Le religioni e l’uomo – Marco Calzoli
Il buddhismo nasce in India nel VI secolo a. C. con la predicazione del Buddha storico. Egli si esprime in ardhamagadhi, quando è in vita non vuole che i suoi discorsi vengano scritti in versi vedici per non riservarli sono ad una élite di intellettuali, infatti egli concedere dare a tutti il suo insegnamento. Oggi i canoni buddhisti superstiti sono tre: pali, cinese, tibetano. Ogni canone buddhista è formato da tre parti: discorsi (sutra), regole di vita monastica (vinaya) e commenti agli insegnamenti (abhidhamma o sastra). Quindi ogni canone buddhista è detto Tripitaka, che vuol dire Tre Canestri, in riferimento alle tre parti di cui è composto.
Le Quattro Nobili Verità alla base della dottrina del buddhismo sono:
- esiste il dolore nella vita umana;
- il dolore nasce dal nostro attaccamento per ciò che è effimero: cose e persone;
- per eliminare il dolore dobbiamo lasciare andare l’attaccamento per ciò che è effimero;
- esiste un percorso per attuare questo, cioè per liberarsi dal dolore: è il Nobile Ottuplice Sentiero (retta comprensione, retta motivazione, retta parola, retta azione, retti mezzi di sussistenza, retto sforzo, retta consapevolezza, retta concentrazione meditativa).
L’attaccamento fa restare la persona nel ciclo delle vite o reincarnazioni (saṃsāra). Se l’attaccamento cessa, ci si libera dal saṃsāra, cioè anche dal dolore, procurato dalle vite. Fino alla estinzione nel nirvāṇa, che è la pace ultima, l’annullamento, una consapevolezza totale che coincide con l’assenza di ogni desiderio e pensiero. Ma il concetto di nirvāṇa varia da scuola a scuola. Secondo la legge del karma, se in vita si fanno buone azioni e si hanno buoni pensieri, ci si reincarna in una esistenza migliore, altrimenti in una esistenza peggiore. Seguire i dettami del Nobile Ottuplice Sentiero permette di accumulare karma positivo (per reincarnarsi in esistenze migliori) e ha il fine ultimo di procurare il nirvāṇa, anche se questo non deriva automaticamente dal perseguimento di tali regole. A seconda del grado di nirvāṇa ottenuto si può diventare buddha oppure, in grado inferiore, bodhisattva. Quest’ultimo, pur avendo ottenuto la liberazione dal ciclo delle rinascite (saṃsāra), non si estingue nel nirvāṇa supremo ma continua a permanere qui per aiutare gli esseri umani. La scuola buddhista più antica a noi giunta è la Theravada (thera in pali significa “vecchio, autorevole”), che ha come base il canone pali. Invece il buddhismo Mahayana (Grande Veicolo) si basa sul canone cinese e sul canone tibetano. La scuola Hinayana (Piccolo Veicolo) è formata da quei buddhisti considerati eretici dai Mahayana. Invece la scuola Vajrayana (Veicolo del Diamante) è un buddhismo tantrico, derivato da quello Mahayana ma con elementi esoterici per una più rapida liberazione.
Nonostante le origini indiane, il buddhismo si è poi diffuso massicciamente nel mondo, allontanandosi dalla patria. Infatti, oggi l’India è soprattutto induista e islamica. Il buddhismo giunge in Giappone tramite la Cina e la Corea, che ne rielaborano leggermente i concetti. Per il Nihon shoki (Cronache del Giappone) il buddhismo arriva in Giappone nel 552 d. C., benché ci siano testimonianze del suo arrivo anche anteriori, suggerito dal sovrano di Paekche, in Corea, che invia vari oggetti rituali per ottenere un’alleanza militare con il Giappone. Nonostante l’opposizione dei clan che detenevano il potere sacerdotale shintoista dei Mononobe e Nakatomi, il buddhismo comincia presto a diffondersi in Giappone sotto la spinta dei Soga che avevano particolare interesse a rafforzare i loro legami economico-politici con la Cina. L’integrazione fu graduale: inizialmente Buddha e bodhisattva erano venerati come kami da pacificare (i kami sono le divinità dello shintoismo, la religione autoctona giapponese). Poi gli hijiri e gli ubasoku (figure carismatiche della religiosità giapponese) cominciano ad abbinare le idee dello shintoismo con taoismo e buddhismo. Con Shotoku Taishi si stabilisce un legame forte tra potere temporale e spirituale, al suo tempo furono emanate leggi per i monasteri (Soniryo) e istituiti templi nazionali. Nel periodo medievale nascono ijinguji (santuari-templi) che hanno lo scopo di proteggere lo stato; inoltre vi sono i primi riti combinatori. I kami sono inizialmente visti come inferiori ai buddha poiché li si considera ancora imprigionati nel ciclo delle rinascite. Successivamente essi diventano protettori del Dharma, infine vengono considerati come manifestazioni di buddha e bodhisattva (a partire da Hachiman, considerata ipostasi dello Yakushi Nyorai).
Inizialmente la statua di Buddha è al centro delle liturgie e si crede possieda poteri guaritori e magici. Siccome però le immagini suscitano eccessivo coinvolgimento emotivo, si passa ad una codificazione dei simboli dell’iconografia sacra (es. mudra, il loto, la ruota del Dharma). Il Buddha è rappresentato in forma umana per ricordare che in tutti gli umani è presente la sua natura divina, perché assoluto e relativo sono legati da una profonda identità. L’iconografia buddhista fu usata anche per rappresentare i kami. Lo stupa (costruzione buddhista che conserva le reliquie del Buddha) è un’astrazione del corpo di Buddha e da esso deriva la pagoda, che in Giappone funge da reliquiario. Shotoku Taishi è un reggente considerato come “sovrano fondatore buddhista”. Fa coesistere armonicamente taoismo, buddhismo e confucianesimo, come si può notare nella sua Costituzione dei 17 articoli che consiste in un suggerimento di leggi morali da seguire, tra cui ad esempio il venerare i tre tesori del buddhismo, Buddha, Dharma e comunità monastica. Nel suo Sangyoisho commenta tre sutra emblematici: lo Shomangyo è un dialogo tra Buddha e una regina, esalta i princìpi del Mahayana (scuola buddhista del Grande Veicolo) ed è un espediente per magnificare Suiko; il Yuimagyo parla del concetto della vacuità e della possibilità di salvezza anche per i laici (è la storia di un mercante ricco che raggiunge l’illuminazione) e infine lo Hokkekyo afferma che l’illuminazione può essere raggiunta da tutti e in questa vita, perché in tutti è presente la luce divina.
Le scuole buddhiste del periodo Nara (710-794) sono:
- KUSHA SHU: nel VII secolo il monaco Dosho la importa dalla Cina. Unica scuola Hinayana (scuola buddhista del Piccolo Veicolo) in Giappone, basa i suoi trattati sull’Abhidharma kosa, concentrandosi sul percorso verso il risveglio e sui Dharma come costituenti fondamentali dell’esistenza. Approfondisce le Quattro nobili verità. La scuola Kusha sostiene la teoria della vacuità del sé e vede le forme dell’esistenza come aggregati sostanziali di Dharma, i costituenti fondamentali dell’esistenza. Secondo la scuola, tutto è un aggregato composto di qualcosa di sensibile, sensazioni, idee, predisposizioni e coscienza. Per effetto del Karman, come ogni vita è conseguente a quella precedente; allo stesso modo, ogni aggregato sarà conseguente a quello passato. La teoria della sostanzialità del Dharma però non riesce a spiegare i processi psichici, per questo motivo fu oggetto di critiche.
- JOJITSU: in Cina si sviluppa nel V secolo, ma perde presto il suo vigore e la sua popolarità. In Giappone è associata alla Sanron, ed è a metà fra Hinayana e Mahayana. Basata sul Jojitsu ron (trattato della Realtà Realizzata), respinge la teoria della sostanzialità del Dharma, sostenendo la vacuità dell’io e dei componenti dell’esistenza e mettendo in luce gli effetti concatenati tra azione, intenzione ed effetti karmici. Secondo la dottrina della produzione condizionata, che segue un ragionamento di causa-effetto, la causa ultima del dolore è l’ignoranza. La scuola sostiene l’esistenza di una verità assoluta che non coincide con quella relativa, la vacuità dei fenomeni e promuove il distacco dall’io. Indaga la verità delle cose e cerca di definirle. Inoltre propone un percorso di meditazione e di progressiva conoscenza per liberarsi dall’ignoranza ed accedere al nirvana.
- SANRON: rifiutando ogni dualismo, sostiene la vacuità dell’io e di tutto il reale. Tutto è illusione e falso. Sostiene inoltre che vi siano due livelli di verità: la zokutai (verità relativa, il mondo come appare) e la shintai (verità assoluta, il vuoto, che è ineffabile). Poiché ogni concetto cade, si può solo procedere per negazione: la negazione crea il vuoto, l’unica dimensione possibile che trascende essere e non essere. Questa scuola sostiene che non si possa affermare niente, solo negare le altre teorie, sostenendo che l’unica via per la liberazione è la comprensione dell’illusorietà dei fenomeni, che sono vuoti. Essa vede nella meditazione il mezzo privilegiato per l’ascesi, poiché più diretto rispetto all’insegnamento ricevuto dai maestri.
- HOSSO: giunge in Giappone grazie al monaco Genjo, che traduce il Joyushikiron, nel quale è contenuta la teoria che la realtà è una proiezione della mente umana. La realtà non sarebbe altro che una costruzione della nostra psiche che la crea attraverso delle categorie mentali: l’uomo fa esperienza delle sensazioni e queste, confluendo nell’esperienza, vengono contaminate da residui karmici delle vite passate. Bisogna liberarsi dell’illusione di sé per raggiungere lo Shin’nyo (la dimensione della realtà assoluta). Il mezzo privilegiato per arrivare all’illuminazione è lo yoga, utile per invertire la tendenza di guardare al di fuori di sé e rivolgere l’attenzione verso di sé per rimuovere i semi karmici. Solo così la mente smette di produrre illusioni. La scuola viene criticata perché sostiene che non tutti possano raggiungere la salvezza, ad esempio gli issendai, che avevano qualità innate negative che precludevano loro l’illuminazione.
- KEGON KYO: basato sul Sutra della ghirlanda fiorita, sostiene il modello a rete indra sui Dharma per cui ogni aspetto della realtà si riflette e compenetra tutti gli altri. La realtà sarebbe come una rete dove ad ogni nodo vi è una gemma splendente: ogni gemma (Dharma, elemento della realtà) riflette ed è riflesso (influenza ed è influenzato) da tutti gli altri, ma nessuno è d’ostacolo o si frappone agli altri. Solo capendo questo si può raggiungere l’illuminazione. Si tratta di comprendere che tutto è parte di una totalità armonica che converge verso il Buddha supremo, di cui tutti siamo partecipi: in ognuno di noi è infatti presente la natura del Buddha (lo riflettiamo e ne siamo il riflesso). Questa metafora viene apprezzata molto dalla corte perché permette di associare Buddha e l’imperatore, entrambi infatti rappresentano i punti di riferimento nella rete dell’universo nel caso dell’Illuminato e nella società nel caso del sovrano.
- RITSU: arriva in Giappone grazie al monaco cinese Ganjin nel 753. Essa si basa su trattati sulle norme che regolavano le vite dei monaci nei monasteri, ad esempio il Shibunritsu (Le Quattro Regole). In Giappone serve da scuola di formazione e ordinazione dei monaci buddhisti, inoltre gestisce templi e monasteri. Nel periodo Heian (794-1185), sono pochi i templi riconosciuti dallo Stato per svolgere queste funzioni: Todaiji, Toshodaiji, Yakushiji e Kanzeonji. La scuola declina nel tardo Heian, ma si rinnova nel Kamakura.
Cerchiamo di approfondire alcuni concetti partendo dall’inizio. Il buddhismo indiano passa in Cina verso il I secolo d. C. In India si parlava in sanscrito di dhyāna, che vuol dire “meditazione”, reso foneticamente (ma non tradotto) in cinese come channa, poi la –na cade e si forma la parola chan, “meditazione”. In giapponese questa parola viene resa foneticamente con Zen, sempre con lo stesso significato. Nel buddhismo Chan e nel buddhismo Zen la pratica della meditazione era fondamentale, quindi tali scuole presero questi nomi. Lo Zen deriva dal buddhismo Chan, che era dominante nella Cina di allora. Certamente il buddhismo indiano si è trasformato andando in Cina, e quello cinese a sua volta è cambiato entrando in Giappone per adattarsi alla cultura giapponese medioevale. Lo Zen giapponese ha prodotto una grandissima cultura a partire dal XV secolo in avanti, la quale però affonda le radici in quella cinese. In genere le idee buddhiste si trasformano a seconda della civiltà di approdo restando però immutate nei fondamenti indiani. Ci sono infatti dei principi che sono validi in ogni scuola buddhista, ma su queste basi così condivise sono state elaborate versioni diverse e dottrine molto diverse. Quando parliamo di buddhismo dovremmo specificare la scuola perché esistono buddhismi molto diversi. Gli stessi tre Veicoli (Hinayana, Mahayana, Vajrayana) hanno all’interno di ognuno di essi scuole eterogenie. Il buddhismo Zen affonda le sue radici nel Veicolo Mahayana. Entro questo, in Cina, si forma la scuola Chan nel periodo Tang (600-900 ca), segue il buddhismo del periodo Song (900-1100 ca), e in questo modo passa in Giappone dove si forma lo Zen.
Si suppone che dai primi maestri si è trasmesso lo stesso identico insegnamento attraverso il Lignaggio, cioè il passaggio della stessa mente da maestro a maestro, cioè dal primo fino ad oggi. Ogni scuola esalta il Lignaggio, la discendenza. Ma storicamente ogni Lignaggio va preso con cautela: molte volte è stato ricostruito; non solo, ma ogni scuola altera gli insegnamenti precedenti adattandoli ai nuovi contesti storici e culturali. Molte scuole inoltre se li sono inventati di sana pianta (sono del tutto mitici). Il buddhismo nasce nell’India del nord e si estende verso est, prima in Cina, poi in Corea e finalmente in Giappone. Per giungere in Giappone impiega quindi 1000 anni. Il buddhismo giapponese è particolarmente importante perché costituisce la continuazione delle antiche scuole cinesi.
Il Lignaggio cinese è questo:
- Bodhidharma: monaco indiano che giunge in Cina portando gli insegnamenti
- Sengchan
- Daoxin
- Hongren
- Huineng: è il capostipite della Scuola Meridionale, da cui si formano i grandi filoni del Chan e dello Zen. Egli trasmette a tre grandi discepoli, Shenhui (la cui scuola, quindi il cui Lignaggio, si esaurisce presto), Nanyue e Qingyuan.
Da Nanyue si formano dei maestri (Mazu e Linji in epoca Tang; quindi Dahui in epoca Song) che danno origine in Giappone alla Scuola Rinzai, una delle più grandi scuole del buddhismo Zen: cioè Dahui trasmette in Giappone a Eisai, che fonda la Scuola Rinzai. Invece da Qingyuan originano nell’epoca Tang Shitou e Caoshan/Dongshan, mentre in epoca Song Hongzhi, il quale darà origine in Giappone a Dogen, il quale darà origine alla Scuola Soto, l’altra grande scuola dello Zen. Il buddhismo giunge in Cina in epoca Han nella forma Mahayana e trova il confucianesimo e il taoismo, le grandi tradizioni cinesi, molto diverse tra di loro: il primo attento ai legami familiari, all’armonia sociale e alla natura morale dell’uomo, teso ad avere una mente controllata, invece il taoismo disposto alla mente e al comportamento che devono essere mantenuti liberi, quindi puri e scevri da elementi negativi. In alcune scuole buddhiste soprattutto del periodo Tang il confucianesimo ha importanza perché il buddhismo inizia ad interessarsi della natura morale dell’uomo, che deve avere una mente controllata. Il taoismo si fonda sull’amore per la natura e la naturalezza, ha antipatia per l’ordine e le consuetudini sociali. Quindi confucianesimo e taoismo sono i due poli opposti del pensiero cinese. Il taoismo ha molti mistici e guaritori, il confucianesimo ha molto uomini di governo. Per il taoismo il Tao è la via per entrare in sintonia con la natura e le sue leggi, in base alle quali la mente deve essere libera e naturale, al contrario del rigido controllo esercitato dal confucianesimo. Ma entrambi gli aspetti possono ravvisarsi nelle varie scuole del Chan cinese.
Nei primi tempi il buddhismo in Cina ha una sfumatura molto taoista: il Tao diviene la Via buddhista. Pertanto il buddhismo Chan insegna all’inizio l’acquietamento della mente, una vita ritirata e semplice, lontana dalle mondanità. Questo tema dell’acquietamento della mente è un filo conduttore di tutta la riflessione buddhista Chan dei primordi. Per esempio in un testo del maestro cinese Zhiyi (in giapponese Chigi), denominato in giapponese Tendai shoshikan, è scritto: “Quando il corpo è nella quiete la Via sorge, sapendo controllare la quantità di cibo e bevande si è sempre nella gioia e in pace, acquietando la mente ci si rallegra di seguire il perfezionamento spirituale”.
Si dice che Bodhidharma, che ha fondato il Chan, abbia elaborato i quattro principi del Chan (ripresi totalmente dallo Zen):
- Un insegnamento non dipendente dai testi (di solito ogni scuola fa riferimento a un testo autorevole, cui si fonda: ma il Chan e lo Zen sono indipendenti dai testi in quanto la parola non è affidabile per ottenere la liberazione)
- Si tratta di una trasmissione speciale al di fuori della dottrina, “da mente a mente” (Lignaggio): ishin denshin
- Che mira direttamente al cuore-mente dell’uomo (da maestro a discepolo)
- E che ha come obiettivo di vedere la propria mente come è veramente e di raggiungere la liberazione.
In epoca Tang il buddhismo è libero e creativo (è il periodo d’oro), mentre nel periodo Song si istituzionalizza e diventa una scuola molto formale. Nel periodo Tang il Chan si divide in cinque scuole proprio perché è scevro da rigidità istituzionali:
- Scuola settentrionale (Shenxiu)
- Scuola della Testa di Bue
- Scuola Meridionale di Mazu
- Scuola Meridionale di Shitou
- Scuola Meridionale di Heze Shenhui, capostipite della corrente Heze.
La Scuola Meridionale di Mazu e la Scuola Meridionale di Shitou sono le più importanti e quindi sono quelle che vengono trasmesse in Giappone. Tutte e cinque le scuole che abbiamo nominato si occupano principalmente del problema della mente. Si tratta di una riflessione che abbraccia tutto il percorso dallo Chan allo Zen. La Mente (in cinese Shen, in giapponese Kokoro) nel buddhismo non coincide con la nostra, ma è il cuore-mente, cioè intelletto, emozioni e sentimenti, volontà e intenzione. Quando diciamo “io sono la mia mente” abbiamo una visione distorta della realtà perché guardiamo la realtà da una prospettiva egocentrica: la illuminazione (nirvāṇa) consiste nell’abbandonare la mente illusoria e nell’accedere alla mente originaria. Lo scopo del buddhismo è identificare i meccanismi perversi della mente illusoria (quindi di conoscere la propria mente) e di smontarli per avere accesso alla vera mente. Proprio questo è l’insegnamento base del Chan e dello Zen. L’illuminazione consiste nel vedere la nostra vera natura al di là dell’illusione che ci dà il nostro io. Un principio cardine di tutto il buddhismo di ogni tempo è che l’io come tale non esiste (anatta), lo facciamo esistere in modo illusorio artificialmente: lo scopo del buddhismo è quello di liberarsi dal proprio io, solo allora percepiamo la realtà circostante per ciò che è e non filtrata in modo egocentrico. Cosa è questa mente originaria? Tollini ha tradotto testi Chan che si occupano di definire cosa sia la vera mente. La pratica Chan e Zen ha l’obiettivo di giungere o alla sostituzione della mente illusoria con quella vera o comunque a lasciar cadere la mente.
Senza la mente non c’è il Buddha. Il Buddha viene dalla mente e la mente può far sorgere il Buddha. È la mente che crea la realtà (tesi fondamentale del Mahayana). Quando non ci sono illusioni la mente è la terra del Buddha, altrimenti c’è l’inferno. I fenomeni esistono solo se c’è la mente. Il fenomeno è condizionato dalla nostra mente. La vera mente invece non ha alcuno aspetto, quindi non può essere definita né afferrata. Non esiste un oggetto che può essere definito la vera mente. Se si estingue la mente illusoria, emerge la vera mente. La mente illusoria si basa sulla discriminazione tra bene e male. Per accedere alla vera mente si deve abbandonare ogni dualismo e ogni discriminazione tra opposti. In quanto è il proprio io che discrimina tra poli opposti.
La Scuola settentrionale insegna che la pratica serve a scacciare i pensieri impuri, quindi la pratica deve mantenere la mente pura. La Scuola di Mazu e Linji inventa la pratica del wato, cioè la concentrazione sulla parola/frase critica: una pratica che si può effettuare sempre riflettendo su una parola o una frase (gong-an in cinese, koan nello Zen). Quando si riflette su una frase pregnante e la mente illusoria non riesce a sviscerarla, avviene improvvisamente la illuminazione. La parola viene pensata sempre e in questo modo la parola lavora da sola, avendo alla fine un effetto dirompente. Nel periodo Tank queste brevi parole erano poco sistematizzate, erano perlopiù spontanee, invece nel periodo Song vengono classificate e proposte in modo sistematico dai maestri agli allievi. Dahui propone un approccio sistematico scegliendo solamente alcune tra le parole disponibili. A forza di meditare sul detto celebre, scrive Dahui, l’illuminazione giunge spontaneamente come quando la luna si riflette sull’acqua (tipica immagine Chan e Zen). Però nella storia queste parole sono state usate dai maestri anche in altre maniere commentate come testi letterari del passato con aggiunta altresì di poesie. Un uso conseguenza dell’influenza dei letterati cinesi, che hanno un grande potere, in quanto sono classe sociale elevata, cui appartengono sia i funzionari statali sia l’alto clero buddhista. A questo uso Dahui si oppone fortemente in quanto non utile alla illuminazione. Egli introduce la pratica del kan-hua, concentrazione sull’hua tou, “la testa della parola”: non più commento letterario e aggiunta di poesie ma meditazione fino a quando la testa sembra andare in fiamme. Nei grandi templi Rinzai giapponesi l’attività non è quella di raggiungere l’illuminazione ma fare cultura, quindi questi riprendono l’atteggiamento dei letterati cinesi verso questi detti celebri, commentando in cinese e scrivendo pure poesie in cinese ad imitazione dei grandi maestri del passato. Dahui tuttavia lancia forti critiche alla meditazione silenziosa, fatta appartati nei boschi. Quindi nel periodo Song la pratica più importante è la meditazione sui detti celebri (koan), per Dahui l’unica via per ottenere l’illuminazione.
Contro l’insegnamento di Dahui si sta affacciando in qualche modo la Scuola Soto con Hongzhi (detta ancora Caodong), attaccata ferocemente da Dahui. Quest’ultimo propone una pratica aggressiva nella meditazione del koan, sfondando con le armi della mente il velo dell’illusione, pensando fino allo stremo. Invece la Scuola Caodong propone una pratica passiva, di acquietamento della mente.
Dahui etichetta i maestri che si rifanno alla pratica passiva come “eretici”: egli scrive che questi praticanti si limitano a sedersi su una grotta spettrale dopo i loro pasti, si siedono lì fino a quando non compaiono i calli sul sedere ma nemmeno allora osano muoversi, ma a suo parere questa pratica porta alla sonnolenza, alla ottusità e alla intellettualizzazione anziché alla illuminazione. È questa paura per la superficialità e la intellettualizzazione dei vecchi koan che lo spinge a bruciare tutte le copie del capolavoro del suo vecchio maestro, il Blue Cliff Record (famosissima raccolta di koan), per salvare il Chan e autenticare la corretta pratica del koan.
Dahui considera più potente la meditazione dei koan se fatta in posizione seduta. Facciamo chiarezza. Le due pratiche più importanti del Chan cinese e quindi dello Zen giapponese sono: lo zazen (meditazione silenziosa) e il koan. La Rinzai le ha entrambe, quindi come si relazionano tra di loro? Durante la meditazione silenziosa si dovrebbe continuare la pratica della meditazione affannosa e violenta sul koan. Ma ci sono molti modi per meditare da seduti sul koan. Quindi lo Chan di Dahui è un nuovo tipo di Chan, basato sulla illuminazione silenziosa, mediante la quale una mente controlla l’altra mente. Questa meditazione silenziosa si differenzia da quella della Scuola Caodong in quanto non passiva ma aggressiva.
Nella visione di Dahui l’illuminazione è improvvisa e scatenante, che cambia la mente del praticante. È un preciso momento, una meta che si raggiunge in un certo momento, è un evento di rottura drastica con la mente di prima. A quel punto l’illuminazione è uno stato stabile. Ma non per tutti è così. In altre scuole, come la Soto, l’illuminazione non è improvvisa ma un evento che matura nel tempo. Ma dire che la Scuola Rinzai è solo per la prima, invece la Scuola Soto solo per la seconda, è una semplificazione. Dahui polemizza molto con Hongzhi, grande esponente della Scuola Caodong nel periodo Song. Questi due grandi personaggi e grandi rivali sono contemporanei. Anche se Hongzhi non replica mai a Dahui. Per Hongzhi la pratica zazen (meditazione silenziosa) consiste solo nel sedersi in un certo modo: così l’illuminazione si manifesta da sola, cioè senza meditare con energia sui koan, vale a dire l’illuminazione si manifesta mediante una pratica passiva. Questo perché, una volta seduti in meditazione tranquilla, si opera in armonia con la nostra vera natura di Buddha. La natura di Buddha è un concetto molto antico, risale al buddhismo indiano, si allaccia al concetto della Coscienza Deposito. Nel Sutra del Loto, considerato il grande sutra del buddhismo di tutti i tempi, si dice che tutti gli esseri senzienti hanno la natura di Buddha. Vuol dire che essa è la potenzialità in nuce per diventare un Buddha, cioè un illuminato, mediante la pratica. Siamo potenzialmente tutti dei Buddha perché abbia la natura del Buddha, se facciamo la giusta pratica. Essa è lo scopo della pratica. Anche Dogen parlerà della pratica in relazione alla natura di Buddha.
L’illuminazione originaria è un problema fondamentale. L’illuminazione viene dall’esterno (che conquistiamo ex novo) o è qualcosa che abbiamo già entro di noi (mediante la natura di Buddha)? Lo Chan e lo Zen ritengono che gli esseri senzienti sono illuminati originariamente, ma a causa di tante vicissitudini abbandonano lo stato di illuminazione per andare nello stato dell’illusione, ma è possibile tornare al proprio stato originario, riallacciandoci alla natura di Buddha mediante la pratica. Lo zazen della Scuola Caodong si fonda sulla illuminazione originaria: se stiamo seduti in tranquillità, lasciando cadere ogni pensiero, cadrà anche l’illusione ed emergerà la nostra natura originaria di Buddha. Quindi l’approccio di Hongzhi (zazen) è un approccio passivo, mentre quello del koan di Dahui è un approccio volitivo, aggressivo: lottando con la forza della mente, nel meditare sul koan, scacciamo volitivamente l’illusione, pur stando con il corpo in quiete e in silenzio.
I maestri che sono stati attivi nella diffusione dello Zen in Giappone si possono dividere in tre categorie:
- I maestri giapponesi che non sono andati in Cina
- I maestri giapponesi che sono andati in Cina
- I maestri cinesi che sono giunti in Giappone.
Le grandi scuole buddhiste tradizionali, che detengono il potere religioso, dapprima si oppongono alla diffusione dello Zen in Giappone per non perdere il potere, collegato a quello statale. Come fa, per esempio, la Scuola Tendai, versione giapponese della Scuola cinese Tiantai. Il buddhismo Tendai integra insegnamenti di altre scuole, come quelli del Chan e alcune dottrine esoteriche (mikkyo). Lo Zen quindi fa molto fatica per espandersi e trovare la sua collocazione in Giappone. Lo Zen inizia a estendersi solo dall’inizio del XIV secolo, divenendo pertanto una scuola ben radicata dal notevole prestigio.
I monaci Tendai bruciano addirittura lo stabilimento di Dogen, il quale va altrove. Ma il Zen trova comunque il modo per inserirsi, da una parte per motivi religiosi, dall’altra per motivi socio-politici. La scuola Rinzai di Eisai (1141-1215) trova la sua collocazione appoggiandosi al nuovo regime dei guerrieri (bushi), che cercano una religione in contrasto con le scuole tradizionali che appoggiano il potere aristocratico della capitale. I Rinzai instaurano un rapporto molto stretto con i bushi, i quali quindi grazie allo Zen diventano una classe acculturata (prima erano guerrieri abbastanza rozzi). La grande cultura Zen dal XV secolo in poi si fonda non solamente sui monaci ma anche sui bushi. Il loro legame si intensifica moltissimo e con un reciproco vantaggio: da una parte lo shogunato protegge la Scuola Rinzai, la sovvenziona, dall’altra parte i monaci Rinzai forniscono consiglieri, ambasciatori per la Cina, insomma entrano anche nella sfera politica e pure in quella commerciale.
La Scuola Soto arriva poco dopo in Giappone: le scuole tradizionali la osteggiano, mentre la Scuola Rinzai si sta affermando con l’appoggio dei bushi. La Soto è all’inizio un insegnamento di elite, si rivolge a poche persone in quanto Dogen (1200-1253) ha molte difficoltà a inserirsi. Non avendo le capacità diplomatiche dei maestri Rinzai, decide di relegarsi volontariamente in una zona impervia del nord del Giappone, dove un signorotto locale suo seguace gli concede un appezzamento di terra per costruire un tempio, nel quale si ritira lontano dalla mondanità con alcuni allievi fedelissimi, dedicandosi a insegnare e a scrivere. Solo in seguito sono alcuni suoi discepoli che danno alla Scuola Soto il grande prestigio che di cui gode ancora oggi. Questi successori, che non sono persone rigide come Dogen – il quale accoglie in pieno il consiglio di un suo maestro di dedicarsi all’insegnamento rivolto solo a pochi prescelti – si pongono il problema di continuare l’esperienza di Dogen e quindi di rifondare la Scuola Soto, questa volta rivolta ad un uditorio più vasto.
Keizan capisce che, se vuole far diffondere la scuola, non deve puntare sull’appoggio dei guerrieri, avvicinati già dalla Scuola Rinzai, ma deve puntare sulle campagne. Rispetto alla classe dei bushi e dell’aristocrazia, la gente che vive in campagna è molto più numerosa. Per questo la Scuola Soto è molto meno legata al potere, diffondendosi in periferia. Keizan e i suoi successori rifondano la Soto come la religione dei contadini, ma per fare questo devono cambiare radicalmente rispetto all’atteggiamento di Dogen, che è stato profondo e sofisticato. I contadini, infatti, non sono in grado di studiare il testo più importante di Dogen, lo Shobogenzo, molto profondo, quindi pubblicato solo molto tardi, nei primi dell’Ottocento (prima è confinato nei templi della Scuola Soto). I contadini hanno bisogno: di un insegnamento semplice, di essere guidati da monaci più colti di loro e di alcuni servizi. Quindi la Scuola Soto istruisce i loro bambini nei templi riguardo alle tecniche contadine più avanzate, alla costruzione dei ponti, alla gestione delle risaie: i monaci Soto impartiscono questi insegnamenti rifacendosi ai testi avanzati provenienti dalla Cina. Non solo, ma la Scuola Soto si mette a disposizione altresì relativamente ai riti funebri, servizio per il quale è rinomata ancora oggi. Inoltre, quei contadini hanno una serie di riti, rituali e credenze che provengono dallo scintoismo, a cui difficilmente rinunciano: allora la Scuola Soto fa suoi molti di questi elementi in un interessante sincretismo.
Per questi motivi la Scuola Soto diventa molto popolare, così come lo è tuttora. Dal XIV scolo è avvenuto un intensificarsi massiccio di templi nelle campagne. Ma la popolazione rurale di allora non pratica ancora lo Zen (né zazen né koan), e anche i monaci scarsamente fanno la pratica: semplicemente, i monaci sono impegnati nei vari servizi e la popolazione ne beneficia.
L’uomo cerca da sempre di trascendere sé stesso (Pascal) e va alla ricerca di quel Principio trascendente dal quale proviene e al quale dovrà ritornare. Secondo alcune interpretazioni, il buddhismo non è agli antipodi dell’induismo e quindi non esclude il Principio, il Brahman degli induisti, semplicemente lo suppone senza nominarlo esplicitamente.
Il buddhismo ha espresso nella sua storia, in seno alle innumerevoli scuole esistenti o scomparse, tutte le filosofie che esistono sulla faccia o sono state, in poche parole ha detto tutto e il contrario di tutto. Alcune scuole parlano del fatto che tutta la realtà sia la stessa cosa, cioè che la molteplicità sia una illusione, tutto è Uno. È una dottrina affine a quella induista dell’ātman, il Sé, che coincide con il Brahman: è la Unità primigenia che fa sì che tutti gli esseri, al di là delle apparenze della molteplicità, siano la stessa cosa tra di loro e con il Divino. Il buddhismo, da parte sua, parla del Tathāgata, per cui ogni essere è il Buddha, siamo tutti degli illuminati, non c’è bisogno di evolverci, siamo tutti già perfettamente risvegliati, anche se non ne abbiamo consapevolezza. Come una luce coperta da un velo, da esso passa della luce ma la fiamma non risplende pienamente.
È una dottrina che ha qualche affinità con quella buddhista chiamata dagli studiosi (non dalle scuole buddhiste) Teoria del Modello dello Sviluppo. Essa è presente ad esempio nella tradizione detta Kalachakra, la Ruota del Tempo, i cui primi testi sono redatti nell’anno Mille, per la quale la natura del Buddha non è già compiuta dentro di noi, ma è paragonabile ad un seme che deve svilupparsi in albero: dobbiamo sviluppare questa potenzialità con la pratica.
In verità la realtà è vuota, è interconnessa, non ci sono divisioni, però ciò che deve svilupparsi è diventare consapevoli della nostra natura non frammentata. Scoprire la verità significa capire che noi siamo parte del Tutto. Siamo il Tutto, ma non lo sappiamo. Il vuoto di cui parlano alcune scuole buddhiste è certamente il nulla, ma, dalla voce di altre, il vuoto è anche il Tutto nel quale tutti gli esseri sono immersi, per lo più senza saperlo. Sebbene sia vuoto, è anche pieno di tutti gli esseri. Non c’è nulla che possa essere sottratto e nulla che possa essere aggiunto. Colui che così vede la realtà si libera. In un testo della tradizione Kalachatra si trova scritto: “Nel cielo puro dove la moltitudine di nuvole che coprono ogni cosa, è scomparsa, dove il vento delle costruzioni concettuali (vi-kalpa: il termine sanscrito vi significa anche “uccello”, kalpa vuole dire anche “simile”, quindi nel sanscrito buddhista vi-kalpa vuole dire sia “costruzione concettuale” sia etimologicamente “simile a un uccello”, indicando allora qualcosa di volatile) è del tutto dissolto, una bella luce, il Signore del Mondo (Buddha), che è anche luna piena, è sotto e risplende”.
Il buddhista Nagarjuna ne Il cammino di mezzo (Madhyamakakārikā XXIV) sostiene che esistono due verità: quella relativa (quella del mondo, della molteplicità) e la verità assoluta (che rimanda all’Unità primordiale di tutto). Poco prima qualcuno gli ha obiettato in qualche modo: Come puoi essere buddhista se rinunci alla molteplicità? Vale a dire alla dottrina degli aggregati, della forma, del colore, delle sensazioni, e altro, insomma anche alle Quattro Nobili Verità (l’espressione si può tradurre anche le Quattro Verità dei Nobili), le quali sono predicate sin dall’inizio dai buddhisti, a cominciare dal Buddha storico. Quindi Nagarjuna dice che per giungere alla verità assoluta, per cui tutto è uguale a sé stesso, bisogna appoggiarsi sulla verità del molteplice, cioè sulla verità relativa. “La realtà assoluta non può essere insegnata senza appoggiarsi sull’ordine pratico delle cose”, che nell’originale sanscrito suona: vyavahāram anāśritya paramārtho na deśyate. La verità assoluta male intesa manda in rovina. Per questo il Buddha non insegna la verità assoluta, per paura di essere frainteso, continua Nagarjuna. Sulla base delle biografie il Buddha, subito dopo il risveglio, esita a insegnare per paura di non essere capito, poi sarà spinto dalle divinità a dire qualcosa: esse però lo avvertono che solo pochissimi capiranno, la maggioranza non intenderà rettamente.
Nelle vicende della vita l’uomo sente di non poter bastare a sé stesso. Secondo la nota espressione di Merton, l’uomo non è un’isola. Cerca sempre di aggregarsi con gli altri uomini per sopravvivere.
Ma cerca anche di avere un aiuto anche dal mondo divino. La fede nelle divinità aiuta a sopportare la paura della morte e la solitudine, forse a volte le religioni nascono proprio per superare il dramma della morte, per Eliade questo avverrebbe sempre. In ebraico “aiuto” è detto ‘ezrah e ha qualche connessione con la parola ‘azarah, “cortile del santuario”. Salmo 20, 3: “Ti manderà l’aiuto dal Luogo Santo”, Mikkodesh”. L’uomo ha sia una spinta che lo porta a cercare l’aiuto al di fuori di sé (negli altri, nelle divinità) sia una spinta a essere autonomo. La filosofia scolastica chiamava queste due tendenze: esse ad (verso l’esterno) e esse in (verso l’interno). In ebraico “indipendenza” è detta ‘atzmaut, parola che è collegata con “essenza”, ‘atzmut, e con “osso”, ‘etzem, considerato la struttura essenziale della nostra vitalità. Come a dire che la nostra autonomia è la condizione imprescindibile per essere veramente noi stessi.
Ma, come a chiudere un cerchio, la vera autonomia sta nello scoprirsi dipendenti da un Principio assoluto. I santi insegnano che fare la volontà di Dio significa scoprire la vera libertà. Perché noi siamo scintille che navigano inconsapevolmente in un mare di fuoco più vasto. Siamo parte di Dio, anche se lo ignoriamo. Quindi quando scopriamo di essere parte di una vita più grande, troviamo la vera pace.
Nei testi buddhisti si insegna che, se noi ci scopriamo veramente uomini, ci scopriamo molteplici, ci scopriamo immersi nel mondo dei fenomeni, allora possiamo avanzare lungo la via che conduce all’unità. Nel Dhammapada, il più conosciuto testo del buddhismo Theravada, è scritto che l’ombra segue la ruota del carro. Solo se viviamo fino in fondo la nostra dualità possiamo elevarci e raggiungere l’unità. Se il due diventa campo di pratica, da esso può sorgere una tensione verso l’unità. La versione sbagliata dell’uno è quella per cui esiste solo l’uno. Quella vera è che, accogliendo l’esperienza del due, della separazione, della molteplicità, possiamo innalzarci e ricomporre l’uno. Dal frammento all’unità. Nagarjuna dice esplicitamente che l’unità si basa sulla dualità. Ma questa unità da raggiungere non è qualcosa di statico, di concettuale, di mentale, ma una esperienza da vivere giorno dopo giorno. L’unità è la massima realizzazione della vita, nulla ha a che fare con un concetto statico, una idea, una visione del mondo.
In ogni religione ci sono santi che fanno miracoli. Il divino è presente in ogni civiltà umana. E l’anima dell’uomo, nelle varie religioni, diviene segno dell’amore che le divinità hanno verso di noi. Quasi tutte le religioni esaltano la preghiera e la meditazione. Nel cristianesimo si dà una grande attenzione alla preghiera di intercessione, specie se è comunitaria. Barbara Shlemon è una infermiera statunitense che ha imparato a pregare sui malati del suo reparto. È una fervente sostenitrice della preghiera di gruppo, soprattutto liturgica, da quando ne ha visto l’efficacia in prima persona. Aveva una paziente in fin di vita, in coma. I medici dicevano che doveva morire la notte stessa. Barbara chiamò il parroco che conferì alla donna in coma l’Unzione degli Infermi. Ma dopo poche ore dal sacramento la morente si alzò sul letto e si mise a mangiare. Barbara fu molto stupita dall’efficacia della preghiera liturgica e da allora in poi cominciò a pregare sui malati, ottenendo risultati incredibili. Il 22 febbraio del 1931 la suora Faustina Kowalska vide nella sua cella il Signore Gesù, la quale la invitava a diffondere nel mondo il culto alla Divina Misericordia mediante la esposizione e la venerazione dell’immagine di Gesù Misericordioso e la recita della Coroncina alla Divina Misericordia. Dal diario di questa santa suora abbiamo le promesse fatte da Cristo:
- Concederò grazie senza numero a chi reciterà questa corona. Se recitata accanto a un morente non sarò giusto giudice ma Salvatore
- Io do all’umanità un vaso col quale potrà andare ad attingere le grazie alla sorgente della Misericordia: questo vaso è l’immagine con questa iscrizione: “Gesù, io confido in Te!”
- Questa immagine deve continuamente ricordare alla povera umanità l’infinita Misericordia di Dio. Chiunque avrà esposta ed onorata, nella sua casa, la Mia Divina Effigie sarà preservato dal castigo
- Come gli antichi Ebrei che avevano segnato le loro case con la croce fatta col sangue dell’agnello pasquale furono risparmiati dall’Angelo Sterminatore, così sarà in quei tristi momenti per coloro che mi avranno onorato esponendo la mia immagine
- Quanto più grande è la miseria degli uomini, tanto maggior diritto hanno alla Mia Misericordia, perché desidero salvarli tutti. Scrivi che prima di venire come Giudice, spalancherò tutta la grande porta della Mia Misericordia. Chi non vuol passare da questa porta, dovrà passare per quella della Mia Giustizia. La sorgente della Mia Misericordia è stata aperta dal colpo di lancia sulla Croce, per tutte le Anime. Non ne ho esclusa nessuna. L’umanità non troverà né tranquillità né pace finché non si rivolgerà alla Mia Misericordia. Dì all’umanità sofferente che si rifugi nel Mio Cuore Misericordioso, ed Io la ricolmerò di pace
- Il raggio pallido rappresenta l’Acqua che giustifica le anime; il raggio rosso rappresenta il Sangue che è la vita delle anime. Beato colui che vivrà alla loro ombra
- Desidero che la prima domenica dopo Pasqua sia la Festa della Mia Misericordia. Figlia Mia, parla a tutto il mondo della Mia incommensurabile Misericordia! L’Anima che in quel giorno si sarà confessata e comunicata, otterrà piena remissione di colpe e castighi. Desidero che questa Festa si celebri solennemente in tutta la Chiesa.
Inoltre la spiritualità cattolica riconosce nel Santo Rosario alla Beata Vergine Maria una potentissima arma contro la malvagità e le insidie dei diavoli. Ecco le promesse date da Maria Santissima in relazione a questa santa preghiera, che San Pio da Pietralcina definiva l’Arma contro gli assalti nel Nemico:
- Chi recita con grande fede il Rosario riceverà grazie speciali
- Prometto la mia protezione e le grazie più grandi a chi reciterà il Rosario
- Il Rosario è un’arma potente contro l’inferno, distruggerà i vizi, libererà dal peccato e ci difenderà dalle eresie
- Farà fiorire le virtù e le buone opere e otterrà alle anime le più abbondanti misericordie divine; sostituirà nei cuori l’amore di Dio all’amore del mondo, elevandoli al desiderio dei beni celesti ed eterni. Quante anime si santificheranno con questo mezzo!
- Colui che si affida a me con il Rosario non perirà
- Colui che reciterà devotamente il mio Rosario, meditando i suoi misteri, non sarà oppresso dalla disgrazia. Peccatore, si convertirà; giusto, crescerà in grazia e diverrà degno della vita eterna
- I veri devoti del mio Rosario non moriranno senza i Sacramenti della Chiesa
- Coloro che recitano il mio Rosario troveranno durante la loro vita e alla loro morte la luce di Dio, la pienezza delle sue grazie e parteciperanno dei meriti dei beati
- Libererò molto prontamente dal purgatorio le anime devote del mio Rosario
- I veri figli del mio Rosario godranno di una grande gloria in cielo
- Quello che chiederete con il mio Rosario, lo otterrete
- Coloro che diffonderanno il mio Rosario saranno soccorsi da me in tutte le loro necessità
- Io ho ottenuto da mio Figlio che tutti i membri della Confraternita del Rosario abbiano per fratelli durante la vita e nell’ora della morte i santi del cielo
- Coloro che recitano fedelmente il mio Rosario sono tutti miei figli amatissimi, fratelli e sorelle di Gesù Cristo
- La devozione al mio Rosario è un grande segno di predestinazione
Ma più di tutti la Santa Eucaristia è lo scrigno delle grazie di Dio per la povera umanità, fonte e culmine della vita cristiana. È la chiave d’oro che ci apre le porte di ogni celeste benedizione. Questo perché, per la fede cattolica, nell’Ostia vi è la presenza reale di Gesù Cristo in corpo, sangue, anima e divinità. Lo stesso Cristo nel capitolo 6 del Vangelo di Giovanni rivela che il pane vivo disceso dal cielo è condizione per ottenere la vita eterna! Solo chi mangia la sua carne e beve il suo sangue può avere la vita eterna! “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?” (1Corinzi 10, 16-17).
Si racconta di un tale che andava sempre a confessarsi da San Vincenzo de’ Paoli, il quale gli consigliava di fare la comunione più di una volta la settimana. Però questo individuo non gradiva tale ordine tanto che decise di cambiare confessore, il quale dapprima gli disse di comunicarsi solo una volta la settimana, poi una volta ogni quindici giorni per prepararsi meglio e infine una volta al mese. Ma il povero disgraziato, non avendo più il sostegno della comunione frequente, cominciò a cadere pesantemente nei peccati fino ad abbandonare la confessione e quindi la fede. Però, riavutosi per grazia celeste da questo torpore spirituale, si recò di nuovo, disperato, da San Vincenzo per essere edificato a ritornare sulla retta via, il quale lo ammonì per non avere seguito il santo consiglio. Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae III, 79): “Tutti gli effetti che il cibo e la bevanda materiali producono nella vita del corpo, cioè sostentamento, sviluppo, riparazione e gusto, li produce anche questo sacramento nella vita spirituale”. Santa Maria da Costa arrivava a dire che Gesù è la soluzione ad ogni nostro problema. Ricevendo la comunione addirittura ci trasformiamo in Cristo. “Ora noi abbiamo il pensiero di Cristo” (1Corinzi 2, 16). Tommaso d’Aquino (Scriptum super Sententiis IV, 12, 2, 1): “L’effetto proprio di questo sacramento è la trasformazione dell’uomo in Cristo”.
Vediamo tutti quanto il male dilaga nel mondo, soprattutto di questi tempi. Non sono solo le calamità naturali, ma anche le azioni malvage dell’uomo, tanto che rivelazioni private dicono che oggi Satana è sciolto dalle catene. San Pio da Pietralcina diceva che Dio continua ad usare misericordia verso l’uomo nonostante il male dilagante perché si celebra ancora la Santa Messa, istituita per il perdono dei peccati. Perché? Paolo rivela che Cristo è “il principio di tutto” (Colossesi 1, 18: in greco arché, termine dalla lunga tradizione filosofica greca), non solo ma Paolo parla anche del disegno divino “di ricapitolare in Cristo tutte le cose” (Efesini 1, 10). L’Apocalisse dirà che Cristo è l’Alfa e l’Omega, cioè il Principio e la Fine.
Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae II-II q83 a2): “Tre furono gli errori dell‘antichità a proposito della preghiera. Alcuni pensarono che le realtà umane non sono governate dalla provvidenza divina. Dal che segue che la preghiera, come qualsiasi culto verso Dio, sarebbe una cosa vana. E contro di essi stanno quelle parole di Malachia (3, 14): ‘Avete affermato: È inutile servire Dio’. – Al secondo posto troviamo l‘opinione di quanti affermavano che tutto avviene per necessità, anche nelle cose umane: sia per l‘immutabilità della provvidenza divina, sia per il determinismo degli astri, sia per la concatenazione delle cause. E anche secondo costoro è da escludersi ogni utilità della preghiera. – Il terzo errore fu l‘opinione di coloro che, pur ammettendo il governo della divina provvidenza sulle cose umane, e pur escludendo che queste avvengano per necessità, affermavano tuttavia che le disposizioni della divina provvidenza sono mutevoli, e che la loro mutazione può dipendere dalle preghiere e dalle altre funzioni del culto divino. – Ora, tutti questi errori noi li abbiamo già confutati in precedenza. Perciò l‘utilità della preghiera va difesa in modo da non imporre una necessità alle cose umane, soggette alla divina provvidenza, e d‘altra parte senza considerare mutevoli le disposizioni divine. Per chiarire dunque la cosa si deve considerare che la divina provvidenza non dispone solo gli effetti da produrre, ma anche le cause e l‘ordine con cui devono essere prodotti. Ora tra le altre cause, per certi effetti, ci sono anche le azioni umane. Quindi è necessario che gli uomini compiano certe cose non per cambiare con i loro atti le disposizioni divine, ma per produrre alcuni determinati effetti secondo l‘ordine prestabilito da Dio. Come del resto avviene per le cause naturali. E ciò vale anche per la preghiera. Infatti noi preghiamo non allo scopo di mutare le disposizioni divine, ma per impetrare quanto Dio ha disposto che venga compiuto mediante la preghiera dei santi: cioè, come dice S. Gregorio, affinché gli uomini ‘pregando meritino di ricevere quanto Dio onnipotente fin dall‘eternità aveva disposto di donare ad essi’ “.
Gesù dice che bisogna pregare incessantemente. La preghiera ci unisce a Dio e permette che, mediante la sua grazia, vinciamo la malvagità e le insidie del demonio. Il battesimo unge il cristiano con l’olio dei combattenti imprimendogli quel carattere che lo predispone alla vittoria. Dionigi l’Areopagita (Ecclesiastica Hierarchia 401 D10): “La sacra operazione dell’unzione divina chiama simbolicamente l’iniziato alle sacre lotte che dovrà fare sotto la guida di Cristo che organizza i combattimenti. Difatti, in quanto Dio, Egli è il creatore della gara, in quanto saggio, ha posto i premi di essa e, in quanto eccellente, ha stabilito tali premi convenienti ai vincitori e, cosa ancor più divina, data la sua bontà, si è messo nei combattimenti insieme con questi, santamente lottando contro il potere della morte e della corruzione … Il cristiano, seguendo le tracce divine di Colui che fu il primo degli atleti, per bontà, respinge con delle lotte a imitazione di Dio stesso le operazioni e le sostanze a lui contrarie per la deificazione”. La grazia di Dio opera miracoli anche nelle condizioni più disperate, e la preghiera è un ottimo mezzo per chiedere a Dio l’aiuto. Negli Atti degli Apostoli, dopo la morte di Cristo, i discepoli si erano dispersi nel mondo, si erano disgregati, ma da questo evento tragico Dio ha saputo trarre il bene permettendo che questi iniziassero a donare il messaggio cristiano anche ai pagani. I discepoli quindi divennero seme del cristianesimo proprio in quei luoghi che non avevano nulla a che fare con la cultura della Palestina.
È molto diffusa la preghiera per chiedere le grazie al Signore, siano esse materiali o meglio spirituali. Ma la più bella preghiera è quella di lode: pregare Dio solo perché Egli esiste e si prende cura di noi, specie se siamo afflitti dalle tribolazioni. In qualche modo, è una sorta di peccato chiedere a Dio qualcosa, sarebbe meglio accettare tutto quello che viene dalla sua volontà inaccessibile, confidando solamente nella divina provvidenza. Ma come un buon padre, Dio, sebbene non ci affligga mai sopra le nostre forze, permette che i suoi figli gli chiedano qualsiasi cosa, sebbene sia Egli a dispensare le grazie per noi realmente convenienti. Ma la più bella preghiera è ringraziare sempre e in ogni luogo Dio per il bene e per il male. Anche sotto le false apparenze di un male, si compie sempre la volontà di Dio, che è ogni volta giustizia somma.
Così pregava l’anonimo autore di un delizioso testo spirituale medioevale, l’Imitazione di Cristo (III, 50): “O Padre giusto e sempre degno di lode, è venuta l’ora della prova per il tuo servo. O Padre amabile, è bene che in quest’ora il tuo servo patisca un poco per te. O Padre adorabile in perpetuo, è venuta l’ora, conosciuta da te sin dall’eternità, che il tuo servo per un po’ di tempo esteriormente soccomba, pur vivendo sempre interiormente presso di te. Sia egli un poco vilipeso, umiliato e venga meno dinanzi agli uomini, sia affranto dalle sofferenze e dalle infermità, per poter risorgere con te nell’aurora della nuova luce e poter essere glorificato tra gli eletti del cielo. O Padre santo, tu hai così ordinato e voluto: e quanto avevi comandato è stato fatto. Questa è la grazia che fai ai tuoi prediletti: di patire ed essere tribolati per amor tuo in questo mondo, tutte le volte e da chiunque tu permetta. Niente accade sulla terra senza il tuo volere, senza la tua provvidenza e senza un perché. ‘È bene per me, o Signore, che tu mi abbia umiliato, per imparare la tua volontà’ (Salmo 118, 71), e cacciar via tutte le superbie e le presunzioni del cuore. È cosa utile per me, che la vergogna mi abbia coperto la faccia, affinché io cerchi te anziché gli uomini per consolarmi. Da ciò ho imparato a temere il tuo imperscrutabile giudizio, perché tu affliggi il giusto assieme al peccatore, ma non senza equità e giustizia”.
Le religioni del mondo sono spesso sincretistiche. Soprattutto nel passato ci sono stati luoghi santi venerati sia da ebrei sia da cristiani sia da musulmani. In area messicana la sciamana Maria Sabina, morte nel 1985, era dedita a culti cattolici di importazione spagnola fusi con quelli sciamani afferenti al culto del fungo sacro. Per lo sciamanesimo messicano alcuni funghi con proprietà allucinatorie permettono il contatto con il mondo divino. I funghi rivelano quindi a chi li assume la loro natura divina guidando l’adepto in un viaggio nei mondi soprasensibili. In questo modo svelano segreti e conferiscono proprietà soprannaturali. Questa donna arrivava a dire che i funghi sono carne di Dio, perché nascono dalle gocce di sangue versato da Cristo sulla croce. Il clero locale guardava con favore i riti di questa donna, che toglieva malefici e guariva le persone.
Ma il sincretismo si riscontra spesso anche nella Bibbia. Pensiamo soltanto a un delizioso libricino dell’Antico Testamento, il Libro della Sapienza. Non è accettato dal canone ebraico in quanto scritto in greco, ma i cattolici lo ritengono ispirato. È redatto in greco perché probabilmente l’autore ebreo scrisse ad Alessandria di Egitto, città nella quale era avvenuta la diaspora ebraica: gli ebrei di Alessandria d’Egitto usavano il greco come lingua ufficiale, infatti in questa città avvenne anche la redazione dell’importante traduzione della Bibbia ebraica in greco detta Septuaginta, che sarà ripresa dai vangeli, redatti in greco (tutte le citazioni che i vangeli fanno della Bibbia ebraica provengono dalla Septuaginta). Gli studiosi datano il Libro della Sapienza al 30 a. C., siamo nel periodo nel quale avvenne l’occupazione romana dell’Egitto, ed è lo stesso libricino a fornirci un indizio in merito: in 6, 3 compare la parola greca kratēsis, “potenza”, è l’unica volta che questa parola greca compare in tutta la Bibbia, ed era usata dagli scrittori profani di allora come un termine tecnico per indicare proprio il potere romano in Egitto. Ebbene, l’anonimo autore del Libro della Sapienza, attribuito però dai manoscritti al re Salomone, simbolo della saggezza, compie una profonda opera di osmosi tra la cultura ebraica e la cultura greca ellenistica. Tecnicamente si tratta di una operazione sincretistica di inculturazione.
Nel mondo greco-romano Apollo era il dio della profezia e degli oracoli. La sacerdotessa detta Pizia vaticinava sotto la sua ispirazione. Fenomeni del genere avvengono anche nel mondo cristiano. Pensiamo solo a San Giovanni che venne rapito in spirito sull’isola di Patmos e cominciò ad avere visioni dei mondi futuri, raccolte nel libro dell’Apocalisse. E Patmos era uno dei luoghi cari ad Apollo.
In Apocalisse 9, 11 è scritto: “Avevano come re l’Angelo dell’Abisso, il cui nome in ebraico suona Abadon e in greco Apollyon”.
La denominazione Angelo dell’Abisso compare solo qui in tutta la Bibbia, quindi non si sa bene cosa significhi. Invece il termine ebraico ‘Abadon compare altrove nei testi biblici. Deriva da una radice semitica che significa di per sé ”vagare” per poi assumere il significato di “fuggire, allontanarsi” e quindi “perire, andare distrutto, morire”. Nell’Antico testamento il verbo al qal compare più di 100 volte, ci sono poi da aggiungere i sostantivi derivati come ‘Abadon. Questo sostantivo significa poche volte “rovina” (Giobbe 31, 12), molto più spesso assume il significato di “luogo della distruzione”, cioè il regno dei morti.
Il termine ‘Abadon è usato anche in testi tardogiudaici di impronta apocalittica, come quelli ritrovati a Qumran (1QH 3, 16.19.32 e l’aramaico 1QGn apocr. 12, 17). Negli scritti di Qumran il verbo compare 60 volte, molto spesso si riferisce all’annientamento di malfattori o nemici, ma non solo (per esempio, i testi propri della comunità usano il nesso kl-‘bdh per parlare di “tutti gli oggetti perduti”: in CD 9, 14). Linguisticamente è significativo che in 4QpNah a 4QpPs vi è scrittura fonetica senza aleph dell’imperfetto qal (per esempio nella forma jwbdw), aspetto che si ritrova anche in aramaico per alcuni verbi con prima aleph, tra cui il nostro. Interessante uno slittamento fonetico nei dialetti posteriori dell’aramaico (targumico, rabbinico, cristiano, siriaco), così come nell’ebraico rabbinico e moderno: il significato prevalente è “smarrire”, anche se resta, minoritario, quello di “distruggere, perire, morire” (l’esatto contrario di quanto avveniva prima). Negli scritti di Qumran il termine ‘Abadon è usato spesso in nuovi contesti rispetto all’Antico Testamento, per esempio può significare un luogo profondo non in connessione con gli inferi, a volte indica semplicemente una località.
Il greco Apollyon deriva dal verbo greco apollumi, “sterminare”, quindi significa Sterminatore e richiama l’appellativo dell’angelo di Dio inviato a sterminare i primogeniti degli egiziani (Esodo 12, 23).
Per il passo dell’Apocalisse in questione, i due appellativi dell’Angelo dell’Abisso si possono tradurre in maniera sinonimica: ‘Abadon evocherebbe l’idea della distruzione, Apollyon quella dello sterminio. “Il loro re era l’Angelo dell’Abisso, che in ebraico si chiama Distruzione, in greco Sterminatore”.
Maculotti sostiene che Apollyon presente nell’Apocalisse, che devasta il mondo alla fine dei tempi, coincida con il dio greco Apollon, Apollo, anch’esso per gli antichi greci fatto derivare dal verbo greco apollymi, “distruggere”. Allora presumibilmente anche per gli antichi greci e romani, secondo Maculotti, Apollo doveva essere il dio della distruzione. Apollo aveva sia la lira sia l’arco. Eliade e Colli hanno messo in luce gli aspetti terribili del dio Apollo. Secondo Maculotti, Apollo era il dio che nell’escatologica greco-romana era considerato adibito a distruggere il cosmo per poter far rifiorire nuovamente l’età aurea dei primordi. Non per nulla nella IV Ecloga Virgilio ha queste parole: “L’ultima epoca del responso di Cuma è giunta; nasce da capo il grande ordine dei secoli … già una nuova stirpe discende dall’alto dei cieli … cesserà la stirpe di ferro e in tutto il mondo risorgerà l’età dell’oro; già regna il tuo Apollo”.
Apollo quindi non è solo un dio positivo (della luce, della forma, della poesia), ma ha anche aspetti terrifici. Nelle varie religioni le divinità hanno spesso aspetti sia benevoli sia terribili, come il dio vedico Rudra, definito sia shiva, “benevolo”, sia ghora, “terribile”. La dea buddhista tibetana Tara presenta raffigurazioni sia positive sia negative.
In tutte le religioni o quasi vi è una divinità femminile o angeli che si prendono cura delle persone come madri amorevoli. Nel cristianesimo vi è la figura della Madonna, la madre di Cristo, l’Uomo-Dio, la quale è la più grande creatura, superiore anche agli angeli, la Regina dell’Universo, la Onnipotente per grazia, in quanto a lei Dio nulla può negare. Nell’induismo esiste una figura divina femminile dai molti nomi, la Devi, che è cantata in un famoso inno con queste parole sanscrite: namas tasyai namas tasyai namas tasyai namo namaḥ. Namas tasyai significa “un saluto rispettoso a lei”, eseguito magari chinando la testa (la radice verbale nam, da cui deriva il sostantivo namas, significa “inchinarsi’’), quindi: “onore a lei”. Persino il Vodoo ha una divinità femminile invocata per i riti: Erzulie.
L’uomo sente l’esigenza del padre e della madre e venera divinità che in qualche modo assolvano una cura primaria o quasi nei suoi confronti.
Ma non sempre è così nelle religioni. Pensiamo allo yoga, intendiamo quello originario, buddhista, che è ateo, cioè non considera gli dei (anche se forse li suppone).
Oggi in Occidente lo yoga viene proposto come una sorta di ginnastica. Sarebbe qualcosa di connesso con il benessere fisico e mentale, e anche con discipline di integrazione come le arti marziali. In realtà lo yoga è, nella tradizione indiana, qualcosa di molto diverso. Ma nella stessa India lo yoga viene oggi travisato. Infatti nel 2014 è stato stabilito il Ministero dell’AYUSH (Ayurveda, Yoga, Unani, Sidda, Homeopathy), che pone in collegamento lo yoga con altre medicine e pratiche del benessere fisico e mentale.
Lo yoga deriva dalla radice yuj, “unire”. Lo yoga non è frutto solamente dell’induismo, ha una grande importanza anche nel buddhismo e nel jainismo. Nel buddhismo la parola yoga entra solo nel IX secolo d. C., prima usava altri termini per indicare le stesse cose. Si usava la parola sanscrita dhyāna, “meditazione”.
Per alcuni lo yoga è lo strumento per unire l’anima individuale con Dio. Ma il concetto di Dio quale Assoluto (che in India è costituito soprattutto da Shiva e da Vishṇu) da pregare per ricevere favori, arriva nello yoga molto tardi, con lo sviluppo delle scuole puraniche e tantriche (VI-VII secolo d. C.). La fase iniziale dello yoga risente moltissimo dall’influsso buddhista ateistico, cioè privo di un Dio personale. La brahmanizzazione dello yoga, cioè la sua inclusione nell’induismo, avviene molto dopo, dal IX secolo d. C.
Negli Yoga-Sutra di Patanjali, testo induista dei primi secoli dell’era cristiana, è scritto che lo yoga deve essere una meditazione così profonda da ritirarsi dal mondo fino alla completa dissoluzione della differenza tra soggetto e oggetto. Patanjali scrive nella sua opera queste parole sanscrite: yogaś cittavṛttinirodhaḥ, “lo yoga è bloccare (rodhaḥ) le attività (vṛttini) della mente (citta)”. Quando pensiamo a un oggetto, usiamo la mente, invece facendo scomparire l’attività della mente, grazie alla meditazione, facciamo sparire la differenza tra soggetto e oggetto: in questo modo otteniamo la liberazione (mokṣa).
L’assorbimento meditativo ha questi stadi:
- Vitarka: contatto con l’oggetto della concentrazione
- Vicāra: mantenimento dell’attenzione
- Ananda: beatitudine
- Asmitā: concentrazione in sé stessi.
Questi stessi elementi li troviamo secoli prima nei testi buddhisti in sanscrito. Essi sono rispettivamente:
- Vitarka
- Vicāra
- Prīti, sukha (al posto di ananda)
- Cittaikāgrāta (al posto di asmitā).
Invece nei testi buddhisti in pali abbiamo rispettivamente:
- Vitakka
- Vicāra
- Pīti, sukha
- Cittekaggatā.
In seguito, nel X secolo, un commentatore induista degli Yoga-Sutra, il dotto Vacasparimiśra, ridurrà lo yoga a tre momenti (concettualizzazione ripresa dall’altro commentatore induista Bhoja, del XI secolo):
- Grāhya: è l’unione dei primi due (vitarka e vicāra), nel quale ci si rapporta all’oggetto di meditazione (il percepito)
- Grahaṇa: ananda, quando la meditazione produce gioia (non c’è più l’oggetto, ma solo il percepire: e il percepire è una forma di beatitudine)
- Grahitṛ: è il percettore, cioè l’ātman; lo yogin entra in contatto con il suo vero Sé (ātman), cioè ha dimenticato l’oggetto. L’ātman coincide con Dio Assoluto, Brahman.
È da qui che nasce l’equivoco per cui lo yoga sarebbe l’unione dell’anima con Dio, inteso in senso personalistico. È quindi una interpretazione induista e per di più tardiva. Quando Patanjali parlava della concentrazione su di sé, rifacendosi a testi buddhisti più antichi, intendeva il sé, l’ātman, non in rapporto con Dio, come invece faranno gli induisti. Per i buddhisti il sé è l’essenza dell’uomo, che nulla ha a che vedere con un Dio personale. Quindi lo yoga è la “unione” non con Dio ma con sé stessi, cioè il ritiro dal mondo oggettuale e la congiunzione in sé.
Il mondo (samsāra) è problematico: bisogna allontanarsi dal mondo e unirsi in sé, nell’anima. Lo yoga propone quindi un modello dualistico: il mondo e il sé. Lo yoga ci aiuta ad andare dall’altra parte del mondo, cioè ritornare in noi.
Sono conosciuti gli otto passi (anga) dello yoga, cioè le otto tappe per fare yoga, per cui c’è una vasta bibliografia, ma ci sono anche altre catalogazioni di anga. Meno conosciuta è la visione di Kamalasila (VIII secolo) nell’opera Bhāvanākrama:
- Preliminari
- Calma concentrata (śamatha)
- Visione profonda (vipaśyana)
- Assorbimento mentale privo di pensieri (nirvikalpasamādhi)
- Uscita dal samādhi (vyutthāna).
Un particolare tipo di yoga, quello tantrico, si pratica anche come unione sessuale tra uomo e donna (esistono anche riti tantrici orgiastici ma non sono nello yoga bensì iniziatici). Il sesso non è visto come qualcosa di amorale, a guisa dell’esperienza cristiana. Nel mondo antico, e ancor oggi nel Tantra (induismo non ortodosso), il sesso è una energia della natura benedetta dagli dei. Per esempio, nell’antica Grecia la charis, che nel cristianesimo sarà la “grazia” di Dio nei confronti degli uomini, non era altro che la preparazione al matrimonio della fanciulla sottoposta a riti iniziatici (nei quali era prevista anche la deflorazione dell’imene) sotto l’egida di alcune divinità.
Nell’induismo ortodosso i trattati sul kama (kamashastra), cioè sul desiderio, esplorano le variegate sfaccettature del piacere, anche quello sessuale, perché, coltivandolo, è possibile in qualche maniera “sfogarlo” fino al punto da annullare il desiderio che ci tiene legati all’esistenza del mondo, determinando quindi la liberazione. Nel Tantra, invece, siamo agli antipodi dell’induismo ortodosso in quanto il desiderio va coltivato, sotto l’egida delle divinità, sebbene sia tenuto sotto controllo in maniera rituale, perché con la forza del piacere sessuale è possibile ottenere direttamente la liberazione: nell’atto sessuale, infatti, si uniscono gli opposti determinando in questa maniera l’unione dell’adepto con il divino.
Nel Samājottara sono contemplati questi passaggi dello yoga tantrico:
- Pratyāhāra: visione di segni (luci, fumo, cielo, e così via) e poi della immagine del Buddha nello yoga tantrico buddhista o di Shiva in quello shivaita; quindi avviene la unione sessuale con la partner, che serve a sviluppare l’energia (l’energia sessuale così sviluppata permette di far sciogliere il seme maschile, che nella fisiologia mistica sta nella testa; esso, sciolto, scende attraverso la colonna vertebrale)
- Dhyāna: concentrazione (determinata dallo scioglimento del seme)
- Prāṇāyāma: controllo del respiro (il respiro genera i pensieri, quindi controllando il respiro si arrestano i pensieri aiutando nella ritrazione della concentrazione dal mondo esterno)
- Dhāraṇa: fissazione del diletto (cioè concentrazione mentale sul seme)
- Anusmṛti: di nuovo concentrazione sui segni esterni
- Samādhi: di nuovo concentrazione sulla immagine (Buddha o Shiva).
Nello yoga buddhista non deve esserci emissione del seme, se succede lo yogin deve recuperare con la lingua ciò che è uscito. Quindi la fase finale dello yoga tantrico non è la scomparsa della unione tra soggetto e oggetto nella unificazione in sé bensì il seme. Il seme, così evocato mediante l’attività sessuale, una volta sceso deve ritornare nella testa. In questa maniera la mente viene trasformata: diventa una mente universale. La mente così diviene la mente del Buddha, che in questa maniera è distolta dal mondo esterno.
Bibliografia di riferimento:
- E. Baret, Yoga tantrico, Roma 2008;
- Dizionario Teologico degli Scritti di Qumran, Brescia 2019, vol. 1, alla voce ‘abaddon;
- Grande Lessico dell’Antico Testamento, Brescia 1988, vol. 1, alla voce ‘abadon;
- P. Harvey, Introduzione al buddhismo. Insegnamenti, storia e pratiche, Firenze 1998;
- K. Kasahara (a cura di), A History of Japanese Religion, Tokyo 2001;
- P. Mason, D. Dinwiddie, A History of Japanese Art, London 2004;
- K. Matsuo, A History of Japanese Buddhism, Folkstone 2007;
- K. N. Mishra (a cura di), Aspects of Buddhist Sanskrit, Sarnath 1993;
- M. Raveri, Il pensiero giapponese classico, Torino 2014;
- A. Tollini, Alla ricerca della mente. Testi del buddhismo chan cinese di epoca Tang, Roma 2021;
- A. Tollini, Lo Zen. Storia, scuole, testi, Torino 2012;
- H. Zimmer, Arte e tantra yoga, Milano 2016.
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha dato alle stampe 41 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli.
(fonte: www.ereticamente.net)