Le spedizioni in Tibet di Giuseppe Tucci dal 1935 al 1939 – Andrea Morandi
Speciale Giuseppe Tucci – Terza Parte
Dal giugno all’ottobre 1935 Tucci organizza un’altra importante spedizione in Tibet nella quale si propone di completare l’esplorazione dell’antico regno di Guge. Questa missione parte da Taklakot e Khojarnath, ai confini con il Nepal e l’India, raggiunge il lago sacro Manosarovar ed il monte Kailash, e da qui si dirige verso occidente visitando altri luoghi importantissimi per la loro storia e per i resti dei loro monumenti quali Kyunglung e Mangnang. Incrocia l’itinerario del viaggio del 1933 a Toling e Tsaparang, proseguendo poi verso Gartok su una via differente. Rientra in India attraverso il Ladakh. Con questa spedizione Tucci voleva ultimare lo studio di quelle province del Tibet che, prossime ai confini dell’India, sono state tramite di scambi culturali tra la terra di origine del Buddhismo e il Paese delle Nevi. Nell’inverno 1934-1935 Giuseppe Tucci cominciò a organizzare la spedizione, nei suoi aspetti diplomatici, finanziari e logistici. Per ottenere passaporto e permessi l’orientalista si rivolse al governo indiano; al finanziamento della spedizione contribuirono l’amico Prassitele Piccinini[1] e Tucci stesso. Partecipò anche a questo viaggio il Capitano medico Eugenio Ghersi, a cui va nuovamente il merito della documentazione fotografica della spedizione: migliaia di fotografie di opere d’arte, iscrizioni e manoscritti che ora probabilmente non esistono più.
Ad Almora, città indiana a 1600 metri di altezza vicina ai confini col Tibet, tra il 24 maggio e il 6 giugno 1935 viene preparato il materiale per la spedizione e definiti i vari dettagli. Pur essendo un luogo di frontiera, la gente che si vede nei bazar è quasi tutta del posto: anche se il Tibet non dista più di due settimane di marcia non si vedono in giro Tibetani, forse tenuti distante dal clima caldo e afoso. In questi giorni Tucci lavora instancabilmente ai preparativi: è anche presente il capo carovaniere Kalil, già membro della spedizione del 1933, e a breve è previsto l’arrivo di un cuoco e di un uomo di fatica dal Kashmir. Alla fine viene stabilito di partire il 6 giugno e viene assoldata una carovana di quarantuno uomini di fatica, affinché trasportino a spalla, tappa dopo tappa, trentacinque chili di bagaglio a testa. La marcia procede lentamente a causa del caldo torrido dell’estate indiana: si cammina dalle cinque alle undici del mattino, poi bisogna fermarsi. Bharichinia, Kannerichina, Ganai, Berinag, Thal sono alcune delle prime tappe della spedizione. Dopo aver patito un clima terribilmente afoso, soprattutto a Balvakot e a Darchula, la carovana giunge a Khela (1550 metri), dove le montagne si fanno più alte e scorre impetuosa la Kaliganga. Questa zona è vicina sia ai confini del Tibet che alle foreste del Nepal, vicino alla catena himalayana. Questi luoghi erano abitati dall’etnia dei Bhutia, gente dai lineamenti mongolici e di religione animista, insieme ad influenze induiste. Vicino ad ogni villaggio sorgeva un bosco sacro, dove gli alberi erano abitati da divinità a cui venivano offerti sacrifici; agli alberi creduti dimora di spiriti erano appese strisce di stoffa e corna di montone. I Bhutia avevano spesso contatti con il Tibet e spesso parlavano, oltre al loro dialetto, anche il tibetano; le donne svolgevano i più faticosi lavori nei campi e portavano grosse collane e pendagli di argento; sia gli uomini che le donne indossavano casacche di lana grezza.
La strada successiva si snoda sopra abissi e sotto rupi franose, lungo gigantesche scalinate intagliate nella roccia. Vengono attraversate Malpa e Budhi, fino ad arrivare il 21 giugno a Garbyang, dopo 15 giorni di marcia in cui vengono percorsi 200 chilometri. Qui Tucci è ospitato da Nandaram, ricco e influente mercante della zona ed esperto conoscitore del territorio intorno al Kailash e al Manasarovar: aveva fatto da guida a tutti i più celebri esploratori dell’Himalaya, come Sven Hadin e Rutledge; Tucci lo invita con successo a prendere il comando della carovana fino a Davazong. Garbyang era un piccolo villaggio di una quarantina di case in legno decorate, che rivestiva tuttavia una notevole importanza commerciale essendo luogo di passaggio delle carovane da Almora, ed inoltre era una tappa per i viaggiatori indiani che compivano il pellegrinaggio sacro del Kailash e del Manasarovar. La religione della zona non era tuttavia né completamente indù né buddhista, quanto piuttosto animista, come in territorio Bhutia. Nel centro del villaggio, su uno spazzo semicircolare, si trovavano alcuni pilastri di pietra conficcati nel terreno e alti più di due metri, veri e propri monumenti megalitici. Vicino al paese erano anche stati eretti tre tempietti dimora della divinità locale Llanga: casupole basse con muri a secco e il tetto fatto da lastroni di pietra, con intorno mucchi di corna di montone e strisce di stoffa colorata. Questo tipo di divinità locale preannuncia i sa bdag del Tibet, ovvero spiriti che abitano boschi, montagne, villaggi ecc., similmente al genius loci. Il 25 giugno la carovana, con nuove acquisizioni di uomini e muli, parte da Garbyang attraverso una strada al confine tra il territorio indiano e quello nepalese e, passando da Kalapani, arriva a Sangchum, in mezzo alla neve e ai ghiacciai delle montagne himalayane. Il 28 giugno viene valicato il passo di Lipulekh, reso più difficile dalla neve, e il gruppo scende a Taklakot: uno sperone giallo sormontato da rocce a picco sul fiume, in cui erano ancora presenti le celle degli anacoreti e gli eremi invernali dei monaci e, sulla cima, le rovine degli antichi castelli dei re di Purang[2]. Sulla cima della roccia troneggiavano in mezzo alle rovine due templi (il primo, appartenente alla setta gialla, era conosciuto sotto il nome di Scimpuling ed era governato da un Campò inviato ogni tre o sei anni da Lhasa; l’altro apparteneva ai Sa Skya pa) e il palazzo del prefetto.. Chi comandava su questa provincia era una donna, moglie del prefetto, e Tucci viene da lei ricevuto.Il 19 l’orientalista sale a visitare i due templi e a conoscere il Campò: Scimpuling non conteneva nulla di antico; nel monastero Sa skya pa i monaci erano radunati per una cerimonia rituale, a cui Tucci riesce ad assistere. Il tempio si presentava sporco e maltenuto, con pitture religiose accatastate alla rinfusa e rovinate e pochi libri abbandonati; sotto al monastero, in uno spiazzo vicino al villaggio sorgevano le case dei mercanti indiani, in muratura ma prive di tetto, avevano teli di tenda come copertura. Era prevista una fiera mercantile ai primi di luglio, e alcuni partecipanti erano già arrivati, movimentando il paese. Viene qui organizzata una nuova carovana, questa volta di yak e Tucci , mentre lascia l’incombenza dell’acquisto degli animali agli uomini Nandaram, riesce a fare una veloce esplorazione nella valle della Karnali, fiume sacro che la tradizione vuole sgorghi dal lago Manasarovar; sulla riva sinistra della Karnali sorgeva uno dei più celebri santuari del Tibet, quello di Khojarnàth, meta di pellegrinaggi dal Tibet e dall’India.
Il 30 giugno la carovana si ferma a Kantze, in una gola nelle pendici meridionali del Gurla Mandata, dove si trovava un piccolo monastero attribuito a Rin c’en bzan po, che dipendeva dal grande monastero di Byanc’ubglin, nel Tibet centrale: vi era soltanto un monaco con cui Tucci stringe subitanea amicizia. Nel corso di questa spedizione lo studioso arricchisce la collezione di oggetti preistorici già iniziata nella spedizione del 1933: sono da lui ritrovati amuleti, pendagli e ornamenti vari; mentre nella provincia di Guge predominavano amuleti di forma circolare, simili a quelli scoperti nelle tombe barbariche dell’Europa orientale e dell’Asia centrale, nelle tombe di Purang sono comuni soprattutto i pendagli triangolari. Dopo una breve marcia viene raggiunto Khojarnath, dove sorgeva un monastero della setta Saskyapa retto da un abate molto colto e preparato che fa da guida a Tucci. Vi erano due templi, in mezzo ad un dedalo di case, abitazioni di monaci e ricoveri per pellegrini; i templi erano molto antichi ed erano attribuiti al solito Rin c’en bzan po. Il primo, più venerato, era chiamato Lotsavelhakang, ossia “il tempio del traduttore”: nella cella al fondo del sacrario vi erano tre superbe statue d’argento dorato effigianti Mangiusrì, Cianrezig e Ciagnàdorgè[3], che si vuole risalenti all’età di fondazione del tempio, sicuramente opera di artisti indiani, poggiavano su un trono di bronzo sul quale erano raffigurate figure di divinità, motivi floreali e figure arabescate di mostri marini; sugli altari stavano altre statue molto antiche, tra cui un gruppo di bronzo con Vairocana e una statua di pietra turchina, entrambe di scuola bengalica. L’altro tempio si chiamava Ducàn, ovvero”l’aula delle adunanze”: in questo luogo Tucci assiste ad un rito simile a quello di Taklaklot, essendo giorno di festa per la luna nuova; un cristallo di rocca viene sollevato dai monaci, mentre intorno risuonano canti e orazioni. Il tempio era di schema costruttivo simile a quelli di Rin c’en bzan po, ma l’unica cosa antica che restava era il portale, una delle più notevoli opere d’arte del Tibet occidentale: una scultura lignea indiana a pannelli istoriati con fiori, divinità mahayaniche della scuola artistica che prosperò sotto i Pàla. Altrove vi erano anche pannelli e fasce con riprodotti momenti della vita di Buddha; per la datazione Tucci ipotizza che si possa far risalire il portale all’undicesimo o al dodicesimo secolo.
Il 3 luglio Tucci approfitta della giornata di riposo per visitare le rovine intorno a Taklakot e per acquistare libri e manoscritti dai monaci conosciuti; vi erano rovine di castelli e templi, tra cui le più notevoli erano quelle attribuite a Nor bzan[4]; più in alto vi erano invece i resti attribuiti al palazzo di Timekunden, (anch’egli celebre nell’agiografia tibetana), ma più probabilmente resti del campo e delle fortificazioni costruite da Zoravar[5] quando svernò a Purang prima di morire nella battaglia che pose fine alle sue conquiste (1841). Il corpo principale di questo cumulo di rovine era costituito da grossi muri di mattoni in terra essiccata al sole, intorno vi erano invece trincee di pietre e muri a secco. Il giorno successivo Tucci parte per un’escursione sulla riva destra del Mapcia, alle rovine imponenti del castello di Sidecar, dove rimangono due cappelle, essendo il resto dei templi in rovina. Si conservava ancora qualche pittura piuttosto antica, tra cui un Mandala dipinto su legno. Ai piedi della ripidissima discesa vi era poi una piccola costruzione venerata come abitazione del Sa bdag, il genius loci. Al ritorno al campo base i membri della spedizione assistono ad una danza rituale al ritmo di tamburi, con attori mascherati. Il 5 luglio la carovana di yak è pronta a partire sotto il comando di Nandaram; ci sono inoltre due uomini Garbyang e quattro di Taklakot, tutti esperti dei territori attorno al Manasarovar e al Kailash. La spedizione segue il corso del Mapcia verso nord, passando dal villaggio di Doyo e incontrando piccoli gruppi di mercanti e contadini e casupole bianche con strisce rosse sotto il tetto. La strada passava per la tomba di Zoravar, dipinta di rosso, che sorgeva in una zona desertica protetta dai vicini ghiaccia del Gurla. Sopra un’altura che dominava la tomba vi era un piccolo gompà della setta gialla e più in alto ancora una cappella dimora dello spirito tutelare del luogo. Il 6 luglio si prosegue per Cardam, convento in rovina con un tempio costruito recentemente su una collina; il luogo doveva probabilmente essere stato devastato durante l’invasione Dogra, infatti qui a Cardam erano state combattute due battaglie tra le avanguardie di Zoravar e le truppe tibetane.
Dopo due marce la carovana arriva sulle rive del Rakas Tal, il primo dei laghi a sud del Kailash, chiamato dai tibetani Langag ts’o; la strada costeggiava il gruppo del Gurla mandhata, montagna di circa 7700 metri, sacra per indù e tibetani.[6] Da qui si comincia a vedere l’immensa mole del Kailash, e vengono montate le tende sulle rive del lago, sacro anch’esso fin dai tempi dei Bonpo. Il 9 luglio la spedizione raggiunge il lago Manasarovar, una delle tappe principali di questo viaggio, luogo sacro consacrato a Brahma, in cui si bagnano i pellegrini dell’India e del Tibet, simbolo delle acque cosmiche da cui il creatore trasse l’universo. Il giorno successivo, dopo una breve marcia, la carovana sosta a Jiu, un monastero con miniere e pozzi auriferi nelle vicinanze. Il monastero sorgeva su di un colle affacciato sul lago; le mura erano crollate, vi erano muretti a secco, due cappelle tinte di rosso e tre ciortèn. Questo luogo apparteneva alla setta Drupa ed era affidato alle cure di un monaco che era anche un mercante, insieme alla moglie e ai figli. Nelle due cappelle non vi era nulla di importante, però la seconda era stata costruita sopra una vecchia grotta di eremiti, dove si dice meditò Padmasambhava. Sotto al monastero vi erano anche sorgenti d’acqua sulfurea in cui si bagnavano malati e pellegrini in cerca di guarigioni e purificazione. Alle pendici del colle di Jiu si era scavato il suo corso un canale naturale, unico sbocco del lago Manasarovar, che univa il lago sacro con il Rakas Tal.
L’11 luglio Tucci comincia il circuito del lago per esplorare il luogo e visitare i monasteri costruiti sulle sue rive; il primo si chiama Ciachib, anch’esso appartenente alla seta Drupa: con poche pitture e qualche statua in cartapesta e legno, esso era stato convertito in magazzino per il pesce. Poi viene visitato Langpona, dove sorgevano accampamenti di nomadi con tende di lana o pelle di yak; il convento di Langpona apparteneva ad un incarnato che risiedeva nel gompà di Chorzog nel distretto di Rùpsciu, che aveva fama di potente mago e abile commerciante, incontrato da Giuseppe Tucci nella zona di Gartok, nel corso della spedizione del 1933; il monastero era di costruzione recente e non conteneva nulla di notevole. Viene qui aggiunto un nuovo membro alla spedizione, un molosso tibetano che diventerà un ottimo cane da guardia.
La strada conduce poi il 12 luglio a Bunti attraverso una gola sassosa lunga e arida; il gompà di Bunti, a più di 5000 metri di quota, apparteneva alla setta gialla, quella dei Dge lugs Pa: era un monastero molto ricco, affidato alle cure di un custode e momentaneamente abitato da un lama mongolo di passaggio. Nonostante la tradizione gli attribuisse trecento anni di storia, il monastero era in realtà più recente: nelle cappelle erano appese alle travi thanka di soggetto religioso, ed erano disposte numerose statue sugli altari; su alcuni pilastri erano allineate armature e corazze in maglia di ferro che i locali attribuivano ai soldati di Zoravar, ma erano probabilmente antichi trofei conservati in ricordo di scorribande di predoni scesi dal nord.
Il 13 luglio, scendendo a valle attraverso pascoli acquitrinosi, la carovana costeggia il lago sacro Curgyal incontrando numerose tende di pastori, i quali si spostavano e accampavano secondo le stagioni e le necessità; i nomadi vestivano lunghe casacche rosse di lana grezza e le donne portavano collane e braccialetti fatti con conchiglie marine. La pianura era popolata anche da mercanti, divisi in due gruppi: quelli ”dell’interno”, che andavano a barattare sale, borace e lana nelle fiere di Garbyang e Darciula da giugno a ottobre, e quelli “di fuori”, provenienti dalle grandi pianure del nord, che si spingevano al massimo fino al mercato di Taklakot. Tucci visita in questa giornata il gompà di Seralung, in realtà piuttosto lontano dalle rive del Manasarovar, un edificio con intorno casette in muratura; il monastero era abitato da numerosi monaci, non abituati a vedere e parlare con stranieri; apparteneva alla setta Digumpà e non conteneva nulla di notevole, nonostante la visita approfondita di Tucci a tutte le cappelle.
Dal 14 al 16 luglio ci sono giorni di pessime condizioni meteorologiche, dovute al passaggio dei monsoni, che rendono difficoltoso il guado dei fiumi e rallentano la marcia, finchè il 16 luglio la carovana arriva al monastero di Gniergò: edificio piccolo e basso, senza monaci, affidato alle cure di un custode che mostra a Tucci tutti i sacrari. Nel centro della cappella principale l’orientalista scopre un’immagine di Padmasambhava con le mogli Mandàravà e Iescéghiazò e, sull’altare, una bella e antica statua nepalese di bronzo dorato di Hevajra.in mistico accoppiamento con la sua potenza divina[7]; vi erano anche alcune statue di terracotta che rappresentavano alcuni celebri teologi ed asceti della setta Saskyapa. Successivamente viene visitato Trugò[8], il luogo più famoso sulle rive del Manasarovar. Esso constava di un monastero circondato da poche casupole misere e un modesto bazar. Il 17 luglio arriva a Trugò un gruppo di briganti armati a cavallo, venuti per razziare e derubare: Ghersi tuttavia puntando e utilizzando verso di loro la macchina fotografica, li metterà in fuga. Lo stesso giorno Tucci riesce a visitare il monastero, il più grande e popolato della zona, con una ventina di monaci agli ordini di un dotto teologo, che dipendeva dal Campò di Scimbuling a Taklakot. Turgò era stato depredato dai soldati di Zoravar, tuttavia non tutto era andato perduto: restavano thanka e libri, tra cui il Carciag, una guida esplicativa del convento, che ne riporta la storia, le leggende e gli avvenimenti.
L’ultimo monastero del Manasarovar visitato è quello di Gosul, il18 luglio. Per arrivarci la spedizione passa vicino agli accampamenti dei briganti dove si vedono le migliaia di capi di bestiame che avevano depredato. Il convento sorgeva su una rupe a precipizio sul lago, era abitato soltanto da un monaco dedito a continue pratiche ascetiche. Questo gompà non era molto antico, ma da ogni pilastro pendevano bellissime thanka e sugli altari erano raccolte statue di diversa fattura ed epoca. Alcuni pellegrini indù, spaventati dall’arrivo dei briganti, avevano trovato rifugio nel tempio; fra questi vi era un sadhu tra i più noti dell’India, Bhumananda il quale, non avendo paura, stava a meditare in una grotta sul lago. Gli indiani, compreso Bhumananda con cui Tucci stringe amicizia, seguiranno la spedizione. Di ritorno a Jiu, il 19 luglio, il circuito del Manasarovar era stato completato in dieci giorni di marcia; nel complesso i monasteri visitati da Tucci non possono ritenersi antichissimi, essi non superavano infatti due o tre secoli di storia al massimo. La spedizione si rivolge ora verso il sacro Kailash, unito al Manasarovar da un’immensa pianura attraversata da fiumi e popolata da accampamenti di nomadi, accampandosi il 20 luglio a Barka, dove non vi erano che una casa, abitata da un sottoprefetto con funzioni di polizia, che proprio il giorno prima aveva arrestato quattro briganti, e un gruppo di tende. A Barka nacque una delle più notevoli figure della rinascita lamaistica: Brontòn, allievo dell’indiano Atisa a come lui apostolo del Buddismo in Tibet. La tappa successiva è Darcin, generalmente punto di partenza dei pellegrinaggi intorno al Kailash, un grosso accampamento con la casa del prefetto di polizia, che ha titolo di re e una guarnigione di armigeri, e del quale Tucci fa immediatamente conoscenza. Darcin era luogo di mercanti e pellegrini, sia buddisti che Bonpo e indù, tra cui alcuni sadhu come Bhumananda.
Il 22 luglio comincia il percorso attorno alla montagna sacra, diviso in quattro tappe, ovvero il numero dei gompà che sorgevano ai quattro punti cardinali del Kailash. La prima tappa è Ghiantrag, monastero solitario fuori dalla strada battuta, sopra una collina solitaria che sorge in mezzo ad un anfiteatro roccioso, abitato da non più di venti monaci. Esso apparteneva alla setta Digumpà e la tradizione vuole che sia stato edificato dal fondatore della scuola; esso conteneva pitture murali probabilmente databili al XVII secolo, un ciortèn in argento, contenente forse le reliquie di un celebre lama della setta, e diverse corazze e spade, che i custodi del monastero dicono essere appartenute alle truppe di Zoravar, ma che , almeno nel caso delle corazze , dovevano essere più antiche. Poi, appesi in vari angoli del monastero stavano ricordi lasciati dai sadhu dell’India, come Ananda Singh, che trascorse molti anni in questo luogo isolato cibandosi solo di erbe e ortiche selvatiche, e altri asceti dediti alle pratiche dello yoga. Il gompà di Ghiantrag aveva inoltre una stamperia, e Tucci, accompagnato nella visita da Bhumananda, riesce qui a trovare una guida del Kailash e del Manasarovar in cui sono raccolte le vicende e le leggende della zona: un documento della massima importanza per lo studio della geografia storica del Tibet occidentale.
Il sentiero dei pellegrini prosegue su un pianoro sassoso che si restringe fino a diventare una gola stretta tra muraglie di roccia, per poi arrivare al monastero di Ciocu,, un piccolo eremo posto su di una rupe, appartenente alla setta Caghiupà: piuttosto antico, era tuttavia stato rinnovato in epoca più recente. Vi erano affreschi riproducenti le immagini dei mille Buddha, successivi al XVII secolo e di scarso valore artistico, una biblioteca alquanto povera e thanka di poco pregio. La carovana si accampa poi sulle rive del fiume sotto l’imperversare di una bufera , rinunciando all’idea di raggiungere in giornata il secondo gompà. Il monastero viene visitato da Tucci e Ghersi il giorno successivo: Tinthipù era un monastero modesto posto su di un’altura franosa; doveva anche esserci un incarnato che tuttavia non era più stato ritrovato, e al suo posto era stato mandato un reggente da Lhasa, un lama molto colto e devoto che trascorreva il suo tempo in preghiera e meditazione. Tucci viene ricevuto dal lama e trova nel monastero un’altra guida storico-geografica del Kailash e Manasarova indipendente rispetto a quella di Ghiantrag. Anche qui esisteva una volta una stamperia.[9] Tinthipù era costruito su una caverna in vista del Kailash, luogo celebre del buddhismo tibetano poiché qui trascorse parecchi anni Cozampa[10], uno dei maestri più conosciuti della scuola Drugpa.
Tcci e Ghersi raggiungono poi il resto della carovana che si dirige verso il passo di Dolma (5700 metri), dedicato a Tara dea della salvazione, in compagnia di gruppi di pellegrini che percorrono la stessa strada.[11]Il passo si apriva tra due pareti coperte di ghiaccio, ed era cosparso da pali a cui erano attaccate banderuole di stoffa, secondo l’usanza tibetana; gli asceti sostavano qui a meditare. Subito a valle stava un laghetto ghiacciato chiamato dagli Indiani Gaurikunda. “il lago sacro a Gauri”, e dai Tibetani Cagrò Zimbù, “il bacino delle fate”; i pellegrini dell’India frantumavano la crosta di ghiaccio e dopo essersi denudati si tuffavano dentro le acque gelide. Dopo il lago il sentiero scompariva e il passaggio diventava difficile. Dopo due ore di marcia il 25 luglio viene raggiunto l’ultimo dei monasteri intorno al Kailash, quello di Zuprul, acnh’esso dei Drupa. Era un edificio modesto non molto antico, abitato da pochi monaci e privo di opere d’arte o ricordi storici particolari, tuttavia era uno dei luoghi più venerati e frequentati dai pellegrini, poiché la cella del tempio era costruita intorno alla grotta dove Milarepa, il maggiore dei mistici tibetani, passò svariati anni a meditare.[12] Nel tardo pomeriggio Tucci torna a Darcìn, piena di pellegrini e bivacchi e al tramonto arriva una turba di sadhu salmodianti provenienti dal Nepal, guidati da Paramityananda, che era uno dei più noti asceti indiani. Tucci si reca in visita al loro campo, dove essi stavano intonando un lungo canto a Shiva. Il 26 e 27 luglio la spedizione prosegue costeggiando la Sutlej, deviando dai sentieri più battuti per passare dai monasteri di Dulciu e Tirthapuri[13]. Dulciu, raggiunto il 27, era un gompà modesto che si trovava in una pianura vicino al fiume, era alle dipendenze del monastero di Toling ed apparteneva come quello alla setta Gialla. Vi erano tre monaci a guardia del convento, che conteneva due cappelle ed era stato ricostruito in epoca recente.
In due giorni di marcia viene raggiunto anche Tirthapuri, dopo un sentiero reso difficile dal dover guadare dei fiumi in piena; il gompà era visitato da pellegrini tibetani e indiani, ed era un agglomerato di templi e cappelle. Esso apparteneva alla setta Drugpa, sotto l’incarnato di Rupsciu, così come il convento di Langpona sul Manasarovar. Nei tempietti in alto non vi era nulla di notevole, essendo state ricostruite le cappelle in tempi recenti; vi era però qualche bella statua, come un Padmapani di origine nepalese. Tutto il resto era in stato di abbandono, anche se Tucci riesce comunque a trovare in un mucchio di libri liturgici una vecchia guida del monastero, che conteneva leggende e preziose indicazioni storiche. Il monastero era affidato ad un custode che fa da guida allo studioso, mostrandogli le cappelle, le rocce erose in forme fantastiche e le sorgenti sulfuree. Vicino alla rupe a precipizio sul fiume vi era il tempietto di Dorge pamò, nei pressi di una caverna che era rifugio di asceti da secoli; sulle pareti restavano tracce di pitture murali fra le quali erano ancora visibili una Tara verde e la serie dei maestri più noti della scuola Caghiurpa. Sempre sulle rive della Sutlej era stato edificato un altro tempietto su una seconda caverna, che la tradizione ricorda come eremo di meditazione dell’asceta Cozampà: il tempietto era noto con il nome di Cozampà pùg, cioè la “grotta di Cozampà”; non vi era nulla di notevole, però in una grotta vicina viveva da anni, in completo isolamento, un monaco Drugpa che viveva murato in meditazione con solo una piccola feritoia come contatto con il mondo esterno. La carovana prosegue poi per Palkye il 30 luglio, dove la valle della Sutlej si allarga in una pianura paludosa. Qui vi erano i primi grandi resti dell’impero di Guge: lunghe file di cenotafi in rovina, celle di anacoreti scavate nelle rocce a picco, resti di bastioni e torri sulle cime rocciose. Il campo viene piantato a circa 4200 metri su un terreno acquitrinoso, lungo una gola scavata a nord fra rocce a picco, che congiunge la valle della Sutlej con la pianura di Missar fino a Gartok, la capitale del Tibet occidentale; vicino al campo sorgevano le rovine di un tempio dell’XI secolo.
Qui Tucci incontra nuovamente il Gran Lama Gigmèdorgè, da lui conosciuto nella spedizione del 1933 sul Passo di Shipki e del quale era diventato amico: egli era un tempo un Bonpo, poi convertito al Buddhismo, ma nell’ambito di una setta che conservava molti elementi dottrinali e cerimonie liturgiche Bonpo. Gigmèdorgè aveva deciso di ritirarsi in questo luogo con un gruppo di discepoli installandosi nelle grotte degli antichi asceti per meditare e predicare. Tucci visita i vari ciortèn che, a file di 108, traversavano la valle, quasi tutti in rovina ma spesso contenenti ts’a ts’a. Il monastero di Palkye era stato fondato da Rin c’en bzan po e apparteneva alla setta dei Gelugpa, pur essendo stato costruito dai Saskyapa. Sulla montagna che sbarra la valle verso Tirthapuri e Misera e domina la strada di Milam che porta, attraversando l’Himalaya, in India, sorgevano rovine di antichi castelli, che vengono esplorati dal Ghersi, senza trovare tuttavia nulla di notevole, eccettuate alcune costruzioni in rovina. Il 31 luglio Tucci fa visita all’amico Gigmèladorgè nella sua cella, sulle rupi che dominano la valle di Palkye; la caverna doveva essere un’abitazione di asceti anche nell’antichità, poiché conservava tracce di pitture di qualità del XIV – XV secolo, cancellate purtroppo quasi tutte dal tempo. Tucci riesce ad acquistare alcune preziosi manoscritti Bonpo che contribuiranno allo studio di questa religione ancora poco conosciuta in Occidente ai tempi della spedizone.
La strada prosegue lungo la Sutlej in gole profonde tagliate nelle rocce a picco, e la carovana si accampa alla sera dell’1 agosto a Chiunglung (4410 metri), luogo quasi irreale costellato da grotte di anacoreti e rovine di monasteri crollati. Tucci e Ghersi fotografano e documentano ruderi immensi e centinaia di affreschi, in un luogo un tempo importantissimo per Buddhisti e Bonpo, dove risiedevano asceti e studiosi, ora ridotto in rovina; solo un paio di famiglie continuavano a vivere lì, non vicino al monastero bensì sull’altra riva del fiume, vicino al ponte, dove transitavano le carovane e le greggi dirette alle fiere di Gyanima. In basso vi erano lunghe file di ciortèn dipinti di rosso, non molto antichi ma forse contemporanei degli ultimi re di Guge: all’interno numerosi ts’a ts’a le cui raffigurazioni dimostrano che quando gli stupa vennero eretti, Chiunglung doveva già appartenere alla setta Gialla. Il monastero, eretto sulla cima di una gigantesca rupe, era in rovina: c’erano due cappelle con affreschi forse del XVI secolo, molte statue e moltissime thanka della scuola di Guge appese alle pareti, o arrotolate e ammucchiate negli angoli. Del castello in cima alla rupe non restavano che i muri maestri spaccati e pericolanti e, nelle sale del piano terra,, alcuni pilastri di legno e capitelli scolpiti. E’ molto probabile che Scen rap, colui che organizzò e diede forma alle dottrine Bonpo, fosse nato proprio qui, o almeno vi risiedette a lungo, altrimenti non si potrebbe spiegare il fatto che quando Tucci visitò Chiunglung, questa veniva ancora considerata una città santa e venerabile. Attorno a Chiunlung Tucci visitò altre rovine: strane costruzioni circolari, forse i resti dell’antico santuario Bonpo che ha reso questo luogo così sacro nelle tradizioni di questa setta. Molti i ciortèn esplorati, che danno luogo a ritrovamenti di ts’a ts’a buddhisti, alcuni molto antichi, con iscrizioni in sanscrito e caratteri dell’XI secolo. E’ probabile che quando i re di Guge cercarono di diffondere il più possibile la religione buddista, dovettero svolgere la loro missione principalmente nei centri più importanti della religione Bonpo, e questo fatto spiega dunque la presenza di ciortèn così antichi: tutte le cappelle e le rovine esplorate qui da Tucci risalivano agli inizi del periodo della diffusione del Buddismo nel Tibet occidentale. Tucci va poi a visitare imponenti rovine di castelli e altri grandi edifici, ad un paio di chilometri da Chiunglung, che, anziché essere costruiti con i soliti mattoni di terra, erano stati eretti con grandi macigni sovrapposti: costruzioni megalitiche che documentavano l’antichità di quei luoghi e non comparivano in altre zone del Tibet occidentale.
Il 4 di Agosto la spedizione prosegue per il passo Scinlabtza, perdendosi però tra gole, pianori e steppe, raggiungendo infine un accampamento di mercanti indiani: le carte geografiche pubblicate dalla Sovrintendenza geografica dell’India erano diventate quasi inservibili in questa zona. Il 6 agosto la carovana incontra un gruppo di sedici sadhu provenienti dall’India meridionale, shivaiti e vishnuiti insieme, arrivati fino a qui dalla strada di Badrinath. Alcuni erano in pessime condizioni fisiche, e Ghersi cerca di curarli, nonostante essi sopportino stoicamente il dolore e le privazioni. Nel tardo pomeriggio del 7 la carovana arriva al monastero di Dongbo, dove non c’erano monaci, ma erano presenti cappelle e ciortèn, senza un particolare ordine architettonico, il tutto in stato di abbandono. Mentre la carovana scende la difficile pista verso il fiume e cerca un luogo in piano dove accamparsi, Tucci riesce a persuadere il vecchio custode del gompà a farglielo visitare. Esso, non molto antico ma costruito su di un altro ben più vecchio, apparteneva alla setta Gelugpa ed era sotto la sorveglianza dell’abate di Toling: l’orientalista potè ammirare una ricchissima collezione di thanka della scuola di Guge. Intorno vi erano tracce di campi e abitazioni; a sud, sopra una rupe, rovine di castelli. L’8 agosto, dopo il guado di un fiume impetuoso e una breve marcia, la carovana arriva su di un vasto pianoro dove sorge Gyungo,niente più che una tenda e una casa, ma intorno i resti di un imponente castello, con all’interno due cappelle, rovine di fortificazioni, templi e ciortèn pericolanti; a giudicare dai ts’a ts’a raccolti Tucci data il periodo di fioritura del paese intorno al XIII secolo.
Dopo una breve marcia la spedizione arriva a Nabra, dove erano montate un centinaio di tende di mercanti. A Nabra, sede di mercati, Tucci conosce il prefetto e l’amministratore. L’11 agosto, dopo una lunga marcia, viene raggiunta Davazong, capitale di una delle quattro prefetture in cui si divide il Tibet occidentale; dato che il prefetto si trovava a Nabra, vivevano nel modesto villaggio solo un paio di famiglie con servitori. La devastazione e lo spopolamento avevano ridotto Davazong ad un cumulo di rovine, mura sbrecciate e grotte sulle montagne circostanti. Restavano solo file di immensi ciortèn e i monasteri, appartenenti alla setta Gialla e sotto il controllo di Toling: essi si trovavano sia sopra al villaggio che sulla rupe che sovrastava la casa del prefetto; accedervi non era impresa facile. Il più grande dei monasteri si chiamava Davatrascilumpo e comprendeva tre costruzioni principali: il Ducàn, o tempio delle adunanze, il Giamcan, o tempio di Maitreya e il Lamacàn, o cappella dei maestri. Nel primo di questi templi le pareti conservavano tracce di affreschi non anteriori al XVII secolo ma, molto più importante era il secondo sacrario coperto di pitture della migliore scuola di Guge, anche se in cattivo stato di conservazione, tanto da non renderne possibile la documentazione fotografica da parte di Ghersi; il tempio prendeva il suo nome da una colossale statua di Maitreya che era nella parete centrale. Nell’ultimo tempio abbondavano statue e libri, ma il tutto era abbandonato e maltenuto. Sulla rupe che sovrastava il palazzo del prefetto vi era in realtà solo una cappella di piccole dimensioni: il santuario del castello reale che sorgeva su quel colle; era forse il tempio più antico: sulle pareti affreschi meravigliosi, anch’essi della scuola di Guge, che rappresentavano gli otto dei della medicina; nella cella erano presenti grandi statue di bronzo rappresentanti Vairocana, P’yag n ardo rje, aJams dpal e Spyan ras gzigs; sull’ altare una grossa collezione di statue molto antiche e di immenso valore storico e artistico, poiché sicuramente portate a Davazong dagli apostolo buddhisti indiani intorno al X secolo. Vi erano poi immagini dipinte che raffiguravano principi o re della dinastia di Guge e immagini della vita di Buddha; infine ancora più notevoli erano i pannelli istoriati ai lati della porta, che descrivevano la fondazione del tempio, con figure di principi, monaci, laici, feste, danze, giocolieri e carovanieri, il tutto riprodotto con grande movimento e colore. A Davazong Eugenio Ghersi procede inoltre ad esplorare un centinaio di caverne sulla rupe sotto cui era stato installato l’accampamento: vi erano moltissime tracce abitative e, sul vertice della rupe,rovine di case, castelli e di una cappella dipinta di rosso.
Il 12 agosto si riparte per Cangsare, in una larga valle alimentata da due fiumi che scorrono verso la Sutlej, una casetta in mezzo ai campi, lunghe file di ciortèn e rovine di templi e di abitazioni. Per tutto il pomeriggio Tucci studia con cura le rovine e gli stupa, alcuni dei quali di grandi dimensioni, e ha modo di ingrandire così la sua raccolta di ts’ ts’a .
Il 13 agosto la spedizione sosta a Milam, luogo abbandonato non segnato sulle carte e sul quale doveva sorgere uno dei più grandi monasteri della regione, ormai ridotto in macerie. Tutta la giornata viene impiegata allo scopo di esplorare i ciortèn e le rovine: Tucci trova alcuni ts’a ts’a con su scritte formule in caratteri indiani del X e XI secolo. Qui, come nel resto del Tibet occidentale, deve essere subentrata una fase di spopolamento dopo il periodo di massimo splendore dell’ epoca dei re di Guge, dal XV – XVI secolo: il Tibet occidentale fu infatti popolato e ricco fino a quando fu governato da questa gloriosa stirpe di regnanti, che favoriva le relazioni commerciali con i paesi vicini, sfruttava le miniere e favoriva gli scambi culturali; dopo la caduta del regno sotto il Ladakh e poi sotto Lhasa, questi territori passarono in mano a governatori irresponsabili e persero il loro benessere, spopolandosi fino ad essere quasi abbandonati.
La spedizione prosegue verso le rive del Mangnang, passando sotto le rovine del forte di Senge Dsong: un cumulo di macerie, pochi ciortèn contenenti frammenti di libri e qualche ts’a ts’a; questo forte doveva essere una delle roccaforti più potenti del tempo di Guge. Sull’altra riva del fiume vi era il possente monastero di Mangnang, e sopra le montagne rovine di immensi castelli, gompà con i muri dipinti di rosso , centinaia di antiche abitazioni scavate nella roccia delle rupi; questo luogo si chiamava forse Carzòn, oppure Usucàr, ovvero “il castello sulla cima del monte”. Il capitano Ghersi visita i resti delle cappelle e poi esplora le abitazioni trogloditiche: uno dei templi semidistrutti conservava frammenti di affreschi superbi sulle pareti, databili al periodo maturo delle scuole pittoriche di Guge; ogni pannello era accompagnato da iscrizioni che ne indicavano il soggetto : divinità terrifiche messe a protezione del luogo. Sulla parete centrale vi era una bella immagine di Ts’ong k’a par mirabilmente colorata, uno dei massimi esempi della pittura di Guge. Il tetto era già crollato in più punti, ma permanevano alcuni pezzi sostenuti da pilastri su cui poggiavano larghi capitelli scolpiti con figurine di Buddha meditanti e ricoperti di oro puro. Un altro tempietto era già crollato: nel cumulo delle rovine era sopravvissuto una colossale statua di Buddha in stucco. Dopo aver esplorato accuratamente questi templi e fotografato le pitture ancora visibili, Ghersi comincia la visita delle caverne e dei cunicoli che si insinuano nelle caverne della montagna, intersecandosi in enormi labirinti di cunicoli talvolta bassi e strettissimi. In diversi luoghi all’interno di quegli antri, alla luce di una torcia, Ghersi scopre pitture e statue di ogni tipo, raffiguranti in genere divinità. Inoltre vengono scoperti cumuli di manoscritti gettati alla rinfusa, in numero di migliaia: una colossale biblioteca di manoscritti semplici e miniati, di ogni genere di scrittura tibetana, glossati, commentati e annotati; molti di essi, i più meritevoli, vengono portati via per essere salvati e studiati da Tucci. All’alba del 17 la carovana riesce non senza un certo rischio a guadare il fiume ed ad accamparsi presso il grande tempio di Mangnang[14], che era costituito da tre differenti gompà: il più grande ricostruito in tempi recenti, di antico rimaneva solo la porta; la pianta dell’edificio dimostrava però che anche qui ci si trovava di fronte ad un esempio di architettura del regno di Guge; le pitture del tempio erano state rifatte in tempi recenti, probabilmente per opera di maestranze locali. La seconda cappella era sconsacrata, senza più statue ne altare, ma ricca di pitture sorprendenti di scuola indiana, riproducenti mandala di divinità facilmente identificabili, con intorno deità secondarie, accoliti, asceti e monaci in preghiera, riprodotti in maniera superba: tutto questo splendore è fotografato da Ghersi, con tutte le difficoltà dovute all’oscurità onnipresente di questi ambienti. La terza cappella, ancora più piccola della prima e piuttosto pericolante,aveva sulle pareti grandi cerchi di stucco, che indicavano la presenza delle antiche statue distrutte o portate via; le pitture erano alquanto compromesse e quelle che rimanevano mostravano minore finezza esecutiva rispetto al secondo sacrario ed erano probabilmente più recenti.
La spedizione il 18 agosto riparte e arriva a Toling, dopo aver attraversato un paesaggio lunare di immense montagne argillose scavate ed erose dall’acqua. L’accampamento è montato nella stessa valle dove si fermò la spedizione del 1933. Toling era stata una delle più celebri università dell’Asia centrale: essa ospitava, durante il XVII secolo, circa duemila monaci. Nel 1935 non si arrivava a più di quindici monaci, assistiti da servitori laici. Toling era un antico monastero dei re del Tibet occidentale e aveva mantenuto gran parte degli antichi privilegi e dei suoi possedimenti, sotto la diretta vigilanza di Lhasa. Ogni sei anni veniva qui mandato un abate scelto tra i monaci più colti e preparati di Lhasa e un Cianzòd, ovvero un amministratore. L’abate era preposto alla direzione spirituale, mentre il Cianzòd amministrava le ricchezze del convento. Essi convivevano nello stesso luogo in perenne antagonismo e sospetto .Tucci aveva stretto amicizia con l’abate nel 1933, e il Campò gli fa visita nella sua tenda, offrendogli una sciarpa di seta prima della partenza. Durante i giorni passati a Toling il professor Tucci cerca di approfondire le conoscenze delle visite precedenti, riprendendo fotografie, visitando le grotte di Toling alto e facendo una nuova visita a Tsaparang, che trova in peggiore stato di abbandono rispetto a due anni prima. Ghersi visita le grotte di Toling alto: scopre qualche frammento di manoscritto interessante ed esegue anche un rilievo sommario delle rovine dei conventi e castelli che sorgevano sulle montagne argillose che dominavano a sud il grande monastero.
Comincia ora la via del ritorno per la spedizione: il 23 agosto la carovana ripassa per il ponte sospeso di Toling ma, anziché ripercorrere la stessa strada del 1933 per Pedumbu ed il Botola , Tucci vuole arrivare a Gartok attraverso Piang Dunkar ed il Saze La, passando quindi più a nord. La pista costeggiava per due miglia la riva destra della Sutlej, poi entrava in una gola arida ricca di tracce di antichi insediamenti. Vengono attraversati Dibsa, dove c’erano ciortèn, grotte e rovine di cappelle, Monhil, con tracce di grandi campi a terrazze mezzo sepolti sotto cumuli di pietre e Shangsi[15], luogo abbandonato con le rovine di un castello, un piccolo gompà circondato da cortèn dell’ XI e XII secolo. Degli yak della carovana non ne restava più neanche la metà, essendo stati di volta in volta abbandonati sulla strada sfiniti e moribondi durante il percorso.
A Piang Dunkar[16] la carovana si accampa dal 25 agosto, in una larga valle dominata da rupi alte e scoscese. Verso nord, sopra un contrafforte roccioso, vi erano cumuli di rovine abbandonate e, sulla cima, tre piccoli gompà dipinti di rosso. Il monastero di Dunkar apparteneva alla setta Gialla e dipendeva da Toling, affidato in custodia ad un prete mongolo che non esita a mostrare il luogo a Tucci, in virtù della lettera di presentazione dell’abate di Toling. Vi erano tre cappelle, la prima, detta Ducan, era coperta da affreschi del XVI secolo rappresentanti gli otto dei della medicina circondati dagli accoliti; il secondo tempietto, il Giamcan, aveva perso le pitture decorative; il terzo tempietto, quello di Tsongk’a pa, con varie pitture di divinità tantriche , gli otto Buddha della medicina e la suprema pentade.
Piang distava un paio di chilometri da Dunkar, su una rupe che chiudeva la valle, ed era forse, assieme a Tsaparang, il luogo più abitato del regno di Guge. Sulle pareti scoscese si aprivano le solite cavità scavate nella roccia a scopo abitativo e come celle per gli anacoreti e, sulla cima, le solite rovine di castelli e templi, piene tuttavia di resti di grande importanza, come pitture, stucchi, manoscritti, statue di ogni genere ed epoca ammucchiate alla rinfusa nelle cappelle e abbandonate al degrado. Piang era della setta Saskyapa, ma non ci vivevano monaci, e le chiavi erano affidate ad un laico, la persona più autorevole del villaggio che era composto da un paio di case a valle del monastero in mezzo a campi irrigati. Per arrivare alle tre cappelle si costeggiavano file di ciortèn giganteschi, oltrepassando cumuli di macerie: la più bassa era la sala delle adunanze, decorata con molte pitture dei consueti dei della medicina; più in alto si trovava il Goncàn[17] e ancora sopra una cappella con figure di Buddha della medicina dipinti sulle pareti; in questi tre templi i reperti più interessanti erano costituiti dalle statue di divinità del pantheon mahayanico, scolpite in legno, in bronzo dorato e in stucco e accatastate disordinatamente sugli altari: esse possono essere datate prevalentemente al primo periodo di Guge, ma ve ne erano alcune di sicura origine indiana, in particolare di scuola Pala; quasi tutte queste statue non erano posteriori al XII o XIII secolo ed erano state eseguite da maestranze del Bengala, dell’India e del Nepal; molte portavano iscrizioni in sanscrito. Nell’ultimo tempio, una piccola cella sulla cima del monte, chiamata Zecàn, cioè “il tempio sulla punta della montagna”; anche qui vi erano abbondanti statue antiche indiane e tibetane e sulle pareti magnifiche pitture da considerarsi tra le più fini del tibet occidentale, seppur non antichissime, tra cui una figura del Buddha con intorno i sedici Arhat[18]; vicino alle porte erano rappresentati i custodi tantrici come Hevajra (lo spirito tutelare della setta dei Saskyapa) e altri affreschi con maestri e asceti., in un trionfo di colori e luce. Vengono poi esplorate le grotte intorno a Dunkar, dove vi erano cappelle di anacoreti e luoghi di meditazione, istoriate in ogni loro parte con superbe e raffinatissime pitture, veri e proprio capolavori della maturità artistica del regno di Guge, probabilmente del XV secolo. Più in basso, nella grotta maggiore, vengono trovate statue di stucco degli otto dei della medicina. I pochi abitanti del villaggio non andavano mai lassù, anche solo salire su quelle rupi era piuttosto pericoloso perché franavano in continuazione e anche le grotte cominciavano a sgretolarsi per via delle infiltrazioni d’acqua.
La spedizione riparte poi per Gartok, attraversando la catena del Ladakh per il passo di Saze La. Gartok era già stata visitata e descritta da Tucci nella relazione della missione scientifica del 1933. Questa volta, all’arrivo della carovana, il paese (due case soltanto, quelle dei due governatori, e accampamenti di servi, mercanti e nomadi) è in festa per celebrare l’arrivo del nuovo governatore da Lhasa, che arriva vestito da cerimonia, preceduto da suonatori di tamburi e seguito dalla famiglia e da uno stuolo di servitori e ancelle. Tucci è da lui invitato a prendere il tè e gli viene chiesto di raccontare dei suoi viaggi e del suo paese. A Gartok viene riorganizzata la carovana, e il vecchio governatore di Gartok, in procinto di tornare a Lhasa, mette a disposizione di Tucci alcuni pony, dato che gli yak superstiti erano ormai inutilizzabili.
Da Gartok a Tashigang la carovana attraversa steppe sconfinate in cui scorre il Gartang, sulla via del ritorno verso il Ladakh e il Kashmir. I centri abitati si fanno sempre più rari e così le vestigia antiche, le ultime delle quali visitate a Namru, un villaggetto con le macerie di un gruppo di ciortèn e le tracce di un tempio; sui dirupi della montagna che sovrasta il paese, sulla sinistra del fiume, sorgevano le mura merlate di un castello in rovina, forse l’antica dimora dei principi di Namr, oppure un posto di guardia. La carovana passa poi per Gargunsa, capitale invernale del Tibet occidentale e duplicato perfetto di Gartok: due case, una per ciascuno dei governatori e una cappella di recente costruzione. Successivamente si sosta a Tashigang, ultimo gompà sotto il governo di Toling, dove il castello degli antichi re era stato trasformato in un convento. Tucci ricorda qui in particolare tre cappelle: una tutta istoriata rozzamente da figure di dei ella medicina, il Tongyud con un enorme cilindro per le preghiere e la sla delle adunanze, costruita appena tre o quattro anni addietro da un artista del Ladakh. Delle antiche costruzioni non restavano che alcune torri e cumuli di rovine; vi era però un discreto numero di monaci, più numerosi rispetto agli altri conventi visitati; Tucci prendi qui parte ad alcune dispute teologiche, dimostrando con la sua grande erudizione di poter rivaleggiare con i lama più preparati. Poi lunghi giorni di marce lunghe e monotone lungo l’Indo, raggiungendo anche Demcio, ultimo villaggio tibetano di poche case, al confine tra il territorio di Lhasa e il Ladakh: povero e squallido, privo di templi. Tra il Tibet e il Ladakh non c’era nemmeno un posto di guardia e il confine era segnato da un modesto torrente. A Nima mud, sulla sponda destra dell’Indo, la spedizione incontra i primi centri Ladakhi: castelli e templi,alcuni in rovina altri in ricostruzione; l’incarnato che comandava in questo monastero proveniva da Lhasa, ed era anche un mercante: con i soldi raccolti restaurava i monasteri e i templi, come il Tubten targhie lin e il Gnienne Lacang; nel primo stavano restaurando gli altari, e sulle pareti restavano alcuni affreschi del XVII secolo di buona qualità; l’altro lo stavano rifacendo completamente. Poi vengono attraversati Puga e il passo del Polokonca scendendo sul lago Car, dove già Tucci si era accampato nel 1931, e da qui si cominciano ad incontrare carovane di mercanti di Sultanpur, Lahul e Spiti, che tornavano dai mercati del Ladakh. Il 9 ottobre viene valicato il Taglungla e, dopo una sosta a Gya, Tucci ritorna per la quarta volta a Leh, bazar di mercanti dell’Asia centrale, del Tibet e del Kashmir; vi erano anche missionari europei e alcuni inglesi. Un ufficio postale e il telegrafo. Il 15 novembre infine, all’arrivo dell’inverno, venivano attraversate le Zojila, dove si concludeva la spedizione del 1935 nel Paese delle Nevi.
Cenni sulle spedizioni del 1937 e del 1939
Rispetto alle spedizioni di Tucci del 1933, del 1935 e del 1948, descritte dal professore nei suoi diari delle missioni scientifiche, i viaggi del 1937 e del 1939 non furono da lui relazionati in maniera sistematica, e una ricostruzione completa e dettagliata di queste spedizioni esula necessariamente dal contesto di una tesi universitaria; darò quindi solo brevi informazioni riguardo ad esse, non perché siano meno importanti a livello di luoghi visitati e documentazione raccolta, ma perché una ricostruzione adeguata richiederebbe anni di lavoro su documenti spesso di difficile reperibilità. Per quanto riguarda la spedizione del 1937 esiste sì lo splendido libro di Fosco Maraini[19] “Segreto Tibet”, che si basa proprio sulle impressioni di quel viaggio in cui accompagnò Tucci, e su quello successivo del 1948, sempre in compagnia dell’orientalista; tuttavia nelle sue descrizioni i due itinerari non sono distinti e il libro è da considerarsi più un’opera di ricordi e descrizioni che un diario di spedizione; inoltre gli itinerari delle spedizioni del 1937 e del 1948 in parte coincidono, ed è dunque difficile capire a quale delle due Maraini si riferisca quando descrive luoghi, incontri ed impressioni; il libro è inoltre praticamente privo di qualsiasi cronologia. La sua opera resta comunque fondamentale nell’ambito degli studi su Giuseppe Tucci, ed il suo apporto personale e culturale ai viaggi del più noto orientalista italiano è indiscutibile.
Giuseppe Tucci, durante la spedizione del 1937, partì da Gangtok, capitale del Sikkim, per visitare i monasteri più antichi ed importanti, come Iwang e Samara, lungo la via commerciale che univa Kalimpong a Lhasa; questa strada era stata costruita dagli Inglesi dopo l’intervento militare in Tibet del 1904. Tucci arrivò a Gyantse e poi ritornò indietro per la stessa strada. Gyantse venne descritta in un articolo, pubblicato originariamente sulla rivista “Le vie del Mondo”[20] e poi ristampato di recente nel volume “Il paese delle donne dai molti mariti”; [21] Ai suoi templi, da Tucci studiati in maniera approfondita, furono dedicati i tre tomi del quarto ed ultimo volume di Indo-Tibetica. Fosco Maraini, ingaggiato come fotografo, arricchì grandemente i risultati della missione con i suoi scatti diventati giustamente famosi[22]. La spedizione del 1939 aveva invece lo scopo di studiare i monumenti del Tibet Centrale, al fine di verificare se in queste zone esistessero templi e cappelle edificate agli albori della diffusione del buddhismo e se ci fossero opere d’arte che potessero completare le ricerche delle missioni precedenti sullo sviluppo artistico del Paese delle Nevi, stabilendo una connessione tra l’arte antica del Tibet e quella di altri paesi limitrofi.
Questa spedizione ebbe luogo da giugno a ottobre del 1939: Tucci partì da Gangtok in direzione nord fino a Kampadzong, da dove proseguì per raggiungere il centro monastico di Sakya, dove la carovana si fermò a lungo. Poi proseguì per Lhatse, sulle rive dello Tsangpo[23], seguendo il corso del fiume sino a Shigatse. Da qui fu presa una strada meno battuta che rese possibile allo studioso la visita di Zhalu, Ngor, Narthang e Pokhang. Raggiunse poi Gyantse da dove rientrò poi nel Sikkim seguendo la via già percorsa nel 1937. Fotografo e cartografo della spedizione fu l’alpinista ed ufficiale dell’esercito italiano Felice Boffa Ballaran[24]. Il primo luogo visitato fu Sakya, antica capitale del Tibet durante la dinastia mongola, durante la quale, sotto Qubilai (1215-1249), gli abati di Sakya ricevettero l’investitura sul Tibet. Sakya fu un importante centro politico, culturale ed artistico, nonché luogo di confluenza di influenze indiane e cinesi; ciò nonostante la sua importanza fu spesso ignorata da viaggiatori dell’ottocento e primi del novecento, come Sarat Chandra Das[25], che vi passò nel 1879 e ne accennò solo brevemente nell’opera Journey to Lhasa and Central Tibet, oppure Theos Casimir Bernard[26] in Penthouse of the gods, che quasi la ignorò pur avendoci sostato per qualche giorno nel 1937. La strada più veloce che arrivava a Sakya partiva da Gangtok nel Sikkim, seguiva la valle del Lachen e passava oltre la catena himalayana transitando per il passo Kangra La; questa era una strada carovaniera molto meno battuta di quella che aveva come itinerario Gangtok, Natu-La, Chumbi, Gyantse, che era la più battuta e ricca di traffico. La strada del Kangra La era meno percorsa perché non transitava per nessun centro commerciale così importante come Phari o Gyantse, che erano diventati importanti empori per gli scambi commerciali tra India e Tibet. La strada di Sakya passava per Kampadsong (4500 metri), sede di una prefettura: essa era come Lhatse una delle sedi che dipendevano direttamente da Tashilumpo; il luogo era molto freddo poiché spazzato dai gelidi venti himalayani.
La via continuava poi per Doptra (4450 metri), vicino alle rive del lago Tsomotretung, valicava il Keyi La e scendeva nella fertile valle di Chiblung, con molti villaggi circondati da campi d’orzo, prodotto principale di queste zone insieme ad un tipo di carte fatta con le radici di una pianta locale. Sakya[27] nel 1939 era costituita principalmente da grandi monasteri ed un piccolo villaggio. Vi era un piccolo mercato, ed erano presenti monaci della setta Sakyapa, con a capo un gran Lama dotato di autorità religiosa e politica, sotto il controllo di Lhasa. I monasteri vengono visitati da Tucci: essi contenevano pregevoli raccolte di opere d’arte e ricche biblioteche, anche se avevano subito saccheggi durante le guerre tra Sakya e le sette rivali. Da Sakya la spedizione riparte verso Ovest seguendo a valle il corso del Krumchu[28] fino ad arrivare Gyan, piccolo monastero con un grande stupa costruito forse nel XIII secolo e contenente tracce di pregevolissimi affreschi; vicino a questi monumenti sorgeva un grosso monastero appartenente alla setta Gialla. Gyan si trovava in una piccola gola con davanti un’immensa valle fertile e ben coltivata a campi di orzo fino a Lhatse, sulle spnde del Brahmaputra. Lhatse era una prefettura dipendente da Tashilumpo: vi era un modesto mercato, un monastero della setta Gialla, nonché un forte costruito su una rupe a strapiombo sul fiume, molto antico ma rifatto in tempi recenti.
Da Lhatse la carovana prosegue per Tashilumpo passando per Phuntsoling, su un grande sperone sopra il Brahmaputra. Phuntsoling, era anch’esso monastero della setta gialla, ma fondato da una setta poco diffusa nel Tibet, chiamata Jonang[29]: l’antico convento era quasi completamente distrutto, ma restava un grande stupa con pitture molto antiche e di grande valore artistico e alcune cappelle meno antiche, o comunque restaurate in tempi recenti. Dopo Phuntsoling si lascia alle spalle il Brahmaputra per percorrere la carovaniera diretta a Tashilumpo, attraversando Bodong, molto rovinato dalla guerra tra Nepal e Tibet, Tru, con le rovine di un grande stupa nascosto in una gola sulla sinistra della strada e poi Kangchen, gran monastero della setta Gialla. Successivamente viene valicato il passo di Tra e si scende nella ampia valle desolata del Narthang-chu. Qui viene superato il monastero di Chumig e si arriva a Narthang, dove si trovava la più antica stamperia del Tibet centrale. Qui si stampava il bsTan-gyur in 225 voumi e il bKa’-‘gyur in 100 voumi, ovvero le più grandi raccolte di testi buddhisti, contenenti la traduzione delle opere più importanti dal sanscrito al tibetano. Questo era uno dei monasteri più antichi della zona, e nelle sue stanze immense erano conservate in apposite scaffalature le tavole di legno sulle quali erano incise le migliaia di pagine delle scritture sacre: le tavolette facevano da matrice per la stampa.
Da Narthang si prosegue con una breve marcia fino a Tashilumpo e Shigatsè: le due città sono vicinissime, a meno di un miglio l’una dall’altra. Tashilumpo era la città sacra, una città-monastero: nel suo perimetro vi era un grande tempio costruito da dGe-‘dun-grub che ne era stato il fondatore, le tombe dei cinque Panchen Lama che si erano succeduti fino al 1937, le università, le scuole teologiche e le abitazioni dei monaci tibetani, cinesi e mongoli. La stamperia era meno importante di quella di Narthang, ma conteneva le matrici delle opere di tutti i Panchem Lama, in tutto 35 volumi. Shigatzè era dopo Lhasa la città più grande del Tibet: grande bazar e centro di commerci col Nepal; Shigatsè era insieme punto di confluenza delle carovaniere che scendevano da Shang e dalla pianura a nord del Brahmaputra. Nel mercato si potevano incontrare anche numerosi musulmani di origine kashmira, e si potevano trovare, oltre che che vari tipi di cose da mangiare, stoffe cnesi, oggetti in ceramica e alluminio, di provenienza giapponese, cappelli di feltro e panno importati attraverso l’India dall’Italia, terraglie e ornamenti femminili di produzione nepalese.
Da Shigatsè si poteva piegare verso su e arrivare in quattro giorni a Gyantse attraverso la valle del Nyang-chu. Tucci invece preferisce tornare a Narthang e da lì penetrare nella catena montuosa che fiancheggia la valle del Narthang-chu. Viene visitato il monastero di Ngor, che conteneva una preziosa raccolta di manoscritti sanscriti, e vengono valicati due passi di montagna non altissimi ma piuttosto impegnativi poiché privi di sentiero. Poi la carovana scende a Shalu, uno dei più antichi e celebrati gampò del Tibet, nel quale erano conservati bellissimi affreschi di influsso cinese del XIII secolo e altri dello stesso periodo, eseguiti però da artisti mongoli. Shalu apparteneva invece ad una setta particolare chiamata Shalupa dal nome del posto: qui viene raggiunta la strada carovaniera principale che univa Shigatsè a Gyantse. Da qui la spedizione prosegue attraversa Patsab, di fronte a Gadong, sulla riva destra del fiume, e Chogro, ridotto ad una sola abitazione, fino ad arrivare a Nesar, dove sorgeva uno dei più antichi templi tibetani, secondo la tradizione; le poche pitture conservate erano antichissime. Sulla riva destra del fiume si trovava il convento di Piokhang, che Tucci visita per studiarne i manoscritti e le pitture. A settembre si arriva a Gyantse dove la spedizione raggiunge la strada che univa il Sikkim a Lhasa, dove viene accolta festosamente dagli amici tibetani incontrati nei precedenti viaggi. Dopo aver lasciato Gyantse, dove aveva sistato per qualche giorno, Tucci rientra in India alla fine di ottobre onendo così fine alla spedizione tibetana del 1939.
Le ricerche dello studioso avevano avuto scopo specialmente di studi storici e archeologici; la documentazione fotografica e la raccolta di reperti erano stati tali da permettere uno studio completo e definitivo sulla storia politica, artistica e religiosa di gran parte del Tibet. Inoltre le centinaia di manoscritti in sanscrito recuperati e fotografati nelle biblioteche dei monasteri contribuirono grandemente allo studio della civiltà indiana. Furono eseguiti rilievi dei luoghi, strade, itinerari e mercati, alfine di correggere le carte geografiche ancora molto imprecise, pubblicate in India dalla Survey.
Note:
[1] Il conte Parassitele Piccini, ricco benefattore milanese amico di Tucci, dal 1937 al 1943 fu membro della Commissione di vigilanza e di consulenza di quella che era la Biblioteca Civica della Città di Milano, ora Biblioteca comunale a Palazzo Sormani.
[2] Purang era il nome dato al distretto, che designava anche la capitale. Era la prima delle quattro prefetture in cui era suddiviso il Tibet occidentale. Il paese è conosciuto anche con il nome di Taklakot.
[3] Questa è una delle Triadi divine più celebri del buddhismo Mahayanico e del lamaismo. I pellegrini indiani riconoscono invece in queste figure Rama, il fratello Lakshmana e la moglie Sita.
[4] Una delle più celebri incarnazioni del Buddha : la leggenda di Nor bzan è una delle più note e diffuse del Tibet
[5] Zorawar Singh Kahluria (Kahlur 1786 – Taklakot 1841), celebre generale Dogra che, dopo aver conquistato il Ladakh , tentò di saccheggiare il Tibet e depredare Lhasa, ma venne sconfitto e ucciso . In Tibet era ricordato col nome di Singpa, il leone, e nonostante egli fosse loro nemico, i Tibetani ne cantavano ancora le gesta come se fosse un eroe nazionale.
[6] Per gli indù questa montagna è sacra perché la loro tradizione afferma che sulle sue cime si ritirò il re Mandata per meditare; i tibetani credono invece che nei suoi ghiacci sorga il palazzo di Guhyasamàja, divinità dell’esotersimo buddhista .
[7] Le frequenti raffigurazioni delle divinità nell’amplesso non hanno nessun significato osceno, ma sono simboliche rappresentazioni della pienezza della beatitudine dell’essere supremo, che è sintesi di conoscenza e atto rispecchiati dalla Dea e dal Dio.
[8] Il nome Trugò significa letteralmente “la porta del bagno”, intendendo con ciò il luogo dove dovevano compiersi le prime abluzioni nell’acqua sacra del lago; ci sono infatti due modi per rendere omaggio al lago di Brahma: tuffandosi nelle sue acque e girandogli intorno a destra.
[9] Nei monasteri del Tibet spesso si trovavano stamperie, che su richiesta producevano copie di testi sacri, cronache, biografie di lama e santi e guide per pellegrini; chi desiderava una copia di un testo portava con sé la carta necessaria alla tipografia del convento.
[10] Cozampa fu uno dei più grandi asceti indiani e impartì l’iniziazione a discepoli tibetani, fra cui il famoso Marpa, traduttore di opere mistiche e maestro di Milarepa. La tradizione afferma che fu Marpa ad introdurre l’Hatayoga in Tibet.
[11] Gli indù e i buddhisti girano intorno alla montagna sacra tenendo la destra, i Bonpo invece la tengono a sinistra, venendo incontro quindi agli altri pellegrini, tra cui la carovana di Tucci. Tucci era molto interessato alla religione Bonpo, poiché di essa si conosceva in Occidente ben poco. Nel corso di questa spedizione lo studioso riuscì a raccogliere una buona collezione di manoscritti di questa religione.
[12] Il nome stesso della caverna significa “il miracolo” e con questo nome vuole ricordare uno degli episodi più importanti della vita di Milarepa, svoltosi in questi luoghi secondo la tradizione. La leggenda racconta che il Kailasa era ai tempi venerato più dai Bonpo che dai Buddisti, e il personaggio più autorevole della comunità Bonpo era un celebre stregone chiamato Naro Bon ciung ; Milarepa, capitato nelle sue peregrinazioni da quelle parti, volle trascorrere una primavera in meditazione nella grotta di Zuprul ma il maestro Bonpo si oppose e ne scaturì un duello magico tra i due. Le fonti lamaistiche affermano che vinse Milarepa, quelle Bonpo non concordano.
[13] Tirthapuri significa “città sacra”, ma il suo vero nome era Pretapuri, ovvero “città dei trapassati”, cioè luogo di spettri. Essendo presenti in quel luogo sorgenti sulfuree, la fantasia dei pellegrini lo aveva descritto come una bocca dell’inferno
[14] Nella biografia di Rin c’en bzan po è scritto che qui a Mangnang nacque e visse uno dei più celebri discepoli del grande maestro, ovvero il lotsava (traduttore) di Mangnang.
[15] Questo luogo era noto come Shangsi nella carta della Survey, ma era noto ai locali come Dagktenpa, probabilmente prendendo il nome dalle rupi che circondavano la valle. Questa strada era poco battuta ed era percorsa solo dai rari mercanti che andavano da Tsaparang a Toling passando per Piang Dunkar.
[16] In realtà Piang e Dunkar erano due paesi molto vicini. Con il termine “paese”, in questa zona del Tibet, praticamente si intende sempre dire “monastero”.
[17] Questo tempio era chiamato così (mgon k’an) perché conteneva l’immagine di stucco del Gon po’, cioè lo spirito tutelare del villaggio.
[18] Arhat è il santo che è giunto a meritare il nirvana. Figura ideale del buddhismo più antico, rimasto come ideale delle varie scuole del buddismo hinayana. Il buddhismo mahayana ha invece dato maggiore preminenza alla figura del bodhisattva, cioè di colui che si è meritato il nirvana ma vi rinuncia per restare nel mondo e aiutare gli esseri meno fortunati sul cammino verso la salvezza. La tradizione e l’iconografia considerano in modo particolare gruppi di 16 o 18 arhat, rappresentati in compagnia del Buddha. Esistono anche gruppi di 500 arhat. Trattandosi di uomini comuni che sono riusciti a mertitarsi il nirvana, gli arhat sono sempre rappresentati con caratteristiche particolari: le loro immagini sono spesso ritratti di popolani, artigiani, contadini, eremiti, come gli artisti potevano averne conosciuti nella vita. In Tibet c’erano parecchi gruppi scolpiti di arhat, in genere con cospicui influssi cinesi. Il gruppo degli arhat era spesso anche rappresentato nelle pitture murali e sui thanka.
[19] Fosco Maraini nasce a Firenze il 15 novembre 1912 da Antonio Maraini, noto scultore di antica famiglia ticinese, e da Yoi Crosse, scrittrice di padre inglese e madre polacca. Maraini trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Firenze compiendo coi genitori frequenti viaggi in Italia, Inghilterra, Svizzera, Francia e Germania. I legami familiari della madre con il Sud Africa, l’India e diversi altri paesi del mondo, nonché una spiccatissima e precoce curiosità per l’Oriente fanno si che a ventidue anni s’imbarca come insegnante d’inglese dei cadetti dell’Accademia Navale di Livorno, in crociera con la nave scuola “Amerigo Vespucci”, verso le coste del Medio Oriente. Ha modo così di visitare l’Egitto, il Libano, la Siria e la Turchia. Nel 1935, sposa Topazia Alliata, discendente di un’antica casata siciliana, dal matrimonio con la quale nasceranno le tre figlie Dacia (1936), Yuki (1939) e Toni (1941). Nel 1937 parte al seguito di Giuseppe Tucci per una lunga spedizione in Tibet. Questa esperienza convince definitivamente Fosco Maraini a dedicarsi alla ricerca etnologica e allo studio delle culture orientali. Tornato in Italia, conclude i suoi studi, laureandosi nello stesso anno in Scienze Naturali all’Università di Firenze. L’occasione di dedicarsi pienamente alla ricerca etnologica gli è offerta da una borsa di studio per ricercatori stranieri messa a disposizione della Kokusai Gakuyu Kai, un’agenzia del Governo giapponese. Nel 1939 si trasferisce con la famiglia a Sapporo, nell’isola di Hokkaido, dove effettua una serie di ricerche e di studi, incentrata sui caratteri dell’arte, della religione tradizionale e dell’ideologia degli Ainu, il “popolo bianco” del Giappone. I risultati di tali indagini sul campo verranno pubblicati a Tokyo nel 1942 in un importante lavoro monografico intitolato Gli Iku-bashui degli Ainu. Nello stesso anno pubblica, in lingua giapponese, un rèportage fotografico sui popoli del Tibet (Chibetto). Tra il 1942 e il 1943, lasciata Sapporo, ricopre l’incarico di lettore di lingua italiana all’Università di Kyoto. Dopo l’8 settembre, rifiutandosi di aderire alla Repubblica di Salò, Maraini, insieme alla sua famiglia e a un’altra trentina di residenti italiani in Giappone, viene internato in un campo di concentramento a Nagoya,; vi rimarrà sino al 15 agosto 1945. Dopo la fine della guerra rimane a Tokyo, lavorando per un anno come interprete dell’VIII Armata Americana. Nel 1948, subito dopo il ritorno in Italia, Maraini parte per un secondo viaggio in Tibet con Giuseppe Tucci. Da questa esperienza nascerà, dopo qualche anno di gestazione, Segreto Tibet, volume che verrà tradotto in dodici lingue e che porterà il lavoro etnologico e lo stile narrativo di Maraini all’attenzione del pubblico internazionale. Nel 1953, Maraini ritorna in Giappone dove gira una serie di documentari etnografici. Fra i documentari, oggi purtroppo in gran parte perduti, ricordiamo: Gli ultimi Ainu, incentrato sulla cerimonia dello iyomande; Ai piedi del sacro Fuji , sulla vita rurale giapponese, sull’architettura tradizionale e sul ritualismo scintoista; L’isola delle Pescatrici, girato – in parte con riprese subacquee – fra le Ama delle piccole isole di Hékura e Mikurìa, nell’arcipelago delle Nanatsu-to, la cui peculiarità etnologica Maraini propose per la prima volta all’attenzione del mondo occidentale. In quegli stessi anni, contestualmente alla ricerca visiva, Maraini raccoglie numeroso materiale che adopererà per la pubblicazione di tre volumi: Ore giapponesi del 1956 (tradotto in cinque lingue), L’isola delle Pescatrici del 1969 (tradotto in sei lingue) e, infine, Japan.Patterns of Continuity (1971), monografia illustrata sul Giappone, che ,a tuttoggi ,ha conosciuto dodici ristampe ed è stata tradotta in diverse lingue. Nel 1958, Maraini – da tempo appassionato alpinista – viene invitato dal Club Alpino Italiano alla spedizione nazionale al Gasherbrum IV ( 7980 m. ) nel Karakorum. L’anno successivo è capo della spedizione italiana al Picco Saraghrar nell’Hindu-Kush. Il resoconto alpinistico ed etnografico di queste spedizioni costituisce l’argomento dei due volumi G4- Karakorum, del 1959, e Paropàmiso, del 1960, che vengono ambedue tradotti in più lingue.
Fra il 1959 e il 1964, su invito del professor Richard Storry, lavora come ricercatore associato (fellow) presso il St. Antony’ s College (Dipartimento di Civiltà dell’Estremo Oriente) di Oxford. In quegli stessi anni, per conto dell’editore italiano De Donato , compie un lungo viaggio attraverso l’Asia, toccando l’India, il Nepal, la Thailandia, la Cambogia, il Giappone e la Corea. Nel 1966 torna in Giappone, dove lavora per una grande casa editrice ed effettua studi sulla civiltà e la cultura di quel paese. Fra il 1968 e il 1969, trascorre parecchi mesi a Gerusalemme dove raccoglie materiale per la pubblicazione di uno dei più bei volumi apparsi su quella città: Jerusalem, Rock of Ages, pubblicato dalla Harcourt Brace di New York. Nel 1970, il Ministero degli Affari Esteri lo nomina direttore delle pubbliche relazioni al Padiglione Italia dell’Esposizione Universale di Osaka. Lo stesso anno sposa in seconde nozze Mieko Namiki. Nel 1972 Maraini ritorna a Firenze dove gli viene affidato l’incarico di Lingua e Letteratura Giapponese presso la Facoltà di Magistero dell’Università degli Studi, incarico che lascia nel 1983 per raggiunti limiti d’età. Sempre nel 1972, fonda l’Associazione italiana per gli Studi Giapponesi ( AISTUGIA ) di cui è stato presidente fino alla morte. Fra i volumi pubblicati negli anni settanta ricordiamo: Incontro con l’Asia (1973), Tokyo, pubblicato in cinque lingue nella collana “Great Cities of the World” e Giappone e Corea, pubblicato nel 1978 sia nell’edizione italiana sia in quella francese. Nel 1980 pubblica con Giuseppe Giarrizzo un volume sulla civiltà contadina in Italia, in cui appare per la prima volta il materiale fotografico raccolto nel Meridione e in Sicilia negli anni immediatamente successivi alla guerra. Negli anni Novanta, Maraini ha continuato a rivedere ed ad approfondire i suoi studi giapponesi ( L’àgape celeste, 1995; Gli ultimi pagani, 1997) e ha pubblicato alcuni volumi di squisito contenuto letterario scritti, a partire dalla fine degli anni cinquanta, come puro divertissement, in un chimerico linguaggio “metasemantico”: Gnosi delle Fànfole (1994) e Il Nuvolario (1995). Su espresso desiderio di Maraini e grazie all’intervento dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, la sua biblioteca orientale e la fototeca delle immagini da lui riprese nel corso della sua vita sono state acquisite dal Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux, costituendo la base sulla quale è nato il Programma da Maraini stesso battezzato “Vieusseux-Asia”. Nelle intenzioni di Maraini i materiali da lui raccolti dovrebbero infatti garantire a Firenze e alla Toscana la disponibilità di strumenti per la conoscenza dell’Asia Orientale tali da garantire la ripresa di quell’interesse che era stato fino agli anni Trenta del Novecento così vitale. Nel 1999 il Gabinetto Vieusseux ha promosso una grande mostra antologica delle sue fotografie, Il Miramondo, esposta al Museo Marino Marini a Firenze, poi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e all’Istituto Giapponese di cultura e quindi a Tokyo, al Museo Metropolitano di Fotografia. Nel 2001 il Gabinetto Vieusseux ha promosso e pubblicato il cospicuo volume Firenze, il Giappone e l’Asia Orientale. Nel 2003 sempre al Gabinetto Vieusseux si è tenuto il convegno internazionale dedicato a Relazioni tra scienza e letteratura in Oriente e in Occidente
La sua biografia in forma romanzata è stata pubblicata da Mondadori con il titolo Case, amori, universi. Negli ultimi tempi, profondamente colpito dalla strage delle Torri Gemelle, si era dedicato con appassionato impegno allo studio dei rapporti tra Islam e Occidente, riconsiderando le sue esperienze dirette di incontro con la cultura islamica. Fosco Maraini è morto a Firenze martedì 8 giugno 2004.
[20] «La capitale del Tibet centrale: Ghianzé e il suo tempio terrificante», Le Vie del Mondo, VI, 1938, pp. 741-758
[21] «Un tempio terrificante», in Tucci G., Il paese delle donne dai molti mariti, 2005, Neri Pozza Editore, pp.257-266.
[22] Le fotografie scattate da Maraini nel corso delle spedizioni con Tucci sono state pubblicate principalmente in: Dren-Giong. Appunti di un viaggio nell’Imalaia, fotografie dell’autore, Firenze, Vallecchi, 1939; Chibetto, Fosuko Maraini cho = Lontano Tibet, foto di Fosco Maraini, Tokyo, Shunchokai, Showa 17 [=1942] (testo parallelo in giapponese ed italiano); Segreto Tibet, presentazione di Bernardo Berenson, Bari, Leonardo da Vinci, 1951.
[23] Brahmaputra.
[24] Felice BOFFA-BALLARAN (Tavigliano (BI), 11 maggio 1897 – ivi, 17 gennaio 1994). Partecipa con il grado di Sottotenente degli Alpini alla I Guerra Mondiale, in forza al battaglione “Monte Cervino”. Nel dopoguerra entra all’Istituto Geografico Militare come topografo triangolatore, e in seguito fa parte della commissione Italo-Austriaca per la definizione dei confini. Fu poi tra gli ufficiali che fondarono la Scuola Centrale Militare di Alpinismo, inaugurata ad Aosta il 9 gennaio 1934. Nel 1939 il Ministero della Guerra lo indica a Giuseppe Tucci come la persona adatta ad accompagnarlo in veste di fotografo e cartografo nel Tibet centrale. Durante il secondo conflitto mondiale comandò prima il Battaglione Monte Rosa sul fonte albanese, ed in seguito il Battaglione di Allievi Ufficiali presso la Scuola di Alpinismo di Aosta. Dopo lo 8 settembre 1943 entra nelle formazioni partigiane delle «Fiamme verdi». Nel 1946 si dimette dall’esercito dopo aver rifiutato di giurare alla Repubblica. Entra allora nel Club Alpino Italiano come segretario Generale, carica che coprirà per un decennio. In virtù di questa posizione, nel 1953 fa parte della prima commissione del CAI che studiò la fattibilità del progetto di spedizione al K2 presentato da Ardito Desio. Dirige poi per 10 anni il Rifugio Livrio e la Scuola estiva di sci dello Stelvio.
[25] Sarat Chandra Das (1849-1917) fu uno studioso indiano della lingua e della cultura tibetana, conosciuto soprattutto per i suoi due viaggi in Tibet nel 1879 e nel 1881-1882.
[26] Theos Casimir Bernard (1908 – data di morte sconosciuta, probabilmente settembre 1947) fu un praticante di yoga Americano, seguace del buddhismo tibetano, studioso di religioni ed esploratore.
Theos Bernard fu uno dei primi studiosi di indologia e tibetologia alla Columbia University. Fu il terzo Americano a poter entrare a Lhasa e il primo Americano ad essere iniziato ai rituali del buddhismo tibetano. Egli pubblicò diversi studi sulla teoria e la pratica delle religioni dell’India e del Tibet, laureandosi con una tesi sull’Hatha Yoga. Fu inoltre il fondatore del primo centro di ricerca sul buddhismo tibetano negli Stati Uniti, e compilò una grammatical tibetana ponendo le basi per le traduzioni della letteratura indiana e tibetana in inglese.
[27] Sakya significa “terra pallida”, per il colore delle rocce della montagna sovrastanti.
[28] Piccolo fiume che attraversa Sakya passando per Ciustèn, dove si trovavano sorgenti di acqua calda sulfurea molto frequentate da malati e pellegrini.
[29] Questo nome deriva dal paese di Jonang in una gola a poche miglia a sud di Phuntsoling.
(continua…)
Andrea Morandi