dunque un essere assolutamente infelice, che della sua infelicità può unicamente consolarsi cercando, durante la sua esistenza, gli sparsi frammenti dell’irraggiungibile felicità. Un altro sapiente, con un’altra iscrizione, posta nella stessa tomba di Neferhotep di Tebe, cercò di contrastare le affermazioni dell’Arpista, mostrandone l’arrogante audacia (27). E dai più si continuò a credere nell’efficacia felicitante del culto dei morti, ma anche le considerazioni dell’Arpista circa l’infelicità umana e la sua proposta edonistica ebbero il loro seguito. Ai tempi della Bassa Epoca, un’iscrizione del grande sacerdote del dio Ptah invitava tutti, non meno esplicitamente del canto dell’Arpista, a non farsi illusioni circa la felicità dell’oltretomba, e pertanto, a “vuotare”, durante la vita, “la coppa del piacere e dell’amore” (28).
Non è dunque per nulla vero che gli Egiziani, nelle espressioni più forti della loro coscienza critica, non avvertirono, al pari dei Mesopotamici, la triste angoscia esistenziale del vivere. E’ piuttosto vero invece che, per quanto fu possibile, essi si adoperarono a non dargli importanza, e aprirono più volentieri l’animo a una visione della vita nei suoi aspetti migliori. In questo senso, un certo ottimismo fu, sicuramente una delle costanti dello spirito egiziano, che, almeno nelle manifestazioni sia artistiche sia letterarie, i Mesopotamici non ebbero. Anche se l’angoscia, a volte, finì per prevalere, anche letterariamente, sulla volontà di illudersi, spingendo a proclamare apertamente quanto fosse fragile la costruzione di un aldilà felice, sia che si trattasse dell’aldilà dei sovrani o di quello comune della gente del popolo. Il pessimismo esplose, allora violento, come una molla fortemente repressa, ove si considerino le due soluzioni proposte per uscirne: il suicidio e l’edonismo. I mesopotamici erano stati assai più moderati. Tutto sommato, essi si limitarono soprattutto a suggerire la rassegnazione. Ma il problema di fondo fu ben avvertito e svolto letterariamente nell’una e nell’altra delle due maggiori civiltà del tempo. All’una e all’altra fu comune l’idea che né gli dèi né gli uomini possono far nulla per cambiare l’ineluttabile sorte che affligge gli uomini. E il motivo della comune idea è semplice. Nessuno degli dèi fu ritenuto, né da una parte né dall’altra, onnipotente: onnipotente in senso stretto, creatore e signore delle cose e della storia.
Note:
1) A. Gardiner, The attitude of the Ancient Egyptians to Death and the Dead, Cambridge 1935; H. Kees, Totenglauben und Jenseilvorsellungen des Alten Aegypter, 2a edz., Berlin 1956; S. Morenz, Gli Egizi, Milano 1983, pp. 233-71; E. Hornung, Gli Dei dell’Antico Egitto, Roma 1990; H. Ringgren, Le Religioni dell’Oriente Antico, Brescia 1991; E. Drewermann, Io discendo nella Barca del Sole, Milano 1993.
2) T. E. Peet, A Comparative Study of the Literature of Egypt, Palestine and Mesopotamia,London 1931 ; B. van De Walle, La trasmission des textes littéraires égyptiens, Bruxelles 1948; S. Donadoni, Storia della letteratura egiziana antica, Milano 1957.
3) G. Nolli, Canti d’Amore dell’Antico Egitto, Casale Monferrato 1959.
4) Cfr, A. Hermann, Altaegyptischer Liebesdichtung, Wiesbaden 1959; R. Schlichting, Liebeslieder. in LAe. III (1980), pp. 1048-1052.
5) Cfr. S. N. Kramer, Love-Song to a King, in ANET, p. 496.
6) Cfr. K. Th. Zauzich, Papyrus Harris, in LAe. IV (1982), p. 707; Trad. in G. Nolli, Canti…, cit., pp. 7-22.
7) Trad. in G Nolii. op. cit., pp. 23-27, 40-41.
8) Cfr. Ibidem, pp 29-33.
9) Ibidem, pp. 47-64.
10) Cfr. W. Wrezinski, Atlas zur altaegyptischen Kulturgeschichte. I-III. Leipzig 1923-28.
11) Cfr. S. Morenz, Gott und Mensch und Alten Aegypten, Leipzig 1964.
12) Cfr. I-V. Zabkar, A Study of the Ba concept in Ancient Egyptian Texts, Chicago; I. Schweitzer. Das Wesen des Ka, Gluckstadt-Amburg-New York 1956, D. Meeks, Les “quatre Ka, in Rev. Egyptol. 15 (1963), pp. 35-47.
13) Cfr. A. Sharff, Die Ausbreitung des Osiriskultes in der Fruhzeit und Wahrend des Alten Reiches, Munchen 1947.
14) Cfr. Ch. Maystre, Les déclarations d’innocence (Livre des Morts, cap. 125), Le Caire 1937.
15) E. Drioton, Paradis égyptien, Le Caire 1942.
16) Cfr. J. A. Wilson, L’Egypte, vie et mort d’une civilisation, Paris 1961, p. 132.
17) Cfr. A. Massart, La magie égyptienne, in DBS V (1957), pp. 721-732.
18) C. Saporetti, A proposito del pessimismo, in F. Bondi (cur.), Studi in onore di E. Bresciani, Pisa 1985, pp. 475-497.
19) Trad. in S. Donadoni, Testi Religiosi Egizi, Torino 1971, pp. 192-5.
20) Cfr: R. Weil, Le livre du “Désespéré”. Le sens, l’intention et la composition de l ’ouvrage,in BIFAO 45 (1957), pp. 89-154; H. Goedicke, The Report about the Dispute of Man with his ba, Pap. Berlin 3024, London 1970.
21) Trad. in E. Bresciani, Letteratura…,cit., pp. 95-110.
22) Cfr. E. Suys, Etude sur le conte du Fellah plaideur,Roma 1933.
23) Trad. in E. Bresciani, op. cit., pp. 65-82.
24) Ibidem, pp. 118-121.
25) Cfr. M. Lichteim, The Song of the Harpers, in JNES 4 ( 1945), pp. 178-212.
26) Cfr. J. Assmann, Harfnerlieder,in LAe. II (1977), pp. 972-982.
27) Riportato da C. Desroches-Noblecourt, Les religions égyptiennes, Paris 1948, p.280.
28) Ibidem, p. 279.
Marco Pucciarini
è docente di Storia delle Religioni nel biennio di specializzazione dell’Istituto Teologico di Assisi (ente aggregato alla Pontificia Università Lateranense di Roma) e all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Assisi (Pontificia Università Lateranense); ha insegnato Storia delle Religioni presso l’Università degli Studi di Perugia dove ha diretto varie tesi di laurea. Ha curato, in collaborazione con il Museo della Letteratura romena di Bucarest, la Mostra bio-bibliografica dedicata a Mircea Eliade (Assisi, 1997); ha diretto la ricerca sui nuovi movimenti religiosi: £ ’Arcobaleno del Sacro in Umbria (2003). È autore del volume La morte e il morire nel mondo antico. Idee sulla sopravvivenza e i destini dell’uomo nello Antico Oriente. Con un’Appendice sul Sacrificio (1997). I suoi interessi di ricerca vanno dalle religioni del1’Italia pre-romana (vedi, Riti, sacrifici e dèi nelle Tavole Iguvine (1997), alle religioni dell’India (v., Atman e non-atman nell’insegnamento del Buddha (2016), La Yogatattva Upanishad e l’Atmabodha di Shankara (2009), ai testi della mistica ebraica (v., Il Sefer Yetzirah. Note di Lettura (2007), alle problematiche delle nuove forme del sacro (v., New Age.‘ Ambigua metamorfosi del sacro o paradosso della profanità? (2000), all’esoterismo (v., Comprendere 1’esoterismo come tipologia storico-religiosa (2012), alla metodologia della ricerca storico-religiosa (v., Ripensare il «Politeismo» (2011). E membro della Società italiana di Storia delle Religioni e partecipa a varie iniziative per il Dialogo interreligioso. Suoi ulteriori contributi si possono vedere a
http://unipg.academia.edu/marcopucciarini.