Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
L’ebbrezza della reincarnazione, il miele dello stordimento: un’ipotesi indoeuropea sul baratro del Λήθη – Rosa Ronzitti
… nella cava ombra del Cosmo
(G. Pascoli)
Nove mesi a la puzza: poi in fassciola
tra sbasciucchi, lattime e llagrimoni:
poi p’er laccio, in ner crino, e in vesticciola,
cor torcolo e l’imbraghe pe ccarzoni.
(G.G. Belli)
- Il presente studio, sullo sfondo di un interrogativo pesante –esisteva un’escatologia protoindoeuropea?– prova a rintracciare un corrispondente al misterioso “baratro del Lete”, noto solo a Plutarco, in un passo del Mahābhārata**. I metodi si intrecciano e le domande, anziché ridursi, si moltiplicano, sollecitando all’estremo gli strumenti della comparazione. Esiste un percorso umanistico del dubbio che non può trovare risposte definitive proprio perché parte da premesse ignote e deve operare secondo valutazioni che potranno inevitabilmente sembrare, in una certa misura, soggettive. Nondimeno, esse vanno esplicitate e una risposta va cercata lungo i solchi tracciati dalla comparatistica e dalla linguistica storica. In tal senso il notevole brano plutarcheo del ‘baratro’ –χάσμα– , incastonato nella già eccezionale storia di Tespesio che conclude il De sera numinis vindicta (Mor. 44), si presta quale esempio minimo ma rispecchiante, nel suo piccolo, gli stessi problemi sollevati dalle più estese comparazioni duméziliane fra l’epica battaglia sulla piana di Kurukṣetra (India antica) e quella di Brávellir (Svezia medioevale) e fra il prologo del Mahābhārata e gli antefatti dell’Iliade[1].
La storia di Arideo di Soli, chiamato Tespesio (‘divino, straordinario’) in séguito alla vicenda che Plutarco narra, non ha mai cessato di destare attenzione per il suo inserirsi fra i rari racconti di esperienze extracorporee ed escatologiche della Grecia antica. Arideo, uomo dissoluto, cade ‘a testa in giù’ e rimane in stato di morte apparente per tre giorni; durante il coma, percorre con il suo φρονοῦν (‘spirito, intelletto’) e sotto la guida di un συγγενής (un antenato deceduto) un tragitto celeste durante il quale incontra anime beate e dannate; ascolta la sibilla della luna profetizzare l’eruzione del Vesuvio e la morte di Tito; scopre che il padre ha commesso svariati omicidi e rientra infine nel suo corpo quasi in punto di sepoltura.
Se indaghiamo nella tradizione greca, il primo e già ben notato richiamo è al mito di Er (Platone, Resp. X, di cui infra); il secondo alla vicenda di Aristea di Proconneso, la cui anima poteva dislocarsi durante stati catalettici e visitare paesi lontani (Her., Hist. IV 21 ss.); il terzo alla storia di Cleonimo, che, in seguito a morte apparente, vide gli spazi siderali e del Tartaro: quest’ultimo episodio è narrato da un allievo di Aristotele, Clearco di Soli (la città di Arideo), e ricordato da Proclo (In Rem Publicam VI 114 = fr. 8 Wehrli). In generale, poi, su tutto il brano plutarcheo aleggia la lunga descrizione che Socrate fa del cosmo nel Fedone (107C-114C).
Plutarco si mostra interessato al tema anche in un altro punto dei suoi scritti, nel De genio Socratis (Mor. 46, §§ 21-22, 589D-592E), laddove Timarco di Cheronea chiede di rimanere nell’antro di Trofonio, sacro ad Apollo, per due notti e un giorno. Nel buio, le suture del cranio si dilatano e l’anima ne fuoriesce (τὰς ῥαφὰς διαστάσας μεθιέναι τὴν ψυχήν) per compiere un tragitto celeste[2].
- L’aldilà di Tespesio, si diceva, ha una collocazione cosmica: i defunti sono premiati e puniti fra le stelle. All’interno di tale “spazio escato-logico” si apre un baratro, il χάσμα μέγα descritto nelle righe seguenti:
- Ταῦτα δ’ εἰπὼν ἦγεν αὐτὸν ταχὺ μέν, ἄπλετον δέ τινα τόπον ὡς ἐφαίνετο διεξιόντα ῥᾳδίως καὶ ἀπλανῶς, οἷον ὑπὸ πτερῶν τῶν τοῦ φωτὸς αὐγῶν ἀναφερόμενον, μέχρι οὗ πρός τι χάσμα μέγα καὶ κάτω διῆκον ἀφικόμενος ὑπὸ τῆς ὀχούσης ἀπελείφθη δυνάμεως. Καὶ τὰς ἄλλας ψυχὰς ἑώρα ταὐτὸ πασχούσας ἐκεῖ· συστελλόμεναι γὰρ ὥσπερ αἱ ὄρνιθες καὶ καταφερόμεναι κύκλῳ τὸ χάσμα περιῄεσαν (ἄντικρυς δὲ περᾶν οὐκ ἐτόλμων), εἴσω μὲν ὀφθῆναι τοῖς βακχικοῖς ἄντροις ὁμοίως ὕλης χλωρότητι F καὶ χρόαις ἀνθέων ἁπάσαις διαπεποικιλμένον· ἐξέπνει δὲ μαλακὴν καὶ πραεῖαν αὔραν ὀσμὰς ἀναφέρουσαν ἡδονάς τε θαυμασίας καὶ κρᾶσιν οἵαν ὁ οἶνος τοῖς μεθυσκομένοις ἐμποιοῦσαν· εὐωχούμεναι γὰρ αἱ ψυχαὶ ταῖς εὐωδίαις διεχέοντο καὶ πρὸς ἀλλήλας ἐφιλοφρονοῦντο· καὶ τὸν τόπον ἐν κύκλῳ κατεῖχε βακχεία καὶ γέλως καὶ πᾶσα μοῦσα παιζόντων καὶ τερπομένων. 566 A Ἔλεγε <δὲ> ταύτῃ τὸν Διόνυσον ἀνελθεῖν καὶ τὴν Σεμέλην ἀναγαγεῖν ὕστερον· καλεῖσθαι δὲ Λήθης τὸν τόπον. Ὅθεν οὐδὲ διατρίβειν βουλόμενον εἴα τὸν Θεσπέσιον, ἀλλ’ ἀφεῖλκε βίᾳ, διδάσκων ἅμα καὶ λέγων ὡς ἐκτήκεται καὶ ἀνυγραίνεται τὸ φρονοῦν ὑπὸ τῆς ἡδονῆς, τὸ δ’ ἄλογον καὶ σωματοειδὲς ἀρδόμενον καὶ σαρκούμενον ἐμποιεῖ τοῦ σώματος μνήμην, ἐκ δὲ τῆς μνήμης ἵμερον καὶ πόθον ἕλκοντα πρὸς γένεσιν, ἣν οὕτως ὠνομάσθαι, νεῦσιν ἐπὶ γῆν οὖσαν ὑγρότητι βαρυνομένης τῆς ψυχῆς.
Avendo ciò detto, [la guida] lo condusse velocemente attraverso uno spazio che appariva smisurato, traversandolo facilmente e senza deviazioni, come trasportato dalle ali dei raggi della luce; finché, giunto a un grande abisso che si estendeva verso il basso, fu abbandonato dall’energia che lo sosteneva. E vedeva che le altre anime subivano là la stessa sorte. Raccogliendosi come gli uccelli e muovendosi in cerchio (infatti non osavano attraversarlo direttamente) giravano attorno all’abisso; a vederlo all’interno, era simile agli antri bacchici, ornato del verde della foresta e di tutti i colori dei fiori. [Il baratro] esalava una brezza delicata e mite, che mandava verso l’alto profumi e meravigliosi piaceri e una ebbrezza pari a quella che il vino produce negli ubriachi: le anime, infatti, festeggiando, si rasserenavano grazie ai dolci effluvi e si mostravano piene d’amore le une verso le altre e un tripudio bacchico dominava il luogo tutt’intorno e il riso e il canto di quelli che giocavano e si rallegravano. Diceva [la guida] che lì Dioniso si era innalzato e vi aveva poi condotto Semele: il luogo era detto dell’Oblio (Λήθη). [La guida] non permise che Tespesio restasse lì, pur volente, ma lo distolse con la forza insegnandogli e dicendogli che l’anima si liquefa e si inumidisce a causa del piacere, mentre la parte irrazionale e corporea, nutrendosi e rivestendosi di carne, induce il ricordo e da esso il desiderio e il rimpianto che trascinano alla nascita (γένεσιν), così detta poiché è un’inclinazione verso la terra (νεῦσιν ἐπὶ γῆν) dell’anima gravata dall’umidità.
Il sintagma χάσμα μέγα è una tessera esiodea: nella Teogonia esso designa il Tartaro (v. 740). Qui, tuttavia, il contesto suona profondamente diverso: l’abisso è aereo e non sotterraneo e non rappresenta un luogo di punizione, bensì un Eden lussureggiante in cui le anime volanti, stordite da piaceri bacchici, provano il desiderio di tornare a reincarnarsi[3]. Il mondo religioso di riferimento in cui Plutarco si muove contempla dunque la metempsicosi[4].
- Yvonne Vernière, insigne plutarchista francese, e Matteo Taufer, autore di una monografia e di un articolo su Tespesio, hanno dedicato al baratro del Lete una serie di considerazioni che qui riassumiamo[5]. Entrambi mettono giustamente in guardia dal considerare la peculiare “catabasi aerea” del DSNV un semplice assemblaggio di fonti precedenti. A proposito del χάσμα μέγα che rende fiacche e smemorate le anime inducendole a ricadere nelle vite, la studiosa francese osserva che esso non equivale alla piana dell’Oblio della Repubblica di Platone (τὸ τῆς Λήθης πεδίον 621A-B)[6] o al fiume dell’oblio virgiliano (Lethaeum amnem, Aen. VI 705) e neppure ai χάσματα visti da Er durante la sua esperienza extracorporea nel brano succitato. I χάσματα platonici condividono infatti con l’abisso plutarcheo una somiglianza appena più che superficiale: in Resp. X la reincarnazione (o, meglio, la scelta della vita successiva) avviene su un prato al cospetto dell’araldo che distribuisce le sorti. Quattro χάσματα (due celesti e due terrestri) accolgono e restituiscono le anime già sottoposte a giudizio: non è, però, previsto che in tali baratri esse si rivestano di carne. In proposito il Taufer osserva: «il χάσμα leteo [scil. di Plutarco] si profila … come un unico canale attraverso cui ricadranno nel mondo degli inganni le anime che ne hanno subito il fascino»[7].
Quanto al nome λήθη (καλεῖσθαι δὲ Λήθης τὸν τόπον), esso è facilmente associabile alla morte. La piana dell’Oblio già si trova in Aristofane come elemento del paesaggio infernale (Rane 186). Simonide conosce i Λήθης δόμοι visitati da Sisifo durante la sua permanenza nell’Ade (184.6). La presenza di una fonte che causa smemoratezza alle anime è implicita nelle laminette orfiche entro l’opposizione topologica ed escatologica fra destra (fonte o lago di Mnemosyne, che permette all’anima di ricordare l’origine astrale) e sinistra (fonte da evitare perché la dimenticanza induce alla caduta nei corpi)[8]. Una simile concezione giustifica pienamente l’etimologia (vera o presunta) di ἀλήθεια come negazione di λήθη: verità significa precisamente non dimenticare la parte astrale, immortale dell’uomo (lam. di Farsalo, I A 3. Pugliese Carratelli). Nelle laminette orfiche, inoltre, i fedeli sono chiamati βάκχοι (lam. di Ipponio I A 1. Pugliese Carratelli) e in Plutarco lo stordimento dell’anima è dovuto proprio a un’ebbrezza dionisiaca. Il tutto non manca di riferimenti ad Eraclito (l’anima impregnata di umidità, fr. 77 D.-K.) e, più indirettamente, al Fedro platonico (l’anima appesantita che cade sulla terra, 248C).
Entro tale complessa elaborazione fantastica Plutarco inserisce il mito preesistente e antichissimo dell’ascesa di Semele al cielo a opera del figlio Dioniso, il quale trasse la madre dall’Ade donandole l’immortalità (566 A Ἔλεγε <δὲ> ταύτῃ τὸν Διόνυσον ἀνελθεῖν καὶ τὴν Σεμέλην ἀναγαγεῖν ὕστερον); il dettaglio che il dio passò attraverso il baratro e vi condusse Semele si trova però solo nel DSNV[9].
Abbiamo quindi la convergenza di più temi e autori a costruire l’immagine senza precedenti che l’autore greco utilizza per il “suo” aldilà.
- Solo due opere tardoclassiche mostrano legami non casuali con il nostro brano ed entrambe sono posteriori al DSNV. La prima è il De antro nympharum di Porfirio (III sec. d.C.)[10]. Nell’interpretare allegoricamente il misterioso episodio odisseico dello sbarco a Itaca nei pressi di una grotta abitata da ninfe (Od. XIII) e nell’ottica di una rilettura complessiva del poema come ritorno dell’anima (Odisseo) alla patria celeste (Itaca), l’allievo di Plotino vede nell’antro il cosmo, oscuro perché fatto di materia, e utilizza concetti e lessico comuni al passo plutarcheo. Le Ninfe sono dunque le anime, i manti delle Ninfe i corpi; le due porte dell’antro rappresentano le vie di discesa e di risalita nel percorso celeste, vie che Porfirio colloca in due punti precisi tra gli astri, le costellazioni del Cancro e del Capricorno. Eraclito, presente in Plutarco implicitamente (vd. supra), è da Porfirio citato esplicitamente a proposito dell’umidità che appesantisce le anime e le fa ricadere nelle vite (De antro §§11-12).
Il tema dell’ebbrezza bacchica, poi, viene recuperato tramite una singolare menzione del miele, su cui giova ora soffermarsi. Nella grotta di Itaca, spiega il filosofo di Tiro citando Omero, vi sono crateri e anfore di pietra ἔνθα δ᾽ ἔπειτα τιθαιβώσσουσι μέλισσαι ‘dove poi api depongono il miele’ (Od. XIII 106): il verbo τιθαιβώσσω è un hapax di cui Porfirio fornisce una paraetimologia: δηλοῖ δὲ τὸ τιθαιβώσσειν τὸ τιθέναι τὴν βόσιν. βόσις δὲ καὶ τροφὴ τὸ μέλι ταῖς μελίσσαις ‘τ. significa «deporre il cibo»; infatti cibo e nutrimento alle api è il miele’. Propriamente la parola ‘miele’ non compare nel testo e forse la lettura porfiriana non coglie con esattezza il significato del misterioso e raro verbo, che però, indiscutibilmente, ha attinenza con il ‘nutrire’, ‘inzuppare con un liquido’[11].
A questo punto il filosofo introduce nel De antro una lunga discussione sul valore simbolico del miele, sostanza che oscilla fra il polo della purezza e quello della corruzione. Viene instaurato uno stretto legame tra ‘miele’ e ‘stordimento’, che culmina nella citazione di un mito orfico (§16 = fr. 154 Kern):
παρὰ δὲ τῷ Ὀρφεῖ ὁ Κρόνος μέλιτι ὑπὸ Διὸς ἐνεδρεύεται· πλησθεὶς γὰρ μέλιτος μεθύει καὶ σκοτοῦται ὡς ἀπὸ οἴνου καὶ ὑπνοῖ ὡς παρὰ Πλάτωνι ὁ Πόρος τοῦ νέκταρος πλησθείς· ‘οὔπω γὰρ οἶνος ἦν’. φησὶ γὰρ παρ’ Ὀρφεῖ ἡ Νὺξ τῷ Διὶ ὑποτιθεμένη τὸν διὰ μέλιτος δόλον·
‘εὖτ’ ἂν δή μιν ἴδηαι ὑπὸ δρυσὶν ὑψικόμοισιν ἔργοισιν μεθύοντα μελισσάων ἐριβομβέων, δῆσον αὐτόν’.
ὃ καὶ πάσχει ὁ Κρόνος καὶ δεθεὶς ἐκτέμνεται ὡς ὁ Οὐρανός, τοῦ θεολόγου δι’ ἡδονῆς δεσμεῖσθαι καὶ κατάγεσθαι τὰ θεῖα εἰς γένεσιν αἰνισσομένου ἀποσπερματίζειν τε δυνάμεις εἰς τὴν ἡδονὴν ἐκλυθέντα. ὅθεν ἐπιθυμίᾳ μὲν συνουσίας τὸν Οὐρανὸν κατιόντα εἰς Γῆν ἐκτέμνει Κρόνος· ταὐτὸν δὲ τῇ ἐκ συνουσίας ἡδονῇ παρίστησιν αὐτοῖς ‹ἡ› τοῦ μέλιτος, ὑφ’ οὗ δολωθεὶς ὁ Κρόνος ἐκτέμνεται.
In Orfeo, Crono è adescato da Zeus con il miele; infatti, egli sazio di miele, si ubriaca ed è ottenebrato come fosse ebbro di vino, e si addormenta come Poros in Platone, dopo che si è saziato di nettare «perché allora non c’era ancora il vino». In Orfeo la Notte, quando suggerisce a Zeus l’inganno per mezzo del miele, dice:
quando tu lo veda sotto le querce dalle alte foglie
ubriaco per il frutto del lavoro dalle api ronzanti, legalo’.
Così accade a Crono, che viene legato e castrato come Urano. Il teologo esprime qui in modo enigmatico il fatto che gli esseri divini vengono soggiogati dal piacere e indotti a spargere il seme, e struggendosi nel piacere disseminano le loro forze generatrici. Così Crono castra Urano che discende verso Terra indotto dal desiderio di unirsi a lei. Per i teologi la dolcezza del miele, con la quale Crono viene tratto in inganno per essere poi castrato, rappresenta il piacere che deriva dall’unione sessuale.
Porfirio decodifica Orfeo, teologo, attraverso altri teologi. Il soggiogamento di Crono è conseguenza del miele, vale a dire l’idromele (πλησθεὶς γὰρ μέλιτος μεθύει), che sostituisce il vino –ancora da venire–, gettando la mente di Crono nella tenebra (σκοτοῦται). Sono le api a fabbricare il nettare stordente, sicché il dio può essere legato e vinto da Zeus mentre giace sotto le querce. Il miele, fuor di metafora, rappresenta il piacere che induce alla generazione, è una trappola spargiseme che moltiplica gli esseri. Si tratta, in un’ottica metempsicotica, di un’azione negativa. Reincarnarsi, rinascere non è bene: l’anima cade, abbandona gli astri e si contamina con la materia.
Enrica Salvaneschi ha definito il brano «summa di primaria importanza sul tema del miele»[12]: in esso gli elementi del dionisiaco (il μέθυ, il rumore delle api, lo smembramento) sono esaltati sia dal parallelismo tra vino e miele (idromele) sia dalla potente relazione fonosemantica μέλι ~ μέθυ, che agisce forse già nella preistoria delle lingue indoeuropee tra i nuclei radicali *mel- e *medh– ed è perfettamente sfruttata nel testo (μέλιτος μεθύει)[13].
A proposito di preistoria, si aggiunga che il racconto orfico, del tutto isolato in greco, presenta indiscutibili raffronti con la mitologia norrena, alcuni dei quali sono stati analizzati da Marcello De Martino[14]. In particolare, il frassino primordiale Yggdrasill stilla una rugiada chiamata hunangfall (hunang corrisponde a ingl. honey)[15].
Gylfaginning 16 (la strofe equivale in gran parte a Voͅluspá 19):
- Ask veit ek ausinn,
heitir Yggdrasill,
hárr baðmr, heilagr,
hvíta auri;
þaðan koma döggvar,
er í dali falla;
stendr hann æ yfir grænn
Urðarbrunni.
Sú dögg, er þaðan af fellr á jörðina, þat kalla menn hunangfall, ok þar af fæðast býflugur. Fuglar tveir fæðast í Urðarbrunni. Þeir heita svanir, ok af þeim fuglum hefir komit þat fuglakyn, er svá heitir.
Un frassino conosco, asperso,
si chiama Yggdrasill
fusto elevato, sacro,
di bianco limo;
da lui viene rugiada
che cade nelle valli;
si erge sempre verde
nella fonte di Urð.
La rugiada che cade dall’albero sulla terra gli uomini la chiamano ‘caduta del miele’ ed è il cibo delle api. Due uccelli sono nutriti nella fonte di Urð. Sono chiamati cigni e sono genitori della razza dei cigni.
Dal grande frassino, inoltre, Odino pende legato (Hávámal 138) e si è voluta vedere in questa immagine una ulteriore somiglianza con Crono ‘legato’ (δεθείς) sotto gli alberi/querce[16].
- Procedendo sull’asse cronologico e spostandoci dalla cultura greca a quella latina, incontriamo Macrobio, che tra il IV e il V sec. d.C. commenta il Somnium Scipionis ciceroniano in chiave neoplatonica. La dipendenza di Macrobio da Porfirio è palese, dacché il filosofo romano descrive la discesa delle anime reincarnande da postazioni astrali citando l’antro di Itaca, Pitagora, il Cancro e il Capricorno[17]; il dotto romano, inoltre, aggiunge al suo accuratissimo e affascinante racconto un Crater Liberi patris ‘Cratere del padre Libero’ assai somigliante al baratro plutarcheo[18].
Quando l’anima si lascia cadere dal cielo nella vita, accade infatti questo (I xii 1 ss.):
- Descensus vero ipsius, quo anima de caelo in huius vitae inferna delabitur, sic ordo digeritur. Zodiacum ita lacteus circulus obliquae circumflexionis occursu ambiendo complectitur, ut eum qua duo tropica signa Capricornus et Cancer feruntur intersecet. has solis portas physici vocaverunt, quia in utraque obviante solstitio ulterius solis inhibetur accessio, et fit ei regressus ad zonae viam cuius terminos numquam relinquit. 2. per has portas animae de caelo in terras meare et de terris in caelum remeare creduntur. ideo hominum una, altera deorum vocatur: hominum Cancer quia per hunc in inferiora descensus est, Capricornus deorum quia per illum animae in propriae immortalitatis sedem et in deorum numerum revertuntur. 3. et hoc est quod Homeri divina prudentia in antri Ithacensis descriptione significat. hinc et Pythagoras putat a lacteo circulo deorsum incipere Ditis imperium, quia animae inde lapsae videntur iam a superis recessisse. […]
- anima ergo cum trahitur ad corpus, in hac prima sui productione silvestrem tumultum id est ὕλην influentem sibi incipit experiri. et hoc est quod Plato notavit in Phaedone: animam in corpus trahi nova ebrietate trepidantem, volens novum potum materialis alluvionis intellegi, quo delibuta et gravata deducitur. 8. arcani huius indicium est et Crater Liberi patris ille sidereus in regione quae inter Cancrum est et Leonem locatus, ebrietatem illic primum descensuris animis evenire silva influente significans, unde et comes ebrietatis oblivio illic animis incipit iam latenter obrepere. 9. nam si animae memoriam rerum divinarum, quarum in caelo erant consciae, ad corpora usque deferrent, nulla inter homines foret de divinitate dissensio: sed oblivionem quidem omnes descendendo hauriunt, aliae vero magis, minus aliae. et ideo in terris verum cum non omnibus liqueat, tamen opinantur omnes, quia opinionis ortus est memoriae defectus. 10. hi tamen hoc magis inveniunt qui minus oblivionis hauserunt, quia facile reminiscuntur quod illic ante cognoverint. hinc est quod quae apud Latinos lectio, apud Graecos vocatur repetita cognitio, quia, cum vera discimus, ea recognoscimus quae naturaliter noveramus, prius quam materialis influxio in corpus venientes animas ebriaret. 11. haec est autem hyle, quae omne corpus mundi quod ubicumque cernimus ideis impressa formavit. sed altissima et purissima pars eius, qua vel sustentantur divina vel constant, nectar vocatur et creditur esse potus deorum, inferior vero atque turbidior potus animarum. et hoc est quod veteres Lethaeum fluvium vocaverunt. 12. ipsum autem Liberum patrem Orphaici νοῦν ὑλικόν suspicantur intellegi, qui ab illo individuo natus in singulos ipse dividitur. ideo in illorum sacris traditur Titanio furore in membra discerptus et frustis sepultis, rursus unus et integer emersisse, quia νοῦς, quem diximus mentem vocari, ex individuo praebendo se dividendum, et rursus ex diviso ad individuum revertendo et mundi implet officia et naturae suae arcana non deserit.
- Quanto alla vera e propria discesa, durante la quale l’anima cade dal cielo fino alle regioni inferiori della vita, la cosa si svolge così. Il circolo latteo abbraccia totalmente lo zodiaco con l’orbita obliqua che ha nei cieli cosicché lo interseca in due punti, laddove si muovono i due segni tropicali, il Capricorno e il Cancro. I fisici chiamarono questi ‘porte del sole’ perché in entrambi il punto solstiziale impedisce al sole, sbarrandogli la strada, di proseguire il suo corso e ne provoca il ritorno sui suoi passi verso la zona di cui non abbandona i confini. 2. Attraverso questa porta, si crede, le anime scendono dal cielo sulla terra e risalgono verso il cielo dalla terra. Una, perciò, è chiamata porta degli uomini e l’altra porta degli dei: la porta degli uomini è il Cancro, poiché la discesa verso le regioni inferiori avviene attraverso di essa; la porta degli dèi è il Capricorno, poiché attraverso di esso le anime risalgono verso la sede della loro propria immortalità nel novero degli dèi. 3. E questo è quanto Omero con la sua divina sapienza ha voluto simboleggiare nella descrizione dell’antro di Itaca. Così anche Pitagora pensa che l’impero di Dite cominci al di sotto del circolo latteo, poiché le anime, cadendo di là, sembrano ormai essere scisse dalle regioni superne …
- Quando dunque l’anima è trascinata verso il corpo, in questo suo primo prolungamento comincia a sperimentare il tumulto silvestre, cioè la ὕλη che affluisce in essa. È ciò che ha osservato Platone nel Fedone, quando descrive l’anima trascinata nel corpo che vacilla per un’ebbrezza mai prima sperimentata, volendo con ciò alludere all’inusitato flusso della materia corporea che la impregna e la appesantisce nel corso della sua discesa. 8. Un simbolo di questo mistero è anche il Cratere del Padre Libero, costellazione che si vede collocata tra il Cancro e il Leone, che designa lo stato di ebbrezza che lassù, per la prima volta, sotto l’influsso della materia, si impossessa delle anime che devono scendere quaggiù; ne consegue anche che l’oblio, compagno dell’ebbrezza, comincia ad insinuarsi surrettiziamente nelle anime. 9. Infatti se le anime recassero giù nei corpi la memoria delle cose divine, di cui nel cielo erano a conoscenza, non vi sarebbe negli uomini nessun disaccordo a proposito della Divinità; ma tutte discendendo bevono la coppa dell’oblio, chi più e chi meno. Ne deriva che, anche se sulla terra la verità non è comprensibile a tutti, tutti nondimeno possiedono un’opinione, giacché l’opinione sorge dal difetto di memoria. 10. Tuttavia quanto meno gli uomini hanno bevuto l’oblio tanto più la trovano, poiché facilmente ricordano ciò che conobbero anteriormente. Da ciò viene quello che i latini chiamano lectio e i Greci ‘conoscenza ritrovata’, perché, quando apprendiamo cose vere, riconosciamo quelle che sapevamo naturalmente prima che l’influsso materiale ubriacasse le anime che entrano nei corpi. 11. Questa è dunque la hyle, che ha formato ogni corpo del mondo, ovunque guardiamo, impressa dalle idee. Ma la parte più alta e più pura di essa, quella della quale si sostentano e hanno consistenza le cose divine, è chiamata nettare e si reputa che sia la bevanda degli dèi. E questo è ciò che gli antichi chiamarono fiume Leteo. 12. Con lo stesso padre Libero gli Orfici simboleggiano la mente materiale che, nata dal quell’essere indivisibile si divide nei singoli esseri. Per questo nei loro misteri si tramanda che, straziato nelle membra dal furore dei Titani e sepolti i pezzi, egli sia rinato di nuovo uno e integro, poiché il νοῦς, che dicemmo essere chiamato ‘mente’, offrendo di dividersi da uno stato indivisibile e di nuovo tornando dall’indivisione all’indivisibile compie i doveri del mondo e non abbandona i misteri della sua natura.
La costellazione del Cratere come luogo celeste in cui le anime si preparano a scendere è la trasposizione astronomica del χάσμα μέγα plutarcheo. Tutti gli elementi ritornano: l’ebbrezza del vino che stordisce le anime, l’oblio, la materia, la discesa nei corpi. Macrobio ha voluto tradurre in latino il nome del dio Bacco/Dioniso, che diventa Liber così come il χάσμα diventa Crater. Tale “contenitore”, di collocazione celeste (inter Cancrum est et Leonem locatus)[19], sarebbe il luogo in cui Orfeo si era spinto in cerca della moglie. L’ispirazione ultima di Macrobio è platonica (il cratere di Timeo 41D, le anime ubriache di Phaed. 79, su cui vd. infra) e vi si coglie una ulteriore allusione a DSNV §28, laddove Plutarco, subito dopo aver descritto il baratro del Lete, parla di un ‘grande cratere’ in cui tre diavoli rimescolano i sogni degli uomini.
A nostro avviso, dunque, l’autore latino conosce bene il DSNV e vi allude in I xii. Una ripresa puntuale del testo greco potrebbe rinvenirsi, fra le tante, nell’uso di latenter per Λήθη (lateo ~ λανθάνω): latenter è il modo furtivo in cui l’oblio si insinua (obrepere) nelle anime, tutte impregnate di materia. Notevole è poi la resa di ὕλη con silva, data la loro corrispondenza (paraetimologica) tra i due termini, che opera ampiamente nella letteratura latina su influsso neoplatonico[20]. In Macrobio la vegetazione esuberante che Plutarco descrive non può essere presente (il Crater non è un antro boscoso); essa, tuttavia, viene richiamata varie volte attraverso i sintagmi silva influente e silvestrem tumultum. Il ‘tumulto’, rumore scomposto e caotico, è un tipico elemento del dionisiaco; tumultus, tuttavia, più che una nozione acustica, rappresenta etimologicamente quella di ‘crescita’, ‘rigonfiamento’: esso è infatti corradicale di tumeo ‘divento gonfio’. Lo stesso semantema emerge nel nome Līber da *h1leu̯dh– ‘crescere’[21]: non è quindi un caso che tale antichissima divinità encorica sia stata scelta come patrona del Cratere: non solo essa equivale a Bacco/Dioniso, ma il nome Līber indica spesso in latino il vino, per antonomasia. Alla fine del passo macrobiano, allorché l’autore ci spiega che il Padre Libero significa la mente materiale divisa in varie parti e straziata dai Titani per rinascere unica e integra, l’identificazione del dio con il processo di spremitura dei chicchi è totale.
- Il percorso Omero→Platone→Plutarco→Porfirio→Macrobio, che parte dall’idea di un antro misterioso (misterico) e ne dà svariate interpretazioni, potrebbe apparire uno sviluppo totalmente interno alle letterature classiche. Da tempo tuttavia sappiamo che alcuni nuclei della mitologica ellenica hanno origine indoeuropea e, in particolare, le credenze relative alla reincarnazione, di scuola orfico-pitagorica, sono più volte state in predicato di “orientalismo”. Gli “influssi orientali” sono un’etichetta che la critica ha evocato già nel XIX secolo per le dottrine metempsicotiche, fermandosi però sostanzialmente a ragionarne in termini di “prestiti” e “circolazioni culturali” da vari paesi limitrofi verso la Grecia con modalità del tutto ipotetiche. Dagli Egiziani di Erodoto agli “intermediari iranici” di molti studiosi moderni, la ricerca di un’origine esterna per tali credenze non si è mai fermata[22]. A essa si oppongono però, fondamentalmente, due grosse obiezioni: in primo luogo, gli Egiziani non credevano alla reincarnazione e quindi Erodoto sbaglia su questo punto. In secondo luogo, le aree iraniche in contatto con gli Elleni non sembrano nutrire particolare fede nella rinascita delle anime. La religione iranica, intorno al VI sec. a.C., in epoca di culto zoroastriano-mazdeista, rifiuta addirittura l’idea della trasmigrazione, che impedisce all’anima di essere libera e di salvarsi[23].
Una soluzione più semplice consiste nel porre un corpus di dottrine metempsicotiche all’interno della preistoria indoeuropea e dunque trarre da eventuali convergenze tra aree euroasiatiche non in contatto l’inevitabile conclusione che le somiglianze sono preistoriche e le differenze, eventualmente, storiche.
Il caso si dà allorché individuiamo in due brani adiacenti del Mahābhārata un “baratro del Lete” immerso nella religione e nella cultura indiane ma di fatto assai somigliante a quello plutarcheo, nonché alla caverna della Repubblica di Platone. Il brano è noto e un’analisi comparatistica è stata già condotta, per quanto riguarda il parallelismo con la Repubblica, da Agostino Zucco[24]. Chi scrive ha poi ulteriormente sviluppato il confronto, estendendolo anche al prologo della Divina Commedia e ritenendo l’allegoria della caverna un apologo “indoeuropeo” di dannazione e ignoranza[25].
È ora il momento di verificare se l’epica indiana può essere parimenti d’aiuto a chiarire meglio la genesi di quest’altra cavità, incubatrice di corpi reincarnandi.
Nel libro XI il brāhmaṇo Vidura (il nome significa ‘sapiente’) rivela al fratello, il re cieco Dhr̥tarāṣṭra, un παλαιὸς λόγος fra quelli più riposti e segreti, il destino dell’anima. Lo scopo è trattenere il re dal suicidio: il massacro della sua famiglia causa infatti al re un dolore insopportabile e un desiderio di morte. L’esposizione è divisa in due parti.
Nella prima parte (IV 1-9) dell’apologo la cavità rappresenta l’utero nel quale il feto sta capovolto (ūrdhvapādo hy adhaḥśirāḥ), in attesa di uscire. L’utero è un gahanam ‘abisso’ ed è anche la porta da cui si fuoriesce andando verso la vita (yonidvāram upāgamya); la creatura abita in mezzo alla sporcizia (amedhyamadhye vasati) per poi venire al mondo in un’esistenza di lacci e tormenti: particolarmente forte è il lessico dell’oppressione, con la ripetuta insistenza sulla radice badh– ‘legare’ (corradicale di ingl. bind), usata per indicare l’azione dei sensi sul nato (baddham indriyapāśais).
Nella seconda parte (V 1-22) l’uomo, ormai adulto, inciampa e cade a testa in giù in una cisterna piovana immersa in una orribile foresta (vanaṃ durgam), rimanendo appeso per un piede alle liane. Capovolto e immobile, trascorre la vita stordito da un miele velenoso e obliante che api malvagie secernono senza sosta. Vidura spiega che la selva intricata rappresenta ‘l’abisso del ciclo delle esistenze’ (saṃsāragahanam) e che il miele serve a impedire all’uomo di prenderne coscienza.
La traducibilità in termini greci di parole e concetti indiani svela le affinità che sussistono tra questi ultimi, il racconto di Tespesio e le concezioni orfico-platonico-pitagoriche dell’anima. Il saṃsāra è un vero e proprio κύκλος ἀνάγκης terribile e doloroso, concepito in forma di gahanam ‘abisso’ (in Plutarco il χάσμα è appunto definito κύκλος) e di due diverse specie: è yoni- ‘grembo, utero’ quando l’uomo si forma, è udapāna- ‘cisterna dell’acqua’ e kūpa- ‘pozzo’ quando l’uomo adulto vi cade a testa in giù (ricordiamo che anche Tespesio cade ‘a testa in giù’, εἰς τράχηλον, da una rupe, vd. al §1.): la posizione della nascita coincide quindi con la posizione dello stordimento, dell’annegamento della ‘materia’, quel vanam ben traducibile con il greco ὕλη, dacché entrambi i termini designano sia la flora lussureggiante di un bosco/foresta sia la materia oscura e indistinta. Il pozzo dell’infausta caduta è molto simile all’antro bacchico: tanto per il suo essere ricolmo di vegetazione confusa e tronfia quanto per lo stato di ebbrezza che esso induce nel malcapitato; le liane intricate (un chiaro rimando al cordone ombelicale) sono il δεσμός che lo imprigiona nel carcere dell’esistenza, a sua volta determinata dalla condotta nelle vite precedenti – vincoli senza fine, di generazione in generazione, di catena in catena[26]. Lo stordimento del prigioniero è causato dal miele, mádhu-, corrispondente al gr. μέθυ ‘ebbrezza’.
Siamo di fronte a due gemelli etimologici: mádhu- e μέθυ sono addirittura equati, entrambi temi in -u- neutri da *médhu-. Degli aspetti formali abbiamo già trattato supra (note 13 e 16). Notiamo ora i parallelismi di contenuto: il miele delle api orfiche ottenebra Crono (μέλιτος μεθύει), le api indiane (‘terribili’) secernono il madhu- dell’oblio: gli animali operosi e laboriosi della tradizione si fanno strumento di inganno[27]. È proprio grazie all’inganno del miele (τὸν διὰ μέλιτος δόλον), infatti, che l’uomo sopporta di tornare nel mondo e di stare al mondo. La vita è stordita persistenza nell’abisso della materia, in attesa della liberazione.
- Ci sembra di poter concludere che, mentre pare assai verosimile la dipendenza storica di Macrobio da Plutarco e sicura quella di Macrobio da Porfirio, una spiegazione del baratro del Lete in chiave totalmente interna alla letteratura greca non sia del tutto soddisfacente, a meno di voler negare la fortissima somiglianza fra l’immagine plutarchea e quelle indiane. Se è vero che la cisterna di Vidura ha forti punti di contatto con la caverna di Platone (e uniamo a questa considerazione le altrettanto innegabili e precise corrispondenze fra l’allegoria dell’ani-ma-carro nel Fedro e quella dell’anima-auriga nella Kaṭha Upaniṣad)[28], ne concludiamo che una parte dell’escatologia greca intrattiene con quella indiana più somiglianze che con qualunque altra cultura: è proprio del pensiero upaniṣadico sviluppare riflessioni sullo stato dell’ani-ma sia dopo la morte sia durante il sonno, due condizioni nelle quali l’anima esce dal corpo per vagabondare nello spazio, attraversando proprio la sutura del cranio (cfr. Taitt.Up. I 6.1 e Ait.Up. I.12 = il plutarcheo τὰς ῥαφὰς διαστάσας μεθιέναι τὴν ψυχήν nel De genio Socratis, vd. §1.). Nei testi indiani questo tipo di dottrine è segnalato come tradizionale (fa parte degli insegnamenti che i brāhmaṇi impartiscono a pochi, selezionati discepoli), nei testi greci si parla di palaioi logoi, discorsi sacri, discorsi di teologi (vd. supra), e ciò significa che non si tratta di creazioni estemporanee, bensì custodite e tramandate.
Alla luce di questi ragionamenti, il baratro della reincarnazione potrebbe essere interpretato come il resto di un racconto didascalico e iniziatico precedente alla diaspora monoglottica delle lingue indoeuropee e diretto a spiegare la caduta e la permanenza dell’anima in uno stato a lei svantaggioso e fondamentalmente contrario alla sua vera natura.
Notate le somiglianze, è però necessario esplicitare anche le differenze. L’episodio plutarcheo è inserito in un contesto cosmico e astrale: la cavità è celeste e le anime – vere e proprie star rovers à la Jack London – si muovono tra le stelle. La speculazione indiana, invece, non prevede la dislocazione dell’ātman in una dimensione specificamente astrale e colloca la cisterna nel fitto di una foresta[29]. Come interpretare tali difformità? Si potrebbe ipotizzare un innesto fra insegnamenti ereditari indoeuropei e altre credenze. All’epoca di Plutarco gli influssi orientali (caldei, persiani) sulla religione greca e sul neoplatonismo sono un fatto acclarato e ben sottolineato, per esempio, da studiosi del calibro di Joseph Bidez e Franz Cumont[30]: la tradizione astrale babilonese, che risale ai Sumeri e viene poi assunta in Iran, giunge all’inquieto mondo classico di epoca matura attraverso un’osmosi ininterrotta – deriva di un’onda che si espande verso Occidente.
Torniamo così a ribadire quanto dicevamo in precedenza: le differenze fra culture geneticamente imparentate e non più in contatto diretto possono essere recenti, mentre le somiglianze si rivelano antiche.
Note:
** Si assume il genere maschile di Λήθη, ormai entrato nell’uso italiano, sebbene la parola greca sia femminile.
[1] Si veda il classico Georges Dumézil, Mito ed Epopea. La terra alleviata, Torino: Einaudi, 1982 [ed. or. 1968].
[2] Per questo tipo di esperienze nell’antichità si possono consultare: Yulia Ustinova, Caves and the Ancient Greek Mind. Descending Underground in the Search for Ultimate Truth, Oxford: Oxford University Press, 2009 e Alessandro Coscia, L’antro sottoterra. Catabasi e riti di immortalizzazione da Pitagora ad Aristea di Proconneso, in Arduino Maiuri (ed.), Antrum. Riti e simbologie delle grotte nel Mediterraneo antico, Editrice Morcelliana: Brescia, 2017, pp. 127-172. Segnalo inoltre la bella tesi della mia allieva Irene Gagliardi, Il volo della mente: Aristea di Proconneso e l’inno vedico X, 136, Università di Genova, Corso di Laurea Magistrale in Scienze dell’Antichità: Archeologia, Filologia e Letterature, Storia, A.A. 2018-2019.
[3] Possiamo allora parlare di Averno celeste, dato che le anime-uccello (συστελλόμεναι γὰρ ὥσπερ αἱ ὄρνιθες) temono di attraversare in linea retta la voragine in cui poi cadono a loro danno? Effettivamente in greco l’aggettivo ἄ(ϝ)ορνος ‘senza uccelli’ indica un luogo infero (un ἄορνος λίμνη necromantico è già in nel frammento di Sofocle 748 Pearson). A nostro avviso la risposta è positiva. Plutarco conosceva forse Apollonio Rodio con la sua descrizione dell’Eridano (IV 601-602): οὐδέ τις ὕδωρ κεῖνο/ διὰ πτερὰ κοῦφα τανύσσας οἰωνὸς δύναται βαλέειν ὕπερ, ἀλλὰ μεσηγύς φλογμῷ ἐπιθρῴσκει πεποτημένος. ‘Nessuno uccello, dispiegando le ali leggere, può oltrepassare l’acqua, ma, volando, balza in mezzo alle fiamme’. Senza implicazioni infere, ma sempre legato alla morte di Fetonte, è il fetido lago eridanico evitato dai volatili in Ps.-Aristotele, Mir. 863A: καὶ οὔτε ζῷον οὐδὲν πίνει ἐξ αὐτὴς οὔτε ὄρνεον ὑπερίπταται ἀλλὰ πίπτει καὶ ἀποθνήσκει.
L’autore poteva inoltre avere in mente il De rerum natura, che fornisce in dettaglio l’etimologia di lat. Avernus come ‘luogo senza uccelli’ (VI 740-746): Principio, quod Averna vocantur nomine, id ab re/ impositumst, quia sunt avibus contraria cunctis,/ e regione ea quod loca cum venere volantes,/ remigi oblitae pennarum vela remittunt/ praecipitesque cadunt molli cervice profusae/ in terram, si forte ita fert natura locorum,/ aut in aquam, si forte lacus substratis Averni. ‘In primo luogo che [alcuni posti] siano chiamati con il nome Averni è determinato dal motivo che/ sono funesti a tutti gli uccelli (aves),/ poiché, una volta che sono giunti volando in linea retta a quei luoghi,/ dimentichi del remigare, depongono le vele delle penne/ e cadono a precipizio, riversi a terra con il collo afflosciato/ – se per caso così comporta la natura dei luoghi –,/ o in acqua – se per caso si stende un lago d’Averno’.
Conosceva di sicuro, infine, Aen. VI 237-242: Spelunca alta fuit vastoque immanis hiatu,/ scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris,/ quam super haud ullae poterant impune volantes/ tendere iter pinnis: talis sese halitus atris/ faucibus effundens supera ad convexa ferebat./ [unde locum Grai dixerunt nomine Aornum]. ‘Vi era profonda una spelonca, enorme, di vasta apertura,/ rocciosa, difesa da un lago nero e dalle tenebre dei boschi,/ sulla quale nessun volatile poteva dirigere impunemente il corso con le ali. Tale esalazione si levava effondendosi alla volta celeste. [Da ciò i Greci chiamarono il luogo con il nome di Averno]’. Sia o meno l’ultimo verso un’interpolazione dotta, il rapporto con ἄ(ϝ)ορνος rimane un punto fermo del passo. Naturalmente Lucrezio, a differenza di Virgilio, è interessato a fornire una spiegazione razionale del fenomeno: sono gli effluvi venefici di acque e terreni a tenere lontani gli animali. In Plutarco, all’inverso, effluvi profumati attirano le ψυχαί nella trappola.
[4] Il termine μετεμψύχωσις è attestato molto tardi nella lingua greca da Diodoro Siculo (II x 6): Ὅτι ὁ Пυθαγόρας μετεμψύχωσιν ἐδόξαζεν καὶ κρεοφαγίαν ὡς ἀποτρόπαιον ἡγεῖτο, πάντων τῶν ζῴων τὰς ψυχὰς μετὰ θάνατον εἰς ἕτερα ζῷα λέγων εἰσέρχεσθαι ‘Pitagora credeva nella metempsicosi e riteneva detestabile il mangiare carni, dicendo che le anime di tutti gli esseri viventi dopo la morte entrano in altri esseri viventi’. Pitagora si colloca però nel VI sec. a.C., epoca in cui cominciano ad apparire testimonianze di dottrine metempsicotiche legate al suo nome. Diogene Laerzio non ha dubbi nell’attribuire al filosofo di Samo la primazia in tale campo: πρῶτον τοῦτον (Πυθαγόραν) ἀποφῆναι τὴν ψυχὴν κύκλον ἀνάγκης ἀμείβουσαν ἄλλοτ’ ἄλλοις ἐνδεῖσθαι ζῴοις (VIII 14). Senofane (570-475 a.C.) riporta la testimonianza del cagnolino in cui Pitagora riconobbe l’anima di un amico (D.-K. 21 B 7). In forma poetica la teoria della reincarnazione è compiutamente espressa per la prima volta nell’Olimpica II di Pindaro (474 a.C.); tra i Presocratici, Eraclito ed Empedocle hanno sicura fede in essa. Nel V secolo a.C. anche l’orfismo comincia ad essere associato a tale insieme di credenze (ne riferisce Platone, Crat. 400C), del resto confermate dal cosiddetto corpus delle laminette “orfiche” (vd. infra). Platone in più punti chiama i discorsi sulla sopravvivenza e trasmigrazione dell’anima παλαιοὶ λόγοι; li ritiene opera di sapienti antichi ed eventualmente recitati in occasioni segrete (Gorg. 492E, 507E-508A; Phaid. 62B, 70C-D e di nuovo Crat. 400C).
Se perciò il nome è tardo, così come il parallelo παλιγγενεσία usato nel senso di ‘reincarnazione’ proprio da Plutarco (De esu carnium = Mor. 66 §4, 998C), la concezione dell’anima che rinasce in un altro corpo pare proprio essere diffusa in tutta la grecità già in epoca preclassica, per quanto l’escatologia di Omero e di Esiodo notoriamente non la contemplino.
[5] Cfr. Yvonne Vernière, Le Léthé de Plutarque, in «Revue des Études Anciennes», 66 (1964), pp. 22-32; Matteo Taufer, Er e Tespesio. Plutarco interprete di Platone, in «Lexis», 17 (1999), pp. 303-318 e, soprattutto, del medesimo, Il mito di Tespesio nel De sera numinis vindicta di Plutarco, Napoli: M. D’Auria Editore, 2010, in part. alle pp. 166-179 (commento puntuale al testo). Più di recente, si veda anche Renaud Gagné, La catabase aérienne de Thespésios: le statut du récit, in «Les Études Classiques», 83 (2015), pp. 313-328.
[6] Platone dapprima nomina la piana Lete, e Amelete sarebbe il fiume le cui acque devono essere bevute dalle anime reincarnande (621A-B); poi il nome del fiume diventa Lete (621C): è un’incongruenza notata da molti interpreti.
[7] Cfr. Il mito di Tespesio, p. 171.
[8] Cfr. Giovanni Pugliese Carratelli, Le lamine d’oro orfiche, Milano: Adelphi 20112, pp. 56-57.
[9] La prima allusione si trova addirittura nella Teogonia di Esiodo (vv. 940-942). Sulle varie fonti cfr. Taufer, Il mito di Tespesio, p. 175 e Marco Antonio Santamaría Álvarez, El descenso de Dioniso al Hades en busca de su madre, in Jordi Redondo – Ramón Tomé (edd.), Apocalipsi, Catàbasi i millenarisme a les leteratures antigues i la seua recepció, Amsterdam: Adolf M. Hakkert Publisher, 2014, pp. 217-240.
[10] Utilizziamo la pregevole edizione commentata a cura di Laura Simonini, Porfirio, L’antro delle ninfe, Milano: Adelphi, 1986.
[11] Per l’etimologia rimandiamo al recente e accurato studio di Michael Janda, Purpurnes Meer. Sprache und Kultur der homerischen Welt, Innsbruck: Innsbrucker Beiträge zur Kulturwissenschaft, 2014, pp. 486-496. Lo Janda fa risalire il verbo a un ipotetico composto *τιθαι-βώτ- ‘che si nutre nel seno’, da cui il verbo *τιθαι-βώτ-jω ‘bere, succhiare’. Le api, allora, non deporrebbero bensì “succhierebbero” la dolce bevanda da loro stesse prodotta.
[12] La citazione è tratta da “Briciola”. Storia fantastica di un’idea, Genova: il melangolo: 1990, p. 72.
[13] Cfr. Julius Pokorny, Etymologisches indogermanisches Wörterbuch, I. Band, Tübingen und Basel, Francke Verlag, 1959, alle voci *meli-t- (pp. 723-724) e *medhu- (p. 707). Si veda ora la precisa ricostruzione del tema nominale *medhu- condotta da Giulio Imberciadori nel presente volume.
[14] Cfr. Arcana Verba. Fortuna e Iuppiter nel loro background indoeuropeo. II: il motivo della sorte esteso, Bari: Edipuglia, 2015, p. 341e ss.
[15] Dal protogermanico *hunang- a sua volta da *knh2–, quindi da confrontare con il greco κνῆκος ‘cartamo’ e κνηκός ‘fulvo’. Si tratta evidentemente di un cromatonimo. Cfr. Gus Kroonen, Etymological Dictionary of Proto-Germanic, Leiden – Boston: Brill, 2013, pp. 255-256.
[16] Ricordiamo che in greco un albero ben preciso sembra collegare la propria etimologia al nome del miele, ed è proprio il frassino, μελία. Il Fraxinus Ornus, infatti, produce dal tronco, opportunamente inciso, la manna, una linfa dolce che cola e si essicca in caratteristici coni. La possibile relazione tra fitonimo e melonimo è sostenuta da Darl J. Dumont, The Ash Tree in the Indo-European Culture, in «Mankind Quarterly» XXIII (1992), pp. 323-336. Nel De antro, tuttavia, l’espressione ὑπὸ δρυσὶν ὑψικόμοισιν non dovrebbe indicare in particolare i frassini, senza considerare che il testo nomina chiaramente il miele come frutto delle api e non degli alberi. Tuttavia, a nostro avviso, la suggestione nascosta permane e altre ne emergono: tra miele e tenebra vi può essere la mediazione in absentia di μέλας ‘nero’ e fra miele e fiacchezza (di Crono) quella di μαλακός ‘debole, morbido’ e ‘languido, arrendevole’. Nell’articolo di Imberciadori, cit. in nota 13, la nostra suggestione trova un sostegno ricostruttivo nella possibile identità della radice *medh– ‘bevanda dolce/alcoolica e miele’ con *medh– ‘scuro’, attestata indipendentemente in anatolico, slavo e germanico. Lo studioso sottolinea come anche per *mel- ‘miele’ sia stata proposta un’identità con l’omofono *mel- ‘scuro’; quindi, in ultima analisi, μέλι e μέλας potrebbero essere effettivamente imparentati. In considerazione di ciò, il mito del miele che ottenebra (σκοτοῦται) rimette in scena un rapporto linguistico antico e forse mai obliato nelle sette di matrice orfica.
[17] Ai §§ 28 e 29 dell’operetta porfiriana è descritto il viavai delle anime attraverso ‘le porte del sole’ (Cancro e Capricorno). Le anime prima di reincarnarsi stazionano nella Via Lattea. Su questo punto cfr. Rosa Ronzitti, Iconimie e figuralità della Via Lattea in Giovanni Pascoli, in «Lumina. Studi di Linguistica Storica e di Letterature Comparate», II (2018), pp. 189-215.
[18] Si veda in proposito la monografia di Wolfgang Hübner, Crater Liberi. Himmelspforten und Tierkreis, München: Beck, 2006. Inoltre: Aldo Setaioli, La discesa dell’anima in Macrobio, in «MHNH», 8 (2008), pp. 288-292.
[19] Non pare corrispondere alla costellazione chiamata Crater, che non è collocata fra Cancro e Leone, bensì fra Leone e Vergine (così giustamente Setaioli, La discesa dell’anima in Macrobio, p. 299).
[20] L’impiego della parola silva ‘selva’ nel senso di ‘materia’ è un calco semantico dal greco utilizzato da Macrobio, Calcidio e Servio. Quest’ultimo, ad Aen. VIII 601 commenta: prudentiores dicunt, esse eum ὑλικὸν θεόν, hoc est deum ὕλης. Ὕλη autem est faex elementorum, id est ignis sordidior et aer, item aqua et terra sordidior, unde cuncta procreantur.
Per i rapporti fra ὕλη e silva cfr. Ermanno Malaspina, Hyle-silva (et alentour): problèmes de traduction entre étymologie et métaphore, in «Interférence. Ars scribendi» 1 (2006), online. Lo studioso cita Verrio Flacco (Fest. 70, 20s. L.s.v. suppum): Suppum antiqui dicebant quem nunc supinum dicimus ex Graeco, videlicet pro adspiratione ponentes <S> litteram; ut cum idem ὕλας dicunt et nos silvas; item ἕξ sex et ἑπτά septem. Les anciens appelaient suppum ce que nous disons supinum, venant du grec, sans doute en plaçant la lettre «s» à la place de l’aspiration; de la même façon, ils disent ὕλας et nous silvas ; encore, ils disent ἕξ pour sex et ἑπτά pour septem.
[21] Cfr. la voce Līber in A[lois] Walde – J[ohann Baptist] Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, Erster Band, Heidelberg: Carl Winters Universitätsbuchhandlung, 1938, p. 792.
[22] La bibliografia è tanto sterminata quanto non di rado ripetitiva e inconcludente. Si veda per un inquadramento della questione il mio Platone, l’Oriente, il carro alato, in «Vie della Tradizione. Rassegna semestrale di orientamenti tradizionali», Anno L, 176 (2019), pp. 17-30.
A noi piace inoltre ricordare l’annoso ma ancora importante libretto di Leopold von Schroeder, Pythagoras und die Inder, Leipzig: Otto Schulze, 1884, che resta a tutt’oggi una sintesi puntuale e acuta delle congruenze fra pensiero pitagorico e pensiero indiano. Per l’Autore Pitagora andò davvero in India, dove apprese le dottrine filosofiche e matematiche che insegnò poi ai suoi scolari.
[23] Per una critica al famoso assunto erodoteo, che effettivamente non trova riscontro nelle fonti encoriche, cfr. in prima battuta Alan B. Lloyd, a cura di, Erodoto, Le storie. Libro II: L’Egitto, Milano: Mondadori (Fondazione Lorenzo Valla), 1989, pp. 342-343.
Per l’iranico rimandiamo alla ricca voce Eschatology, prima parte a cura di Shaul Shaked in Encyclopædia Iranica (https://www.iranicaonline.org/articles/eschatology-i, consultata il 9.VI.2022).
[24] Cfr. Agostino Zucco, Il significato originario di un’antica parabola: Mahābh., XI, 5, 6, 7 e la sua diffusione letteraria e artistica in Oriente e Occidente, Genova: Università degli Studi, Istituto di Glottologia, 1971.
[25] Cfr. Rosa Ronzitti, Su alcune congruenze fra il prologo della Divina Commedia e il libro XI del Mahābhārata: problemi e ipotesi, in «Campi immaginabili. Rivista semestrale di cultura», 58/59 (2018), pp. 5-40.
[26] Per i sensi come ‘ceppi’/ ‘legami’ (indriyapāśais) non si può fare a meno di citare, isieme con Macrobio (vd. supra). un passo analogo del Fedone, ovvero le parole di Socrate sull’anima ubriaca che è legata a σῶμα e αἴσθησις (79C):
τοῦτο γάρ ἐστιν τὸ διὰ τοῦ σώματος, τὸ δι’ αἰσθήσεως σκοπεῖν τι—τότε μὲν ἕλκεται ὑπὸ τοῦ σώματος εἰς τὰ οὐδέποτε κατὰ ταὐτὰ ἔχοντα, καὶ αὐτὴ πλανᾶται καὶ ταράττεται καὶ εἰλιγγιᾷ ὥσπερ μεθύουσα, ἅτε τοιούτων ἐφαπτομένη;
Infatti compiere una qualche ricerca attraverso il corpo è compierla attraverso le sensazioni; [non è forse vero che l’anima] allora è trascinata dal corpo verso cose che non si trovano mai nella stessa condizione e vaga ed è sconvolta e ha le vertigini come se fosse ubriaca, poiché tali sono le cose a cui è attaccata?
[27] Su tale punto alcune riflessioni erano già state sviluppate in Rosa Ronzitti, Tra India e Grecia: Vidura, Platone e l’albero rovesciato, in Eleonora Salomone – Francesca Gazzano, (a cura di), Philobarbaros. Scritti in memoria di Gianfranco Gaggero, Alessandria: Edizioni dell’Orso (2019), pp. 195-211.
[28] Cfr., oltre al già citato Rosa Ronzitti, Platone, l’Oriente, il carro alato, almeno Salvador Bucca, La imagen del carro en el Fedro de Platon y en la Kaṭha-Upaniṣad, in «Anales de Filología Clásica», (1964) 7, pp. 5-28 e Paolo Magnone, Soul chariots in Indian and Greek thought: polygenesis or diffusion?, in Richard Seaford (a cura di), Universe and Inner Self in Early Indian and Early Greek Thought, Edinburgh: University Press 2016, pp. 149-166 (con altra bibliografia).
[29] La cisterna è nella selva, mentre in Plutarco la selva è nel baratro, che però, come l’antro plutarcheo, pullula di vegetazione lussureggiante, quasi ebbrezza delle piante trasferita alle anime (silvestrem tumultum, per l’appunto).
[30] Ci riferiamo, ma non solo, al celeberrimo Les mages hellénisés. Zoroastre, Ostanès et Hystaspe d’après la tradition grecque, Paris: Les Belles Lettres, 1938, 2 Voll.
Prof.ssa Rosa Ronzitti,
glottologa e linguista dell’Università di Genova
(il presente saggio è apparso sulla rivista LUMINA VI 2022, edita da ARACNE, e viene pubblicato su concessione
dell’autore)