L’alchimia guerriera nell’esoterismo di Dante – Umberto Bianchi
Parlare di Dante non è cosa facile, anche perché la figura del grande poeta fiorentino è, per lo più gravata da una rigida ed ottusa interpretazione che, troppo spesso, ci riporta alla stereotipata immagine di un quanto mai rigido e conservatore, cantore dei vizi e delle virtù della sua epoca. Una specie di grande affrescatore, in chiave poetica, dell’immensa varietà delle molteplici tipologie caratteriali umane e di come esse venissero giudicate e sanzionate, durante l’Evo Medio. Una lettura spesso pedante e noiosa, assurta quasi a dogma da parte dell’ufficialità letteraria nazionale e non solo, dimentica dei significati reconditi e di non secondaria importanza, che il testo presenta. A dire il vero, di un aspetto “altro” della “Commedia” di Dante, si inizia già a trattare in modo più o meno soffuso, durante il Rinascimento, quando si comincerà ad esprimere qualche ragionevole dubbio sulla figura di Beatrice e sulla reale interpretazione che le si sarebbe dovuto attribuire. Ma un vero e proprio “exploit” interpretativo in tal senso, lo si avrà nel 18° secolo quando, nel 1723, il canonico Anton Maria Biscioni, inizierà in “studi Danteschi” ad esprimersi in tal senso, in modo più organico. Il 19° secolo assisterà ad una sicuramente più decisa presa di posizione in tal senso, da parte di alcuni autori, il primo tra i quali sarebbe stato quel Gabriele Rossetti, carbonaro in esilio a Londra, (e padre di quel Dante Gabriel Rossetti, che assieme a Brian Alma Tadema ed altri, darà vita alla scuola pittorica britannica dei “pre raffaelliti”, fortemente ammantati di un simbolismo mutuato da quello rinascimentale nostrano, sic!)che, nel suo “Commento Analitico alla Divina Commedia” (1826), darà di Dante un’interpretazione, quale iniziato alla dottrina pitagorica ed a tutto il suo portato esoterico.
Spingendoci oltre, arrivando al 1898, sarà Giovanni Pascoli, ad attribuire in “Minerva Oscura” e nel 1900 in “Sotto il velame”, una valenza esoterica alla figura di Dante ed alla sua opera, senza per questo, ricevere alcun riconoscimento ufficiale, anzi, rimanendo totalmente ignorato. Stessa sorte questa, che toccherà al suo allievo Luigi Valli che, nel 1922 in “La croce e l’Aquila” , darà dell’Alighieri un’interpretazione legata ai canoni di un irrazionalismo di stampo cattolico, (anziché una legata a quelli delle classiche dottrine esoteriche…), tanto da farlo impropriamente associare, da parte di un Natalino Sapegno, a figure come Stirner o addirittura ad un Corradini. Unico ascoltato, almeno in certi ambiti, neanche tra l’altro, italiani, sarà il grande studioso francese di scienze iniziatiche, Renè Guenon, che nel suo “L’esoterismo di Dante”, assocerà il poeta all’eredità spirituale dei Templari. Perché si possa intendere, quale sia la reale portata e valenza del messaggio iniziatico che pervade l’intera opera di Dante ed in particolare, la sua “Commedia”, bisogna anzitutto cercare di inquadrare il contesto epocale in cui il Nostro si muove. L’Evo Medio, o Età di Mezzo, è caratterizzato dalla contrapposizione dei due grandi ordini politici universali, Chiesa ed Impero che, all’epoca di Dante erano arrivati ad una fase oramai calante, tutta a favore della Chiesa e che, al contempo, preludeva alla nascita delle Signorie in Italia e degli Stati Nazionali in Europa.
Dal punto filosofico, il Medio Evo è attraversato da due grandi correnti di pensiero: la prima è costituita dall’Aristotelismo e dalla Scolastica che, alla Chiesa Cattolica avevano fornito un solido e rigido sistema di pensiero dottrinale a cui andava, invece, contrapponendosi, la seconda delle grandi correnti dell’epoca, rappresentata da quella Gnosi e dal suo pessimismo cosmico che, a partire dall’esperienza iranica di Mani, avrebbe ispirato molteplici gruppi, dai Bogomili ai Pauliciani, dai Catari ai Templari, ambedue esperienze queste, conclusesi in modo tragico. L’epoca di Dante risente dell’influenza della Gnosi, presente nella poesia trovadorica di origine provenzale e di tutte quelle regioni del meridione di Francia, che dettero i propri natali al movimento cataro. Tali correnti troveranno in Italia, la propria espressione nel movimento dei cosiddetti “Fedeli d’Amore”, al quale, oltre a Dante, apparterranno anche poeti e letterati quali Cavalcanti, Guinizelli, Francesco da Barberino, Cecco d’Ascoli, Cecco Angiolieri, ma anche gli stessi Petrarca e Boccaccio.
Ora, al centro dei “Fedeli”, quell’ “amor cortese”, indirizzato a quella che, in apparenza “donna angelicata”, altri non sarebbe che una trasposizione metaforica (compiuta per evitare accuse di eresia da parte del sempre vigile, occhio dell’Inquisizione…) di quella “Pistis Sophia/Sapienza Occulta” a cui gli Gnostici andavano aspirando, al fine di poter risalire dalle oscurità della Materia, alle celesti dimensioni uraniche.
Un motivo questo, che accomunerà altri mitologemi dell’Evo Medio, anch’essi in qualche modo, caratterizzati dalla ricerca della “donna angelicata”, contro la quale si ergeranno ostacoli di varia natura, come nel caso di Sigfrido e della scoperta di Brunilde, sorvegliata dal drago Fafner o della stessa vicenda del ciclo arturiano di Lancillotto e Ginevra o nella stessa narrazione sul Santo Graal. Ma in Dante e nella sua “Commedia”, oltre a questo motivo, si presentano una ridda di elementi tale, da renderlo, rispetto ai propri contemporanei accoliti, un personaggio eterodosso, non assolutamente inquadrabile in facili e precostituiti schemi e questo, sotto tutti i punti di vista. Cominciando dalla struttura iconografica della Commedia, quello dell’aldilà, così come qui rappresentato, ad una prima apparenza, potrebbe sembrare una perfetta iconografia tolemaica, un tipico edificio teologico medievale, forte e granitico nelle proprie irremovibili certezze teologiche. Ma, a ben vedere, non è così. Anzitutto, a far da guida a Dante, nel primo e più suggestivo dei settori dell’Oltretomba, sarà il poeta romano Virgilio, all’epoca oggetto di una ammirata rivalutazione, in quanto nelle sue “Bucoliche”, avrebbe preannunciato il salvifico arrivo di un prodigioso “puer”, che pace e speranza avrebbe donato al mondo. Ma Virgilio è, anche e prima di tutto, colui che ha, attraverso un lavoro di interpolazione, esegesi e raccolta, creato il mito delle origini di Roma, attribuite alla stirpe del troiano Enea, in fuga da una Troia, vinta e distrutta da quei Greci, che i Romani avevano sottomesso ed annesso, quasi a voler vendicare lo “sgarbo” da questi compiuto un millennio prima, nei riguardi di quella avita città, dalla quale dicevano di trarre nobili origini.
Virgilio è, pertanto ed anzitutto, il cantore di quell’Impero Romano che, nella casata Giulio Claudia, affondava le proprie radici e che, allora come nell’Evo Medio rappresentava quell’altro ideale di Stato, che faceva da contrappeso alla “Ecclesia” e che, con essa, continuava ad avere dei contrasti, in Italia espressi dalle lotte intestine tra Guelfi Neri e Ghibellini, spesso appoggiati da quei Guelfi Bianchi, dei quali Dante Alighieri fu seguace. Oltre alla già citata guida di Virgilio Marone, gli svariati riferimenti alla precedente tradizione religiosa classica, che vanno dalla figura del nocchiero Caronte sull’infernale fiume Stige, all’immagine del mostruoso cane Cerbero, dal personaggio di Ulisse (qui condannato per la sua “ubris”, intrisa di fuorvianti e sleali astuzie…) ed oltre ancora, hanno aggiunto sulla figura del Guelfo Bianco Alighieri, un ulteriore elemento di sospetto. Ma il vero e proprio disvelamento della reale natura della Commedia, sta nella sua parte finale, in quel Paradiso, ove la guida dell’angelicata dama Beatrice, verrà sostituita da quella di Bernardo di Chiaravalle, il santo fondatore dell’ordine monastico-guerriero dei Templari (della cui guida Jacques De Molay, sembra che Dante abbia assistito al rogo, in quel di Parigi il 18 marzo del 1314…sic!), poi disciolti e perseguitati da parte di Filippo il Bello, sotto la spinta di Clemente V. A rendere ancora più intrigante ed aperta la Commedia ad una interpretazione, sotto una luce ben diversa da quella dello stantio letteralismo a cui la cultura ufficiale ci ha abituato, tutta una serie di riferimenti misterici, a piene mani disseminati lungo il poema.
A cominciare dalla sua stessa composizione metrica, in terzine ed endecasillabi che ci riportano alla valenza di forte simbolismo sacrale, legata a quei numeri, oltre ai numeri 9, 33 e 515, (quest’ultimo citato da Beatrice quale magico strumento di giustizia, nelle mani di un futuro messo divino…sic!). Ancor più preganti, i simboli della Rosa e del Cerchio che rappresenta Dio, nel Paradiso, oltre al richiamo alle Api, (versi 7 e seguenti-Paradiso…), un’altra immagine-simbolo dalle forti connotazioni esoteriche.
Ora, però, il cercare di dare a tutta questa rassegna di simboli misterici un preciso inquadramento dottrinale, rappresenta il bandolo di una matassa dalla non facile risoluzione. Come abbiamo già avuto modo di accennare, il Guenon ha visto in Dante un prosecutore del templarismo ed a sostegno delle proprie tesi, ci porta il caso del medaglione conservato a Vienna, riportante, da un lato il ritratto dello scultore Pietro da Pisa, dall’altro quello di Dante ed a lato una sigla, che ci ricondurrebbe al grado di Cavaliere Kadosh; una qualifica, questa, ad oggi, ancora in uso nelle gerarchie massoniche, di chiara derivazione templare. Ma, anche questa, al pari di altre, ci sembra essere una idea, connotata da un eccesso di semplificazione. Quello di Dante, andrebbe piuttosto definito, un vero e proprio percorso alchemico, compiuto mediante la narrazione poetica. Dante, anzitutto, si fa condurre attraverso i tre comparti dell’Oltretomba, da tre figure “mercuriali”, psicopompe e cioè: Virgilio, Beatrice e Bernardo di Chiaravalle. Di fronte alla constatazione dell’esistenza di fronte a sé del male e dei suoi vizi capitali, (le tre famose fiere…), che permeano di sé l’umana esistenza, il poeta fiorentino sceglie una via di catarsi alchemica, che deve comportare delle irrinunciabili e fondamentali tappe. La prima, sarà quella della discesa nelle tenebre dell’oscurità, rappresentata da quell’Inferno, che altri non è che il mondo materiale ed i suoi mille vizi e difetti, (un motivo questo, che risente dei richiami del dualismo gnostico Cataro e manicheo…sic!) che, però ne fanno una qualcosa di tremendamente affascinante, come appunto è quell’Inferno che, della Commedia è il luogo più stimolante dell’intero Oltretomba. Ma per tale discesa effettuare, senza esserne corrotti e macchiati, per non esser definitivamente trascinati nel gorgo delle umane passioni, bisogna esser sorretti da temperanza, forza e virtù, sintetizzate da quell’idea di Impero, qui incarnato nella figura di Virgilio, inteso non solo nella sua accezione meramente politica, ma, specialmente quale immagine di stabilizzazione e quadratura interiore.
La risalita verso le altre dimensioni ultraterrene, è una graduale ascesa verso la luce ed è un altro motivo tipico di quel dualismo a cui abbiamo poc’anzi accennato ma, in primis, esso è una evidente trasposizione letteraria, del succitato percorso alchemico. Dalla discesa agli Inferi (Nigredo), si passa ad uno stadio neutro (Albedo…) a quel Purgatorio parzialmente mondato dal peccato, ma non ancora investito dalla luce della perfezione, riscontrabile, invece, nello stato di Rubedo, qui rappresentato da quella rossa rosa dei santi, che sembra dischiudere i propri petali all’immagine di Dio ed alla cui visione Dante è, stavolta, non più condotto dalla Pistis Sophia/Beatrice. In quanto donna, essa è rappresentazione teofanica di Eros in dimensione umana che, in virtù del proprio ruolo di creatore e di animatore della più sensuale e coinvolgente tra le forze cosmiche, non può addivenire a quello stato di suprema ed apollinea perfezione, offerto dal disvelamento dell’essenza divina. Compito di mostrare a Dante tutto questo, nel proprio ruolo di psicopompo, non potrà che essere l’anima di un maestro iniziato ai misteri, quale solo Bernardo di Chiaravalle, architetto e monaco-guerriero, poteva essere. Lo stadio finale del processo alchemico, o Rubedo, dato dalla visione della Rossa e mistica Rosa, (successivamente mutuata dai Rosacroce…), è metafora dell’Essere che, aprendo i suoi petali, disvela la propria essenza agli occhi dell’uomo (tema questo, successivamente ripreso in chiave filosofica da Martin Heidegger, a proposito delle sue riflessioni sull’ontologia, svolte all’insegna di un marcato neo parmenidismo…sic!), alla quale avrebbe immediatamente fatto seguito la suprema visione di Dio, qui rappresentato da un cerchio, entro il quale è inscritto il ritratto di un uomo.
L’apice dell’intero percorso alchemico, non sta, quindi, come già malamente interpretato da una ottusa e sbrigativa lettura del testo, in una mistica contemplazione del divino, bensì, nell’identificazione dell’uomo con il principio divino. Al termine del cammino alchemico, l’uomo va facendosi Iddio, o, di converso, lo stesso Iddio, al fine di prender coscienza di sé, va facendosi uomo, creandolo o, per meglio dire, autoemanandosi in esso (la hegeliana autoctisi, sic!). Dal sanscrito “Ta tvam asi/tu sei quello”, la sia pur breve, ma lapidaria risposta a tutto questo, che ci riporta a quell’ antico motivo ermetico, a quella tentazione che, come un fiume sotterraneo attraversa tutta la letteratura esoterica dei secoli precedenti e di quelli a venire. Ed a questo punto, non ci può che sovvenire il nome di un altro contemporaneo di Dante che, vissuto in altre latitudini arrivò, per vie mistiche e filosofiche alla medesime conclusioni: il germanico Eckhart Von Hocheim/Meister Eckhart, anch’egli tra i primi ad usare, anziché il latino, la lingua germanica in letteratura ed anch’egli toccato dalla medesima e folgorante intuizione ontologica, per la quale passò non pochi guai con la germanica Inquisizione.
In poche parole: quello di Dante e della sua “Commedia”, altri non è che un cammino alchemico, un percorso di purificazione, in cui dal necessario immergersi nel mondo delle Tenebre, sorretti dalla forza e dalla temperanza di una virtù “imperiale”, si passa per gradi a quella dimensione numinosa , con la quale, un“io” purificato e sgrezzato, finirà con l’immedesimarsi. Tutto questo viene, ad oggi, negato o quantomeno, presuntuosamente ignorato da una ottusa critica letteraria visto che, a più riprese( Inferno, Canto 9°, Purgatorio Canto 8°, oltre ad una famosa lettera al Cavalcanti…), Dante non esita a parlarci di un senso nascosto che si celerebbe dietro a suoi versi, riconfermando, se ve ne fosse stato bisogno, sia la valenza iniziatica dei suoi scritti che, in contempo, la sua natura di spirito libero ed in controtendenza. La sua vita, non fu solamente il discettare di poesia, magari da qualche sicura ed aulica cattedra, ma anche il viverla in modo pericoloso ed anticonformista, prendendo attivamente parte alle vicende pubbliche del tempo. La sua, fu un’esistenza all’insegna di quella “Contemplazione-Azione”, che tanto ci riporta all’ellenico-cretese “Labris o Ascia Bipenne”, simbolo di pienezza e completamento di quelle dimensioni dell’umana esistenza, apparentemente collocate su poli opposti. E la sua “Commedia”, altri non è che la trasposizione alchemica in versi poetici, la magica rappresentazione, di un percorso di vita, all’insegna di una ascesi guerriera, qui ben sintetizzata dal detto “Vita militia est super terram”. La qual cosa, all’odierna Italietta, imbelle e spaventata, dovrebbe insegnare qualcosa…
Bibliografia di riferimento:
- Valli, Luigi, Il Segreto della Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia, Bologna, ed. Zanichelli, 1922;
- Guénon, René, L’esoterismo di Dante, Milano, Adelphi ed., 2001;
- Ambesi, Alberto Cesare, I Rosacroce, Milano, Armenia ed., 1982;
- Vinassa de Regny, Paolo, Dante e il simbolismo pitagorico, La Spezia, Fratelli Melita ed.,1988;
- Terenzoni, Angelo, L’ideale teocratico dantesco, Genova, Alkaest ed., 1979;
- John, Robert L., Dante templare. Una nuova interpretazione della Commedia, Milano,Hoepli ed., 1987;
- Dante templare, massone, rosacrociano, eretico ed incompreso (https://www.altrainformazione.it/wp/2010/01/19)
Umberto Bianchi