Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
Le esplorazioni italiane in Tibet prima di Giuseppe Tucci – Andrea Morandi
Speciale Giuseppe Tucci – Prima Parte
L’epoca dei contatti tra Oriente e Occidente inizia al tempo di Alessandro Magno, la cui spedizione aprì la strada dell’India. Dall’epoca del Macedone, dopo il tramonto della potenza Seleucide, seguirono diaspore elleniche fino oltre le rive dell’Indo, in cui il greco era adoperato come lingua franca, e lungo le strade carovaniere fiorirono contatti commerciali e culturali. Si potè assistere ad un avvicinamento tra il mondo ellenico e quello orientale e, oltre a fiorenti scambi commerciali, nacquero da questa occasione nuovi ideali di pensiero e arte. L’Impero Romano fu l’erede naturale di quella politica di espansione inaugurata dal Macedone: sudditi romani delle province orientali e in particolare Egitto e Siria, mossi da ragioni mercantili e da curiosità di viaggio, portavano in quelle terre remote oltre ai commerci anche notizie del mondo occidentale e della cultura classica. L’imperatore Augusto mirava ad assicurare le vie commerciali dell’Oriente in Asia, mentre in Asia erano sorti a potenza due imperi: quello dei Kushan nell’India Nord-Occidentale e quello dei Han in Cina. Gli Han, dopo la sconfitta degli Unni, dettero vita ad una serie di missioni politiche e successivamente spedizioni militari verso l’Occidente, sia per desiderio di conoscenza che per affermare il loro dominio sui paesi centroasiatici., fino alle porte del mondo iranico. Un messo di Pan chao arrivò ad Antiochia e portò in Cina le prime notizie del mondo romano; Roma e Cina si sarebbero probabilmente incontrate se la Parthia non si fosse opposta, per ostilità e gelosia della sua indipendenza e dei suoi traffici.
Le vie di terra partendo da Antiochia passavano per Zeugma e Palmira, proseguivano per Ecbatana, Ecatompylos, Alexandria Kapica e di qui si diramavano l’una verso nord fino a raggiungere la strada della seta che sfociava a Tun-Huang, l’altra verso sud per Peshawar e l’India. Roma era senza dubbio al corrente di queste strade, attraverso le quali arrivavano le sete e le altre meraviglie dell’Oriente, così come le conosceva la Cina, che a poca distanza di tempo inseriva nei suoi annali dinastici gli itinerari e i racconti di viaggio dei suoi ambasciatori e generali, i quali, mandati ad estendere i possedimenti e la gloria del Celeste impero in Asia Centrale entrarono occasionalmente in contatto con l’Oriente mediterraneo da essi chiamato Ta Ts’ing. Nell’impero che i Kushan, scesi dopo lunghi viaggi attraverso l’Asia Centrale, fondarono in India, sboccavano dunque e confluivano le carovane che univano Estremo Occidente e Estremo Oriente, India ed Asia Centrale, e prosperavano i traffici.
L’aura di mistero da cui l’Asia era circondata, una volta inaugurata tra il mondo mediterraneo e l’India una catena di scambi regolari, sembrava vinta; ma quegli arditi navigatori erano spinti da nuove curiosità verso orizzonti ancora più distanti. Quei mercanti erano venuti in contatto in India con navi cinesi o che della Cina portavano notizie, per cui si proposero di fare un balzo in avanti, proseguendo verso gli empori dei Seres, tentando le vie del mare per spostare il commercio della seta dalle carovaniere che erano rese pericolose dalle insidie della Parthia e dal ribollire dei popoli sui piani dell’Asia. Essi infatti sapevano che la seta non era prodotta in India, ma veniva da un paese più remoto: dalla terra dei Seres, che era oltre le strade di cui Maes Titianus[1] e con lui altri viaggiatori avevano lasciato gli itinerari. Veramente, quando essi chiamavano Seres i popoli produttori della seta, erravano: sin da tempi antichissimi erano state definite Seres, con parola iranica, dalle merci in cui trafficavano certe tribù centro-asiatiche che convogliavano l’oro dalla Siberia verso la Persia e l’India. Nel momento in cui le vicende storiche dell’Asia Centrale e le rivoluzioni di popoli che vi orbitavano intorno al secondo secolo a.C. posero fine a quel traffico, il nome di Seres restò alle genti che importavano la seta, merce della quale il mondo mediterraneo cominciava allora a fare grande domanda. In India il paese di produzione della seta si chiamava in un’altra maniera: dal nome della dinastia Ts’ing, sotto la quale era per la prima volta giunta in India notizia di quel popolo, fu detto “Cina”, con una parola sopravvissuta alle vicende dei tempo e per la prima volta usata in Europa dall’autore del Periplo del Mare Eritreo sulla fine del I secolo d.C. Mercanti dell’occidente arrivarono nel Celeste Impero attraverso le vie di mare.
Seres era dunque il nome che il mondo antico attribuì a certe tribù dedite al commercio dell’oro, facendo da tramite tra l’India e la Persia e il paese di produzione, forse la Mongolia. Il termine Seres, che ha costituito lunga materia di studio per i filologi, non è altro che un adattamento della parola iranica zaray che significa appunto oro[2] ; essa non ha dunque niente a che vedere con la seta, con il cui commercio, cambiato l’orizzonte politico ed economico dell’Asia Centrale, i Seres furono poi connessi nella tradizione classica. In effetti in Occidente l’Asia Centrale fu conosciuta, fin dagli albori della storiografia, come il paese dell’oro, ed è con questo nome che si ebbe forse in Europa la prima notizia del Tibet occidentale: lo storico Erodoto vi allude quando descrive una terra dove formiche gigantesche,scavando la tana, accumulano mucchi di polvere preziosa che la gente raccoglie ed esporta. Erodoto situa questa leggenda a nord della Paktyke (Gandhara) e dopo di lui Megastene presso i Dardi, quindi forse nell’alta valle dell’Indo, lungo la quale vi sono testimonianze di miniere d’oro sfruttate fino a tempi relativamente recenti, lo stesso Tucci testimonia di averne visto tracce sulla strada di Leh (Tucci,1949). Più ad oriente, nei pressi del lago Manasarovar e la montagna sacra del Kailâsa (o Kailash), sorgono numerosi pozzi auriferi, che Tucci descrive come «non più larghi di 60-70 centimetri, uno vicino all’altro con la terra ammucchiata intorno alla bocca, la prima impressione che fanno è proprio quella di grandi formicai» (Tucci,1949, p. 192). Forse proprio così nasceva la leggenda che, portata dalle carovane, giungeva lentamente in Occidente. Tuttavia solo con la grande dinastia dei T’ang ci giungono le prime notizie precise sul Tibet, nello stesso periodo si assiste ad una progressiva “civilizzazione” del Tibet.
Nel VI secolo d.C. tramite una serie di campagne militari vittoriose il potente capo Sronzengampo procede all’unificazione del paese ed estende il suo dominio su diverse contrade dell’Asia Centrale, sconfiggendo i Cinesi e stringendo alleanze di matrimonio con la Cina e il Nepal. Egli accettò il Buddhismo e adottò un sistema di scrittura modellato su quello dell’India, introducendo nel suo paese i primi elementi di cultura sia profani che religiosi.
La prima luce della civiltà nel Tibet sorgeva dunque durante il suo regno, quando la cultura tibetana, influenzata sia dall’India che dalla Cina, a poco a poco si evolveva, lasciandosi alle spalle la sua prima fase di arretratezza, mentre maturava anche il profondo senso religioso che così tanta importanza avrà presso l’uomo tibetano. Religiosi provenienti dall’India varcavano i confini del Paese delle Nevi facendo rifiorire il Buddhismo che stava subendo una fase di declino in India. Emergono figure di santi e asceti e cominciano a fiorire in Tibet le prime scuole religiose. Dall’India proviene un messaggio religioso che porterà anche all’immenso sviluppo artistico e figurativo in Tibet, paese in cui l’arte avrà un significato quasi esclusivamente mistico e religioso e che, seppur manterrà caratteri costanti mutuati dall’India, subirà anche l’influenza cinese per quanto riguardo le arti figurative.
Le prime notizie sul Tibet (chiamato Tubbat dagli scrittori arabi) giunsero in Occidente in seguito al viaggio di Giovanni da Pian del Carpine, che anche se riferisce notizie sul Paese delle Nevi non vi si recò mai. Era un francescano, nato intorno al 1182 a Magione, inviato da Papa Innocenzo IV in Asia Centrale e Mongolia per sondare le possibilità di un’alleanza con il Gran Khan in appoggio ad un’eventuale guerra contro i Turchi, al fine di liberare la Terra santa. Egli fu il primo europeo ad aver avuto accesso alla corte del Gran Khan dei mongoli. Al ritorno dalla sua missione scrisse l’ Historia mongalorum in cui descrisse le usanze di quel popolo; divenne poi vescovo di Antivari, dove morì nel 1252. Le informazioni che Giovanni fornisce sul Tibet (da lui appellato Burutabet) riguardano le particolari usanze funerarie: «…alla morte del padre tutta la famiglia si riunisce, come ci si raccontava lo mangiavano» e su caratteristiche estetiche: «…essi non hanno peli sul viso e portano in mano un ferro con il quale, come noi stessi vedemmo, si strapparono di continuo i peli che per caso possano crescere. Hanno aspetto assai deforme.» (Amato, 2006, p. 83).
Marco Polo, che come Giovanni non visitò il Tibet, raccoglie nel Milione notizie frammentarie piuttosto curiose: «non trova né alberghi né vivande…Egli è vero che niuno uomo piglierebbe neuna pulcella per moglie per tutto il mondo, e dicono che non vagliono nulla s’ella no è costumata co molti uomini…Egli sono molti grandi ladroni… E ànno li più savi incantatori e astorlogi che siano in quello paese, ch’egli fanno tali cose per opere di diavoli…E ssono male costumati.» (Amato, 2006, p.83)
A queste vanno aggiunte notizie riferite da Odorico da Pordenone (Villanova di Pordenone, 1265 – Udine, 1331), religioso italiano dell’Ordine dei Frati Minori, il cui viaggio lo portò ad attraversare l’Asia passando per lo Shansi, lo Shensi, il Sse chuan e secondo alcuni il Tibet e Lhasa. Se la notizia fosse vera Odorico sarebbe stato il primo europeo a visitare il Tibet, e a raggiungere Lhasa la città dei Lama. Tucci afferma tuttavia che la descrizione che Oderico fa di Lhasa non concorda con l’aspetto reale della città e vi sono diverse incongruenze nel suo racconto. Per Tucci Odorico non entrò mai nel Tibet vero e proprio, ma ne raccolse notizie presso i Mongoli della frontiera; dalla parte della Cina e dell’Asia Centrale il Tibet era dunque rimasto inaccessibile (Tucci,1949).
Circa due secoli dopo i discendenti di Gengis Khan puntavano dall’Afghanistan verso le fertili pianure dell’India dove, sotto i primi Moghul, nelle province meridionali vivevano comunità siriache cristiane, che facevano risalire la propria conversione all’età apostolica e a S. Tommaso. Nei missionari vi era il desiderio di varcare la catena Himalayana per rintracciare in quelle zone inaccessibili le ultime propaggini di una remota evangelizzazione.. Essi chiamavano il paese a nord dell’Himalaya Catai, termine che designava genericamente l’Asia Centrale.
Nel 1654 a Leida si incontrarono il gesuita Martino Martini, da poco tornato dalla Cina, e l’erudito olandese Jacobus Golius, che stava pubblicando le tavole di Nasir al Din nelle quali erano contenuti i nomi degli anni ciclici in lingua cataj e Golius volle incontrare Martini che ritornava dal Celeste impero carico di nuove conoscenze e libri, accertando il fatto che quei termini erano la trascrizione persiana di nomi cinesi. Si stava sviluppando in quel periodo la filologia: l’identificazione del Catai, che aveva costituito materia di studio e mistero insolubile per i geografi dell’Occidente, dopo che le conquiste dei Portoghesi e lo zelo apostolico dei missionari aprirono le strade dell’Asia più inaccessibile , venne dunque fuori di ogni dubbio documentata: il Catai descritto da Marco Polo si trovava a corrispondere con la Cina dei Ming.
Tuttavia quella identificazione provata tardivamente dalla filologia era già stata intravista da Matteo Ricci (Macerata, 1552- Pechino 1610), che aveva viaggiato lungamente in Cina e aveva appreso la lingua e i costumi cinesi, e dimostrata poi da Bento de Góis ( Vila Franca Do Campo, 1562 – Suzhou, 1607). Questi, partito da Agra il 29 ottobre del 1602, travestito da mercante persiano, aveva attraversato l’Afghanistan, valicato il Pamir, percorso il Turchestan e, dopo quattro anni di viaggio avventuroso, pericoli e disagi, era giunto nel 1607 a Suzhou, dove era morto. Nonostante il suo diario sia stato distrutto dai musulmani suoi compagni di viaggio, Matteo Ricci riuscì a venire in possesso di alcuni frammenti.
In Pechino, in Ch’üan chou, in Hanchou, città che passo dopo passo venivano riscoperte dai missionari dopo il crollo della potenza mongola, si ritrovarono luoghi leggendari come la Cambalic descritta da Marco Polo, Zaitun e Quinzai,. Rimaneva a quel punto la speranza di ritrovare le comunità nestoriane sopravvissute, anche sull’onda delle notizie portate dagli indù reduci dai pellegrinaggi sacri al lago Manasarovar e al Kailâsa, che riferivano della presenza di gruppi religiosi simili a quelli cristiani oltre alle cime himalayane.
Spinto da questi racconti il gesuita portoghese padre Antonio d’Andrade (Oleiros, 1580 – Goa, 1634) partì da Agra il 30 marzo 1624 con il fratello coadiutore Manoel Marques[3] e con due servi convertiti al cristianesimo, unendosi ad una carovana di Indù diretti verso le sorgenti del sacro Gange, alla pagoda Badrinath. Passando per Srinagar, capitale del Garhwal, dopo aver superato a circa 5.500 metri di altitudine il passo Mana (Mana-la o Dungri-la), giunse ai primi di agosto del 1624 nella capitale del Tibet occidentale, primo europeo a raggiungere il Tetto del Mondo valicando l’Himalaya. Fu ricevuto con cordialità dal governatore di Guge, e dopo 25 giorni ripartì con la promessa di tornare e si diresse nuovamente ad Agra per raccogliere altri missionari; agli inizi di Novembre rientrò ad Agra descrivendo il suo viaggio in una lettera dai toni epici (datata Agra, 4 novembre 1624). La lettera divenne un fortunato libretto dal titolo nuova scoperta del Gran Catai o dei regni del Tibet, tradotto dal portoghese in varie lingue.
Il secondo viaggio, in compagnia del padre Gonzales de Souza[4] e di due servi, iniziato da Agrail 17 giugno 1625, condusse de Andrade a Tsaparang, dopo dieci settimane, nell’agosto successivo. Già nel settembre de Souza ripartì, mentre Andrade, che nel frattempo aveva fondato una missione e iniziato la costruzione di una chiesa, fu raggiunto nell’aprile 1626 dai padri João de Oliveira[5], Francisco Godinho[6] (ripartito l’anno successivo) e Alano dos Anjos[7] accompagnati da Manoel Marques, il quale rientrò subito in India.
Nel periodo dell’arrivo dei missionari a Tsaparang, la situazione politica vedeva in corso lotte di potere che opponevano il re al fratello (lama principale di Guge) ed altri congiunti appartenenti all’ordine monastico, così de Andrade riuscì ad impiantare la missione, con il favore del sovrano, desideroso di contrastare le ingerenze delle autorità religiose nella sua conduzione del regno. Partito Godinho, nel 1627 tornò ancora Manoel Marques in compagnia del padre António Pereira[8] e nel 1629 arrivò António da Fonseca[9]
Andrade scrisse altre due relazioni, nel 1626 e nel 1627, nelle quali troviamo le prime descrizioni del Tibet e della sua religione, seppur colta nei suoi aspetti più esteriori e superficiali. Fu richiamato a Goa alla fine del 1629 per assumervi la carica superiore di quella grande provincia che comprendeva il territorio di buona parte dell’India, la Persia e le coste orientali dell’Africa, dove operavano circa trecento missionari. Resse quell’incarico dal 1630 al 1633, quando fu rimpiazzato da padre Álvaro Tavares (1575-1637), e assunse l’incarico di rettore del Collegio di San Paolo in Goa. Pur preso dai molti impegni, non dimenticò la missione del Tibet e nel 1631 inviò il padre Francisco de Azevedo[10] a Tsaparang, dopo l’invasione, da parte del Ladakh, del regno di Guge, invasione forse favorita, se non addirittura istigata, proprio dai lama ai quali il re si opponeva.
Dopo essere stato informato sugli ultimi accadimenti da Manoel Marques, appena giunto ad Agra per provvedere ai rifornimenti necessari alla missione, e guidato dall’ormai esperto frequentatore di quelle strade, de Azevedo partì da Agra il 28 giugno 1631 e il 25 agosto successivo, raggiunse Tsaparang. Un governatore nominato dal re del Ladakh reggeva la città: era tornato a Leh portandosi il vecchio re di Guge come prigioniero; d’Andrade trovò un clima di evidente ostilità verso la missione. Ciò spinse il visitatore ad una mossa ardita: andare direttamente a trattare con il re nella capitale del Ladakh. Il viaggio, fatto in compagnia di João de Oliveira, si svolse dal 4 al 25 ottobre 1631 e i due missionari, ottenuto il permesso per la prosecuzione della missione, lasciarono Leh, il 7 novembre 1631, per rientrare ad Agra, via Lahul e Kulu, il 3 gennaio 1632. Andrade fu anche accusatore in un processo dell’inquisizione e morì avvelenato, il 19 marzo 1634, mentre preparava la sua terza spedizione in Tibet.
Nel 1635, dopo la morte di de Andrade fu inviato da Goa, verso la missione costituita nell’ex regno di Guge, un gruppo di sette missionari, guidato dal padre spagnolo Nuño Coresma[11]: la spedizione fu sfortunata perché due padri morirono per strada, altri due (Balthasar Caldeira[12] e Pietro de Freytas[13]) e un laico (fratello Faustino Barreiros[14]) si ammalarono gravemente e furono costretti a fermarsi a Srinagar. Coresma arrivò nel luglio 1635 con il solo padre Ambrosio Corea[15], a Tsaparang, dove trovò una situazione insostenibile, per cui rimandò indietro quasi subito il suo compagno di viaggio, portatore di un messaggio con il quale chiedeva di chiudere la missione. Non ebbe nemmeno il tempo di ricevere la risposta poichè, all’inizio dell’autunno di quello stesso 1635, fu costretto ad abbandonare la missione, inoltrandosi sulla via del ritorno insieme a Manoel Marques, ultimo missionario rimasto nella missione fondata da de Andrade.
Fu comunque deciso di mantenere, in attesa di tempi migliori, una presenza a Srinagar nel Garhwal, dove, nell’autunno 1636, furono inviati i padri Pereira e dos Anjos; quest’ultimo morì in quello stesso anno e venne rimpiazzato dal padre italiano Stanislao Malpichi[16], appena arrivato nel gennaio 1637 ad Agra. Rispondendo, seppur riluttante, alla richiesta del generale della Compagnia, Muzio Vitelleschi (Roma 2.12.1563 – Roma 9.2.1645), il nuovo provinciale di Goa, Manoel d’Almeida (1580-1646), subentrato all’appena deceduto Álvaro Tavares (1575-1637), cercò un’ultima volta di riaprire la missione del Tibet inviando, nel 1640, tre missionari a Srinagar, guidati dal solito Marques. I tre rimasero in sede e il superiore di quella missione, Stanislao Malpichi, nell’estate 1640, partì in ricognizione con il veterano Marques. Appena entrati in Tibet, i due missionari furono arrestati; riuscirono a fuggire, ma Marques venne ripreso e Malpichi rientrò da solo a Srinagar. Manoel Marques risultava ancora prigioniero nel 1641, poi non se ne seppe più nulla.
Mentre si sviluppavano le missioni avviate da de Andrade nel Tibet occidentale, i gesuiti si prodigavano anche in altri tentativi verso il Tibet, con i padri portoghesi Estêvão Cacella (Aviz, Évora, Portogallo,1585 – Shigatse, Tibet, 6.3.1630) e João Cabral (Celorico da Beira, distretto di Guarda, Portogallo, 1599 – Goa 4.7.1669), primi europei in Bhutan (1627) e a Shigatse, in Tibet (1628-1629). Il racconto delle imprese in Tibet dei gesuiti è arricchito dall’attraversamento del paese da nord a sud compiuto, nel viaggio da Pechino (13 aprile 1661) ad Agra (marzo 1662), dai due astronomi Johannes Grueber[17] (Linz, Austria, 28.10.1623 – Sárospatak, Ungheria, 30.9.1680), austriaco, e Albert d’Orville (Bruxelles, Belgio, 12.8.1621 – Agra, India, 8.4.1662), belga. I due missionari furono i primi europei a Lhasa, dove rimasero due mesi, dall’8 settembre alla fine di novembre del 1661; successivamente giunsero nella valle di Kathmandu (gennaio 1662) e furono qui accolti gentilmente dal re di Patan.
Nel 1707 fra Domenico da Fano e fra Michelangelo da Borgogne riuscirono ad arrivare a Lhasa ma, scarsamente appoggiati dalle case madri della Cina e dell’India che si rimbalzavano le responsabilità della missione, privi di aiuto e di mezzi, dopo aver cercato tra molte difficoltà di continuare l’opera dei loro predecessori, furono costretti a ritornare in India.
Il 9 settembre 1712 partiva da Roma, con l’intenzione di continuare l’opera del d’Andrade, Ippolito Desideri: nato a Pistoia il 20 dicembre 1684, non ancora sedicenne, nel 1700, era entrato a Roma nella Compagnia di Gesù formandosi nel prestigioso Collegio Romano, dove, per le sue grandi doti intellettuali e il suo ardore appassionato teso alla salvezza del prossimo, venne scelto dal suo superiore, il preposto generale Michelangelo Tamburini, per la difficile missione nella allora lontana, misteriosa e quasi inaccessibile terra del Tibet, oggetto di tentativi infruttuosi da parte della stessa Compagnia nel secolo precedente.
Il fascino delle “Indie” era sicuramente ispirato dalle esperienze di Francesco Saverio, Alessandro Valignano, Matteo Ricci, Roberto de Nobili e dalle avventure narrate da Daniello Bartoli; il giovane Ippolito aveva comunque non trascurabili esempi anche fra i suoi concittadini, che comprendono il gesuita Giuliano Baldinotti (Pistoia 1591 – Macao 1631), matematico, primo missionario nel Tonchino (Vietnam), e Arcangelo Carradori, missionario francescano in Alto Egitto fra il 1630 e il 1638 e autore di un dizionario Italiano-Nubiano, il primo ad essere redatto per quanto concerne le lingue africane sub-sahariane.
Desideri, prima ancora di avere terminato gli studi, partì da Roma il 9 settembre 1712 e, dopo un viaggio avventuroso, per mare e per terra, giunse a Lhasa il 18 marzo 1716. Il viaggio avvenne da Goa, chiamata la “Roma dell’Oriente”, importante centro di irradiazione del cristianesimo nell’Asia meridionale ed orientale, a Delhi, Lahore, Srinagar in Kashmir con il difficoltoso superamento dei monti Pir Panjal, primi contrafforti della catena himalayana; poi, per gli impervi contrafforti del Karakorum solcati dalle acque dell’Indo e dei suoi affluenti, giunse a Leh, in Ladakh, e, infine, nella capitale del Tibet, dopo la perigliosa ed estenuante traversata delle gelide vastità dell’altopiano transhimalayano. La relazione di viaggio è arricchita da acute osservazioni antropologiche, geografiche, storiche, sociologiche e naturalistiche, rese sempre con impeccabile stile letterario e non prive di poesia e profondità descrittiva.
A Lhasa il missionario, ben accolto e sostenuto nei suoi studi, si meravigliò di questa apertura e del fatto che le idee da lui proposte fossero accolte con favore, anche se i Tibetani non ne accettavano l’unicità salvifica, rimanendo stabili nella convinzione ognuno sia libero di scegliere la strada a lui più affine per la salvazione.
Desideri, impadronitosi perfettamente della lingua tibetana, penetrò nelle più profonde concezioni del buddhismo, e le descrisse mirabilmente, discutendone i fondamenti in cinque libri scritti direttamente in tibetano. Tuttavia il 28 aprile, a causa di un’ingiunzione vaticana, fu costretto a lasciare Lhasa dopo cinque anni di permanenza nel Paese delle Nevi, e il suo lavoro fu forzatamente interrotto; la Congregazione de Propaganda Fide aveva affidato la missione del Tibet all’ordine rivale dei Cappuccini. Lasciato a malincuore il Tibet il 14 dicembre 1721 (si era trattenuto fino allora nella località confinaria di Kuti), Desideri rimase diversi anni in India, finché il 21 gennaio 1727 si imbarcò da Pondicherry per l’Europa, dove giunse, a Port-Louis nella bassa Bretagna, il 22 giugno 1727. Attraverso la Francia, e la navigazione Marsiglia-Genova, arrivò in Italia e, dopo una breve sosta a Pistoia, sua città natale, e a Firenze, rientrò il 23 gennaio 1728 a Roma quindici anni e quattro mesi dopo esservi partito per le missioni in Oriente.
Il rientro fu tuttavia poco fortunato per lui, in quanto il suo ordine era in disgrazia e la sua speranza di tornare in Tibet risultò definitivamente frustrata. Gli venne inoltre impedito di pubblicare la relazione già predisposta per la stampa e di trattare in qualsiasi modo degli argomenti della sua missione: morì il 13 aprile 1733 in solitudine, nella Casa professa della sua Compagnia a Roma.
La relazione della sua missione contiene una completa e approfondita descrizione di quasi tutti gli aspetti della vita e della cultura tibetana e specialmente della religione, sia nelle sue manifestazioni esteriori, sia nei suoi fondamenti dottrinali e filosofici. Tutti gli scritti di Desideri rimasero nascosti e dimenticati per secoli negli archivi, e dopo che furono scoperti attesero a lungo la pubblicazione e soprattutto una adeguata considerazione in relazione al loro valore. La vita e l’opera di Desideri sta oggi ricevendo una maggiore attenzione degli studiosi di vari ambiti disciplinari, per il suo interesse storico e per quanto ancora ha da insegnare oggi a tre secoli di distanza.
Giuseppe Tucci nota che «l’arrivo del Desideri a Lhasa segna una data memorabile nella storia degli studi tibetani perché egli fu il primo a rivelare all’occidente il Tibet, non dico nei suoi caratteri etnografici o nei suoi confini geografici, quanto piuttosto nella sua profonda e intima realtà spirituale». La sua opera, «anche oggi, a due secoli di distanza, è per profondità e chiarezza una delle più sicure esposizioni delle credenze religiose del Tibet». Altrove lo stesso Tucci apprezza Desideri «per la sua larghezza di mente e per la simpatia con la quale avvicinò il popolo di cui era ospite e la sua cultura». Per questo poté studiare con i monaci tibetani, «si abituò al loro modo di ragionare e perciò riuscì a veder chiaro dove oggi molti non trovano altro che tenebra», e a compilare «quella Relazione del Tibet che per la sua profondità e diligenza resiste all’urto dei secoli e al perfezionarsi dell’indagine». Con la Relazione del Tibet e con le sue opere in lingua tibetana produsse un «mirabile incontro sul Tetto del Mondo di S. Tommaso e di Tsongkha-pa».[18]
Abbiamo visto come la missione tibetana passava ai Cappuccini, che già erano arrivati in Tibet nel 1707 e nel 1709: Domenico da Fano, Francesco Orazio da Pennabili, Cassiano Beligatti sono testimoni delle vicende politiche durante le quali il Tibet subisce la conquista cinese.[19] Le relazioni di questi missionari costituiscono le fonti storiche più precise su quel travagliato periodo della storia tibetana, in cui si assiste anche alla fortificazione dei monasteri e si vedono le sette religiose combattere l’una contro l’altra. Il contributo dei religiosi si rivela fondamentale per lo studio della filologia, come lo era stato il contributo del Desideri per la conoscenza della dottrina teologica: Beligatti pubblicava l’Alphabetum Tanguticum che servì di base all’Alphabetum Tibetanum del Georgi; mentre Francesco Orazio da Pennabili redigeva un dizionario tibetano e italiano, che acquistato nel Bengala dal Latter e volto successivamente in inglese venne pubblicato dallo Schröter col suo nome a Sarampore nel 1826.
Tuttavia l’opera missionaria in Tibet conobbe ben presto una fase di decadenza fino a spegnersi del tutto: non ultima ragione è costituita da comportamenti poco accorti dei missionari, che si discostarono dalle sagge vie seguite da Ippolito Desideri. I Tibetani lo avevano rispettato ed erano stati tolleranti con lui perché Desideri non offendeva le loro credenze: lasciarono perciò che predicasse la sua religione, gli permisero di edificare una chiesa e a loro volta lo istruirono nella loro dottrina. Per i buddhisti ciascun uomo è libero di scegliere la propria via spirituale, sono tolleranti rispetto alle altre religioni, viste in genere come un altro cammino spirituale non necessariamente falso o sbagliato. I cappuccini invece sostenevano di essere i soli dalla parte del vero: consideravano falsa la dottrina dei Tibetani e giunsero al punto di bruciare alcune opere religiose. Altra ragione per il mancato successo delle missioni cristiane in Tibet fu forse lo scarso interesse dei Tibetani per la cultura europea. Per essi tutta la vita ricadeva sotto l’ombra della spiritualità e della religione, non avevano particolari interessi scientifici e culturali verso l’Occidente che permettessero all’opera missionaria di lasciare tracce durevoli, come invece accadde in Cina e in India.
Tucci racconta, nel suo libro Italia e Oriente, di non aver quasi trovato testimonianze del periodo missionario nel Paese delle Nevi: cita un’opera di geografia scritta da un grande Lama del Tibet orientale sulla fine del settecento e i primi dell’ottocento. Di seguito riporto le parole di Tucci:
« La fonte di questo trattato geografico è un testo italiano, sunteggiato direttamente senza passare per tramite di traduzioni in altre lingue, chè solo in un libro italiano quel monaco avrebbe potuto trovare nomi come questi: Mare Morto, Napoli e simili, o darci un cenno di Roma che, per essere sttao scritto nei deserti del Tibet, non è da buttarsi via. Altre tracce non ho trovato, all’infuori di certi angioletti cone le ali distese che stanno sulla tomba del terzo Lama di Tashilumpo e sono copia di modelli italiani. Me li trovo ancora davanti agli occhi come li vidi dopo tanto girare per gli oscuri e barocchi musei di Tashilumpo: tutt’oro e argento e pietre preziose, quasi per nascondere col fasto che la fede dei bei tempi antichi era sparita e intisichita. Quei cherubini li avevano forse visti sulle stampe sacre portate dai missionari, e poi, alla meno peggio, li avevano copiati su quel mausoleo, rompendo i paradigmi della tradizione. D’altri influssi che abbiano lasciato non saprei dire; se non forse in certe pitture le quali rappresentano la successione dei maestri della setta gialla: un albero vigoroso nasce da un fiore di loto – che è simbolo dell’energia cosmica –tocca coi suoi rami il cielo e si rinverdisce di foglie su ciascuna delle quali è dipinto un dottore della scuola. Non raffigurano così la discendenza spirituale dei santi alcuni nostri ordini monastici? Il simbolismo religioso s’era espresso nel Tibet in altra maniera: nelle pitture sacre che sono il più fastoso ornamento dei tempi, così vivaci di colore, quasi per vincere la tenebra che è intorno. Non si trova mai, prima del ‘700, questa rappresentazione dell’albero per indicare l’espandersi e propagarsi della dottrina. Piuttosto mettevano al centro la figura del maestro e all’ in giro, come i pianeti intorno al sole, s’irradiavano i discepoli e i seguaci. Le scuole mistiche non immaginavano la trasmissione degli insegnamenti arcani, come la diramazione da un unico tronco; piuttosto come il folgorante trionfo d’una luce, nella quale tu non puoi misurare un’intensità maggiore o minore, ma sempre trovi un medesimo abbagliante folgoramento. Se ho visto giusto,questa è l’unica traccia che i nostri missionari abbiano lasciata sull’arte o, per essere più preciso, nel linguaggio artistico del Tibet; la tradizione che s’era formata alla scuola dell’india e della Cina era troppo forte per edere d’un tratto a motivi stranieri. L’arte nel Tibet era una liturgia figurata; un simbolico diagramma delle forze che muovono il mondo e traggono il cosmo a nascimento da quella suprema coscienza che essi pongono come principio di tutte le cose. Persino gli dei, come aveva detto benissimo il Desideri, non hanno esistenza obbiettiva; quelli che tu trovi a migliaia nei templi e su queste pitture, sono il simbolo visibile di piani spirituali ultraterreni o di occulte potenze e coscienze crepuscolari che bruceranno e si scioglieranno nel fuoco della gnosi. Non si poteva cambiare una linea senza che tutto l’edificio crollasse. E perciò non sorprende che neppure sulla pittura si trovino tracce notevoli di questa permanenza dei nostri missionari nel Tibet. Del resto ci restarono poco, in un momento difficile e, negli ultimi tempi,poco amati. Ma per l’Europa fu tutt’altra cosa: il Tibet fu da quei missionari rivelato nella sua realtà geografica, nella sua lingua e nei secreti della sua religione: Körosi Csoma[20] fu giustamente considerato il fondatore della filologia tibetana: e anch’io come tale lo venero, ma l’opera sua non deve farci dimenticare i predecessori, non meno ardimentosi, che aprirono la via al grande ungherese. Alcuni anzi,come il Desideri, lo superarono nella comprensione delle sottigliezze filosofiche della religione lamaistica. Il capitolo delle missioni tibetane fu dunque breve e presto si concluse senza martiri e senza tragedie; eppure le sue vicende ebbero spesso la grandezza delle imprese eroiche: luce di epica grandezza sempre splende su l’opera umana, ove essa affronti le ostili asprezze della natura e il sospetto dei popoli.»[21]
(Giuseppe Tucci)
Quando il Tibet chiuse le proprie frontiere agli stranieri gli Italiani, non potendo più attraversare i confini vietati, seguirono il suggerimento di quei pionieri che hanno lasciato tante tracce nel campo degli studi tibetani e si misero a studiare i paesi confinanti col Tibet, come il Ladakh e il Tibet indiano, dove si parlavano dialetti tibetani e dove, quando non sopraffatta dall’islamismo, la religione era ancora il Buddismo. Il piemontese marchese Osvaldo Roero di Cortanze fu il primo a prendere quella strada: giunto nel Kashmir proseguiva per Leh. Per oltre venti anni, tra il 1853 e il 1875, di Cortanze intraprese numerosi viaggi nei territori del maharaja, valicando la grande catena montuosa ed esplorando il Ladakh ed il Baltistan e inoltrandosi verso gli altipiani sconosciuti dell’Aksai-Chin ad oriente della valle del Nubra. Il Roero descrisse i suoi viaggi in tre volumi: Ricordi dei viaggi al Cashemir, Piccolo e Medio Thibet e Turchestan (Torino, 1881), nei quali si rivela un osservatore acuto e un viaggiatore coraggioso: le sue opere contengono anche utili ragguagli sui costumi e sulla lingua del paese.
All’inizio del Novecento iniziava poi la presenza tra le catene montuose dell’Asia centrale di alpinisti italiani, tra cui diverse guide alpine valdostane; ed è di alpinismo vero e proprio, oltre che di esplorazione geografica, che dobbiamo parlare presentando la figura di Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, Duca degli Abruzzi[22], che nel 1909 guida una grande carovana da Srinagar verso Skardu: la meta sarà l’esplorazione del Baltoro e verrà messo in atto anche un tentativo di conquista del K2, raggiungendo la quota di 7.150 metri che costituiva per allora un vero primato. Fra i componenti della spedizione vi era il fotografo Vittorio Sella e il chirurgo e fisiologo Filippo De Filippi.
Nel 1913 giunge in Ladakh uno dei fratelli Piacenza, accompagnato dal medico Borelli, da Calciati e dalla guida alpina Gaspard. Mario Piacenza è un imprenditore laniero del biellese: amante della montagna, svolge una notevole attività alpinistica con salite di grande impegno sia sulle Alpi, sia sui gruppi montuosi extraeuropei, dove si distingue anche per un’attività esplorativa in compagnia del fratello Guido. Assieme a Sella fu quindi uno dei primi fotoreporter dell’ area himalayana. Giunto in Ladakh nel marzo 1913 si trova impossibilitato ad intraprendere le scalate in programma, per cui procede fin oltre Leh con al seguito un voluminoso bagaglio di apparecchi fotografici, lastre ed una cinepresa da 35 mm con la quale filma in modo completo le cerimonie del Set-chu di Hemis. Da questo viaggio Piacenza riporta in Italia un vasto repertorio di testimonianze etnografiche mentre i suoi collaboratori si occupano di rilevamenti topografici e di ricerche di fisiologia umana. Finalmente il 3 agosto, assieme a Borelli ed a Gaspard, ascendono le cime dei picchi gemelli del Nun e del Kun (m. 7.147 e 7.095) e successivamente salgono lo Z3 chiamandolo “Cima Italia”. Mentre i compagni della spedizione fanno ritorno in Italia, Piacenza con le guide valdostane giunge in Sikkim per una perlustrazione della zona del Kanghenjiunga.
Sempre nell’anno 1913 parte la grande spedizione scientifica organizzata e guidata da Filippo de Filippi[23], che vuole proseguire il lavoro cominciato partecipando alla spedizione del 1909. La spedizione venne allestita non più per una meta alpinistica ma con uno scopo puramente scientifico: il rilevamento topografico di entrambi i versanti del Karakorum, che erano stati visitati dai viaggiatori inglesi, ma dei quali non si conosceva l’esatta conformazione. Oltre ai sette italiani, vanno menzionati anche due inglesi del Servizio Trigonometrico Indiano e due indiani appartenenti alla famosa serie di pandit[24] che sotto vari travestimenti avevano rilevato l’Himàlaya nepalese e tibetano, quest’ultimi giunsero accompagnati da due gurka. Raggiunta Skardu la spedizione trascorse l’inverno, mentre Giotto Dainelli[25] terminava il rilevamento di alcune zone del Baltistan, raggiungendo poi gli altri membri della spedizione a Leh; lungo il percorso Dainelli ha l’occasione di documentarsi e studiare le popolazioni del Purig, i Dardi ed i Baltì. Petigax guida un tentativo di raggiungere l’altipiano delle Rupshu, che però fallisce per la troppa neve, mentre si riescono a rilevare le zone dell’altipiano Depsang e tutta la zona orientale del Karakorum esplorando i ghiacciai Rimu e Siachen. La spedizione prosegue e, dopo aver valicato la catena, riesce a penetrare nel Turkestan cinese, raggiungendo Yarkand e Kashgar, continuando verso il Turkestan russo ed arrivando a Taskent. I partecipanti sono però costretti ad un ritorno precipitoso dallo scoppio delle ostilità; tuttavia i risultati scientifici, raccolti in una imponente documentazione, sono rilevanti.
Giotto Dainelli tornò poi nella stessa zona con una spedizione da lui guidata, organizzata con l’Istuto geografico Militare alla quale parteciparono il tenente Enrico Cecioni (fotografo) e il capitano Alessandro Latini (topografo). Questa missione, che raggiunse zone ancora inesplorate, fu descritta da Dainelli in Il mio viaggio nel Tibet Occidentale (Mondadori, Milano, 1932, pp. XVI + 405).
Le spedizioni del Duca degli Abruzzi, del Piacenza, del De Filippi e del Dainelli sono dunque state fondamentali, poichè raccolsero per la prima volta notizie antropologiche ed etnografiche che contribuirono in maniera determinante allo studio di quelle terre, e costituiscono un fiore all’occhiello per la scienza delle esplorazioni italiane.
Note:
[1] Maës Titianus è stato un antico viaggiatore di cultura ellenistica che si dice abbia viaggiato a lungo seguendo la via della seta partendo dal mondo Mediterraneo. All’inizio del II secolo o alla fine del I secolo a.C., durante una pausa della guerra tra Romani e Parti, il suo gruppo raggiunse la famosa Torre di Pietra, Tashkurgan, nel Pamir. Non si sa nulla di lui, tranne per una breve citazione nel Geografia di Tolomeo, 1.11.7, la cui conoscenza di Maës deriva da una fonte intermedia, Marino di Tiro: « Marino dice che un certo macedone di nome Maen, chiamato anche Titian, figlio di un mercante, e mercante lui stesso, misurò la lunghezza del suo viaggio [alla Torre di Pietra], nonostante non raggiunse lui stesso i Sera ma vi mandò altri » (Claudio Tolomeo, I-XI). I Maesii Titianii sono una famiglia vissuta in Sicilia attorno al 150-210.
[2] In tibetano oro dice gser
[3] Manoel Marques, nato nel 1596 ed entrato nella Compagnia di Gesù nel 1618. Fu il compagno di viaggio di António de Andrade in Tibet, prima traversata della catena himalayana da parte di europei, rimanendovi dall’agosto al settembre 1624, e ritornandovi varie volte. Fu in Tibet: dall’aprile alla fine del 1626, dopo avervi condotto i padri João de Oliveira, Francisco Godinho e Alano dos Anjos (Alain de la Beauchaire); dal settembre al novembre 1627, dopo aver condotto il padre António Pereira; in vari periodi successivi, guidandovi tra gli altri il padre Francisco de Azevedo, nel 1627, fino a condurvi il padre Nuño Coresma, alla guida della sfortunata spedizione giunta a Tsaparang nel luglio 1635, che nell’autunno dello stesso anno fu costretta ad abbandonare la missione. L’epilogo fu, per Marques, ancora più tragico: nell’ultimo tentativo di restaurare la missione del Tibet, su pressione del Generale della Compagnia, accompagnò tre padri da Agra a Srinagar nel Garhwal, e da lì partì, nell’estate del 1640, con il padre Stanislao Malpichi, superiore di quella missione. Furono arrestati appena entrati in Tibet; riuscirono a fuggire, ma Marques fu ripreso e nel 1641 risulta ancora prigioniero a Tsaparang, dopo di che se ne perdono le tracce.
[4] Padre Gonzales de Souza, nato a Matosinhos (Portogallo) nel 1589, entrò nella Compagnia di Gesù nel 1605, fu inviato in India nel 1611 e impegnato nell’Impero moghul dal 1619.
[5] João de Oliveira, nato nel 1595 a Damão (insediamento portoghese, divenuto capitale dello Stato Portoghese dell’India, fino all’indipendenza di questa; oggi Daman, distretto del territorio federato di Diu e Daman) ed entrato diciassettenne nella Compagnia di Gesù. Fu mandato nella missione dell’Impero moghul e subito a Tsaparang, dove rimase fino all’ottobre 1631, quando, insieme al padre Francisco de Azevedo, si spinse fino a Leh, in Ladakh. Rientrato ad Agra nel gennaio 1632, operò in quella missione, dove le liste dei missionari lo attestano fino al 1641.
[6] Francisco Godinho (Évora, Portogallo, 1596 – Goa 30.1.1662), entrato nel 1615 nella Compagnia di Gesù, partì per l’India nel 1619. Le precarie condizioni di salute lo fecero rimanere in Tibet solo un anno, e, dopo due anni passati ad Agra, rientrò nella missione di Goa, impegnato sia in sede, sia a Diu, Damão e Bassein.
[7] Alano dos Anjos è il nome portoghese adottato in India dal francese Alain de la Beauchaire (Pont-à-Mousson, Lorraine, Francia, 1592 – Srinagar, Garhwal, 1636) che, entrato nel 1607 nellaCompagnia di Gesù, partì per l’India nel 1622. Dopo una prima permanenza di circa due anni in Tibet, vi ritornò una seconda volta per rimanervi fino al 1635. Rientrato ad Agra, si portò di nuovo, nel 1636, a Srinagar, dove morì poco dopo.
[8] António Pereira, nato nel 1596 a Lixa, nel distretto di Porto, Portogallo, entrò nel 1612 nella Compagnia di Gesù; partì per l’India nel 1624 e nel 1626 fu assegnato alla missione dell’Impero moghul.
[9] António da Fonseca, nato a Mourão, nel distretto di Évora, Portogallo, nel 1600, entrò ventenne nella Compagnia di Gesù. Rimase in Tibet forse sino al 1635.
[10] Francisco de Azevedo (Lisboa 1578 – Goa 12.8.1860) trascorse quasi tutta la sua vita in India, essendovisi recato già da bambino; nel 1597, a Goa, entrò nella C. d. G. Dopo Diu (1614) e Rachol (1620), fu visitatore di missioni in Africa sud-orientale, e, nel 1627 fu assegnato alla missione dell’Impero moghul. Designato come visitatore del Tibet, dopo l’invasione del regno di Guge da parte del Ladakh (1630), Azevedo, guidato da Manoel Marques, partì da Agra il 28 giugno 1631, raggiunse Srinagar nel Garhwal, da dove il 31 luglio si incamminò verso Tsaparang, che raggiunse il 25 agosto 1631. Da qui, il 4 ottobre 1631, partì verso Leh, in compagnia di João de Oliveira, attraverso terre non ancora visitate da europei. Raggiunta il 25 ottobre 1631 la capitale del Ladakh, i due missionari vi rimasero fino al 7 novembre 1631, quando, assolto il loro compito, presero una diversa via del ritorno, attraverso Lahul e Kulu (arrivo a Nagar, capitale di Kulu, il 26 novembre 1631), che li condusse ad Agra il 3 gennaio 1632. De Azevedo lasciò una importante relazione in portoghese sul suo viaggio, un manoscritto non autografo, ma da lui firmato, che porta il destinatario (Padre António Freire, procuratore delle missioni dell’India in Portogallo) come intestazione: Pera o Padre Antonio Freire, Procurador das Provincias da India da Comp. de Jesus em Portugal. De Azevedo è il primo visitatore europeo accertato, anche se sembra che un mercante portoghese, Diogo d’Almeida, vi avesse soggiornato per due anni agli inizi del diciassettesimo secolo. Ignorando il viaggio dei missionari portoghesi e trascurando il passaggio, nel 1715, del gesuita italiano Ippolito Desideri (1684-1733), in compagnia del confratello portoghese Manoel Freyre (1679- ?), il grande esploratore inglese William Moorcroft (1767-1825), che fu in Ladakh fra il 1820 e il 1822, si ritenne il primo visitatore europeo di Leh.
[11] Nuño Coresma, nato nel 1600 (probabilmente nel villaggio San Roman, del distretto spagnolo di Tordesillas) entrò sedicenne nella C. d. G. e andò in India nel 1625. Dopo la missione a Tsaparang, nel Tibet occidentale (luglio-ottobre 1635), diresse un collegio nell’isola Salsette. Morì nell’ ottobre 1650 presso le coste di Mozambico, probabilmente mentre rientrava a Goa dopo una permanenza in Europa
[12] Balthasar Caldeira (Macao 1609 – Goa 3.5.1678) entrò nella C. d. G. a Goa nel 1627 e rimase tre anni nella missione dell’Impero moghul; poi operò nel Tonchino, in Cina, Giappone e altri paesi, prima di tornare in India, dove ebbe molti incarichi.
[13] Pietro de Freytas (Mondim, Portogallo, 1608 – Goa 3.5.1840) entrò nella C. d. G. a Goa nel 1630 e, sempre a Goa fu professore di teologia.
[14] Barreiros (Lisboa 1605 – Bassein 8.3.1866) divenne fratello laico della C. d. G. a Lisbona quando era ventenne; risulta a Goa nel 1633 e, al ritorno da Srinagar del Garhwal, passò a Bassein, dove fu impegnato per la maggior parte della sua vita.
[15] Ambrosio Correa (Aveiro, Portogallo, 1606 – Angola 24.5.1652) entrò nella C. d. G. a Lisbona nel 1622. In India dal 1630, dopo la missione a Tsaparang, dove rimase dal luglio al settembre 1635, fu impegnato a Goa fino al 1650.
[16] Stanislao Malpichi (Catanzaro, , 1600 – ?) rimase dal 1637 a 1644 nel Garhwal e fu molto amico del rajah locale. Successivamente si alternò fra Goa e Agra, dove fu anche tutore di Dara Shikoh (20.3.1615 – 30.8.1659), figlio maggiore di Shah Jahan (5.1.1592 – 22.1.1966), imperatore moghul dal 1628 al 1658, e di sua moglie Mumtaz Mahal (1593 -17.6.1631), per la quale fu edificato, ad Agra, il Taj Mahal. Nel 1662 assunse la massima carica della provincia missionaria di Goa.
[17] Grueber, rientrato a Roma fornì elementi al padre Athanasius Kircher per il suo famoso libro sulla Cina, dove appare il primo disegno del Potala di Lhasa.
[18] G. TUCCI, Italia e Oriente, Garzanti (Piani. Biblioteca di studi economici, sociali, politici e storici), Milano, 1949, pp. (5) + 263 [Nuova ed. IsIAO (Il Nuovo Ramusio, collana diretta da G. Gnoli, 1), Roma, 2005, a cura di Francesco D’Arelli, presentazione di Gherardo Gnoli, p. 212]: il paragrafo “P. Ippolito Desideri” è alle pp. 201-204 [ed. 2005, pp. 155-158] nell’ambito del Cap. XI, “L’Italia e l’esplorazione del Tibet”, pp. 191-210 [ed. 2005, pp. 149-162].
[19] All’inizio del XVIII secolo, la Cina ottenne il diritto di avere un commissario residente (amban) a Lhasa. Il Tibet si trovava sotto una specie di protettorato allora, pur essendo nominalmente indipendente. Nel 1720 i Manciù che dominavano la Cina si intromisero nelle questioni tibetane inviando truppe per scortare il giovane settimo Dalai Lama, nato nel Tibet orientale a Lhasa. Quando le truppe manciù abbandonarono Lhasa, lasciarono indietro un residente (o amban) ufficialmente per rimanere a disposizione del Dalai Lama, ma in effetti per proteggere i loro propri interessi: questo fu l’inizio della interferenza Manciù negli affari tibetani. Quando i tibetani si ribellarono contro i Cinesi nel 1750 e uccisero l’amban, l’esercito cinese entrò nel paese e nominò un successore del funzionario ucciso. Un intervento Manciù in Tibet si verificò ancora nel 1790, quando i rappresentanti (gli amban) dell’imperatore manciù si trasferirono a Lhasa e tentarono di impegnarsi in “indicibili” intrighi per intromettersi negli affari tibetani. Nel frattempo, la situazione internazionale era assai peggiorata: i Britannici, dal 1757 avevano assunto l’intero controllo della penisola indiana e, dal 1835 al 1843, completavano la creazione del protettorato sul confinante Kashmir. Il Tibet era divenuto un “paese a rischio”, uno “stato cuscinetto” nella morsa dei Cinesi a settentrione e dei Britannici a meridione. Nel 1856 un trattato stabilì i confini tra Tibet e Nepal e l’accordo fu stipulato dai Cinesi per il Tibet e dai britannici per il Nepal. I Manciù ottennero un controllo nominale sul Tibet Orientale durante questo periodo che terminò nel 1865 quando i tibetani ripresero possesso dei territori perduti. Quando nacque il XIII Dalai Lama, il Tibet si trovava già di fatto sotto protettorato cinese.
[20] Sándor Kőrösi Csoma (27 Marzo 1784 – 11 Aprile 1842), noto anche come Alexander Csoma de Kőrös, era un filologo e orientalista ungherese, autore del primo dizionario Tibetano – Inglese. Era nato a Kőrös in Transilvania. Sperando di riuscire a rintracciare le origini del gruppo etnico Magiaro, partì per l’Oriente nel 1820 e, dopo un lungo viaggio avventuroso, giunse nel Ladakh, dove, con grandi sacrifici, nonostante l’aiuto del governo inglese, si dedicò allo studio della lingua tibetana. Produsse il primo dizionario Tibetano – Inglese mentre risiedeva al monastero di Zangla, nello Zanskar, nel 1823; ill testo venne pubblicato l’anno successivo. Nel 1831 si stabilì a Calcutta, dove compilò il suo Tibetan Grammar and Dictionary e catalogò le opere tibetane della biblioteca dell’ Asiatic Society. Morì a Darjeeling nel 1842. Si dice che fosse in grado di leggere in 17 lingue diverse. E’ considerato il fondatore della Tibetologia.
[21] Tucci G., «Italia e Oriente», Garzanti (Piani. Biblioteca di studi economici, sociali, politici e storici), Milano, 1949 pp. 206-208.
[22] Luigi Amedeo Giuseppe Maria Ferdinando Francesco di Savoia, duca degli Abruzzi (Madrid, 29 gennaio 1873 – Villaggio Duca degli Abruzzi, 18 marzo 1933), fu esploratore e alpinista. Nel 1894 salpa da Venezia sulla Cristoforo Colombo per una missione diplomatica che dura ventisei mesi e che gli consente di compiere la sua prima circumnavigazione del globo. Nel corso di questo viaggio, sbarcato a Victoria, nella British Columbia, viene a conoscenza dell’esistenza nella regione tra Alaska e Yukon di una cima inviolata di 5.489 metri, il Monte Saint Elias.Durante una sosta di un mese a Calcutta, viaggia attraverso l’India insieme ai colleghi ufficiali Umberto Cagni e Filippo De Filippi arrivando fino alle prime propaggini dell’Himalaya, da cui può vedere a distanza per la prima volta un ottomila, il Kangchenjunga. Nel giro di poco più di un decennio, tra il 1897 e il 1909, ha compiuto le spedizioni che lo hanno reso internazionalmente celebre: nel 1897 la prima ascensione del Monte Saint Elias, in Alaska; nel 1900 la spedizione al Polo Nord che raggiunse la latitudine Nord più avanzata dell’epoca; nel 1906 l’esplorazione del massiccio africano del Ruwenzori e l’ascesa delle sue cime maggiori; nel 1909 la spedizione nel Karakorum, con il fallito tentativo di ascesa del K2 e il nuovo record mondiale di altitudine. Durante la Prima guerra mondiale è stato al comando della flotta alleata; in seguito si è dedicato fino alla sua morte ad un innovativo progetto di sperimentazione agricola e di cooperazione con le popolazioni locali in Somalia.
[23] Filippo de Filippi (Torino 6.4.1869 – Settignano, Firenze 23.9.1938), figlio di Giuseppe e di Olimpia Sella, medico e fisiologo, docente di medicina operativa all’Università di Bologna, si perfezionò in chimica fisiologica in istituti scientifici tedeschi e inglesi, producendo importanti pubblicazioni, prima che il suo interesse per la montagna e i viaggi lo indirizzassero totalmente verso i campi della geografia e delle esplorazioni. Nel 1901 sposò la scrittrice inglese Caroline Fitzgerald (figlia del Rev. William John), morta prematuramente dieci anni dopo. Prestò servizio volontario in guerra come tenente-colonnello medico nella Croce Rossa e poi fu inviato a Londra, dove dal 1917 al 1919 organizzò e diresse l’Ufficio italiano di propaganda e informazione. Insignito di altre onorificenze dal governo britannico e da varie società geografiche nazionali, fu membro dell’Accademia dei Lincei, dell’Accademia Pontificia e di altre importanti istituzioni. Autore di scalate su varie cime alpine, delle quali rese testimonianza nelle relazioni pubblicate sulla Rivista del Club Alpino Italiano dal 1887 in poi, partecipò alla spedizione di Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, in Alaska nel 1897 (conquista del monte Saint Elias, il 31 luglio) e ne scrisse la relazione. Fu autore anche delle relazioni di altre spedizioni africane dello stesso Duca degli Abruzzi (Ruwenzori, 1906, Uebi Scebeli 1928) pur non partecipandovi. Importante fu invece la sua partecipazione alla spedizione del 1909 al Karakorum del Duca degli Abruzzi che affrontò il K2 e raggiunse sul Chogolisa la quota di 7.500 metri, la massima raggiunta fino allora, e che fece importanti rilievi del ghiacciaio Baltoro; la relazione sempre di De Filippi, arricchita dalle splendide fotografie di Vittorio Sella, uscì nel 1912 in italiano (La Spedizione nel Karakorum e nell’Imalaia Occidentale, 1909, Zanichelli, Bologna) e in inglese (Karakorum and Western Himalaya, 1909, Constable, London/E.P. Dutton, New York). Questa fu la premessa per una grande spedizione scientifica, diretta dallo stesso De Filippi, che nel periodo 1913-14 si articolò fra Karakorum e Himalaya estendendosi nel Turkestan cinese (attuale Sinkiang o, con la nuova traslitterazione cinese, Xinjiang), producendo una grande messe di risultati riportati nei 15 volumi (Zanichelli editore, Bologna), usciti fra il 1925 e il 1934, delle Relazioni scientifiche della spedizione italiana De Filippi nell’Himalaia, Caracorum e Turchestan cinese (1913-1914), riunite in due serie, una coordinata dallo stesso De Filippi, l’altra dal geologo e geografo Giotto Dainelli (Firenze 19.5.1878 – ivi 17.12.1968). Alla spedizione presero parte i geografi e geologi Giotto Dainelli e Olinto Marinelli, l’astrofisico Giorgio Abetti (docente all’Università di Roma e futuro direttore dell’Osservatorio di Arcetri), i meteorologi marchese Nello Venturi Ginori e Camillo Alessandri, il primo tenente di vascello Alberto Alessio, il tenente del Genio Cesare Antilli (a cui si debbono le splendide fotografie), l’ingegnere John Alfred Spranger (collaboratore di Alessio e Abetti nei lavori geodetici e topografici) e la guida alpina di Courmayeur, Joseph Petigax (già accompagnatore del Duca degli Abruzzi in varie spedizioni, tra le quali quella del 1909 al Karakorum). Erano inoltre aggregati al gruppo italiano tre topografi del Servizio trigonometrico indiano: il maggiore inglese Henry Wood (autore di una specifica pubblicazione su quella spedizione) e due collaboratori indiani (Jamna Pranad e Shib Lal)
[24] Pandit è un titolo onorifico col quale in India si indica uno studioso o un insegnante dalla conoscenza particolarmente approfondita della lingua sanscrita, della religione, della musica o della filosofia. Il termine significa in sanscrito “dotto, maestro” e spesso viene premesso al nome di importanti personaggi appartenenti alla casta dei brahmani
[25] Giotto Dainelli (Firenze 19.5 1878 – Firenze 16.11.1968), figlio del generale Luigi e di Virginia Mari, nacque a Firenze il 19 maggio 1878. Vantava ascendenze illustri: il padre era imparentato con i carbonari e patrioti bolognesi Zambeccari e Ranuzzi; la madre era figlia dell’avvocato Adriano Mari (1813-1887), politico della Destra che rivestì importanti cariche istituzionali. Trascorse la sua infanzia lontano da Firenze, a seguito dei cambiamenti delle sedi di servizio del padre, ed ebbe modo di conoscere l’Europa data l’abitudine della famiglia di approfittare delle vacanze estive per compiere viaggi all’estero. Nel 1900 si laureò in Scienze naturali all’Istituto di Studi Superiori di Firenze, dove fu allievo del geologo e paleontologo padovano Carlo De Stefani (1851-1924), all’epoca il più illustre docente della materia (fu direttore dell’Istituto di Geologia di Firenze e accademico dei Lincei); in seguito si perfezionò all’Università di Vienna. Dainelli mostrò subito il suo valore di studioso con le pubblicazioni geologiche e paleontologiche apparse nel 1901, le prime di una serie numerosa, estesa fino al 1967, che costituisce ancora oggi un ricco patrimonio informativo, fecondo di validi insegnamenti. Nel 1903 conseguì a Firenze la libera docenza in Geologia e Geografia fisica e dal 1914 al 1921 tenne la cattedra di Geografia nella Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa; successivamente, titolare della cattedra di geologia a Napoli fino al 1924, anno in cui, morto De Stefani, tornò a Firenze per subentrare nella cattedra di Geologia del suo maestro, tenuta poi ininterrottamente fino al 1944 e ripresa, nel secondo dopoguerra, fino al 1953. Dainelli non fu solo uno studioso da tavolino, ma anche autore di numerosi viaggi di studio e missioni esplorative, qualificandosi come un grande viaggiatore dotato di abilità alpinistiche. Già nel 1905-1906 compì un viaggio esplorativo in Eritrea, in compagnia del geografo Olinto Marinelli, suo amico e compagno di studi. Ne riportò una ricca messe di dati e di materiali, utilizzati per il resoconto, pubblicato a Firenze nel 1912 con il titolo Risultati scientifici di un viaggio nella Colonia Eritrea. Tornò nel Corno d’Africa nel 1936-1937 con una missione esplorativa al lago Tana, da lui organizzata e diretta su incarico dell’Accademia d’Italia, della quale era membro. Da quel viaggio derivò il volume La regione del lago Tana, pubblicato a Milano nel 1939. Importante la partecipazione del geologo fiorentino alla spedizione scientifica al Karakorum, effettuata nel 1913-1914 sotto la guida di Filippo De Filippi, e che si impose come la più rilevante e fruttuosa compiuta in quell’area. La ricchissima raccolta di dati e materiali della spedizione sopra ricordata trovò degna e appropriata utilizzazione nelle Relazioni Scientifiche della Spedizione Italiana De Filippi nell’Himàlaia, Caracorùm e Turchestàn Cinese (1913-1914), pubblicate in 18 volumi fra il 1922 e il 1934 dall’editore Zanichelli di Bologna, e divisa di due serie. La seconda, Resultati geologici e geografici pubblicati sotto la direzione di Giotto Dainelli (12 volumi in 14 tomi, 1922-1934), impegnò vari eminenti studiosi, geologi paleontologi, botanici, zoologi e antropologi, non partecipanti alla spedizione. Lo stesso Dainelli fu direttamente autore dei volumi: 1. La esplorazione della regione fra l’Himàlaja occidentale e il Caracorùm (1934); 2. La serie dei terreni (2 tomi, 1933 e 1934; 3. Studi sul glaciale (2 tomi, 1922); 4. Le condizioni fisiche attuali (1928; insieme a Olinto Marinelli); 8. Le condizioni delle genti (1924); 9. I tipi umani (1925; insieme a Renato Biasutti); 12. Indici analitici (1934). Dainelli pubblicò anche il diario della sua esplorazione e per completare le osservazioni compiute nel 1913-1914, tornò nella stessa zona a capo di una spedizione. Nel 1944 Dainelli, dopo essere stato Podestà fascista di Firenze, seguì Mussolini a Salò (Repubblica Sociale Italiana), come direttore dell’Accademia d’Italia. Lasciato, il 1° novembre 1953, l’insegnamento universitario di Geologia a Firenze, a seguito del compimento dei 75 anni, si trasferì a Roma; morì il 16 novembre 1968 a Firenze, dove era da poco rientrato..A suo nome risultano una trentina di specie fossili e quattro viventi e gli fu intitolata anche una cima dei monti Kazbegi, un massiccio montuoso del Caucaso georgiano, che comprende i vulcani, ora spenti, Kazbek e Khabarjina. Dotato di forte personalità, oratore efficace e brillante scrittore, Dainelli si impose fra le personalità di spicco della cultura italiana fra le due guerre. Socio dal 1919 dell’Accademia dei Lincei e, in seguito, dell’Accademia d’Italia, della quale fu presidente, dopo l’uccisione (15.4.1944) di Giovanni Gentile, negli anni della Repubblica di Salò; socio della Pontificia Accademia delle Scienze e socio corrispondente o onorario di tutte le più importanti Società Geografiche nazionali, gli fu assegnata nel 1954, dalla Società Geografica Italiana, la medaglia d’oro per i grandi esploratori. Fu autore di circa seicento opere (fra libri e articoli) di argomento geografico e geologico, sia specialistiche che divulgative. Spaziò in ogni campo della geografia e della geologia: dalla paleontologia alla glaciologia, alla morfologia, alla geografia antropica, alla storia delle esplorazioni. Oltre alle ricerche connesse alle sue esplorazioni asiatiche e africane (Geologia dell’Africa Orientale, 1943; Gli esploratori italiani in Africa, 1960), si occupò ampiamente dell’Italia, sia in generale che di sue particolari zone: Atlante fisico-economico d’Italia, 1940 (coordinatore e in gran parte autore); Le Alpi, 1963; L’Eocene friulano, 1915; La struttura delle Prealpi friulane, 1921. Specificamente sulla sua regione si ricordano: Le zone altimetriche del Monte Amiata, 1910; La distribuzione della popolazione in Toscana, 1917. Collaborò all’ Enciclopedia Italiana; fondò e diresse le “Memorie geografiche” e le “Memorie geologiche e geografiche”.
(continua…)
Andrea Morandi