La traversata del Mar Nero in solitaria: un pellegrinaggio mistico – Emanuele Franz
Quando il 3 novembre 2023 mi sono imbarcato sulla nave da cargo commerciale Drujba, dal porto di Burgas, in Bulgaria, sulle coste occidentali del Mar Nero, erano già trascorsi nove giorni dalla mia partenza da casa, in Italia, e avevo già percorso all’incirca 1650 km. Ero solo e intenzionato a percorrere un pellegrinaggio di riflessione senza prendere aerei ma soltanto mezzi via nave e via terra. Volevo attraversare il Mar Nero da parte a parte, dalla costa occidentale a quella orientale, arrivando così a percorrere 1171 km di mare aperto giungendo in Asia via nave, e in solitudine. Sbarcato a Batumi, in Georgia, avrei percorso quasi 3000 km, con l’obiettivo poi di arrivare in Armenia e concludere il mio pellegrinaggio con oltre 3500 km percorsi senza prendere un aereo.
Di questi tempi difficili, con una situazione politica internazionale turbolenta, non esistono navi turistiche che attraversano il Mar Nero e molte compagnie hanno sospeso la tratta per via della guerra e per di più nessuna agenzia ha voluto vendermi il biglietto, cosicché, deciso al tutto per il tutto, ho trovato una delle rotte commerciali sulla via e con non poche trattative ho raggiunto un accordo.
Salito sulla nave verso le tre del pomeriggio e preso alloggio nella mia cabina, mi sono presto reso conto della lontananza da casa, gli amici e la famiglia a migliaia di chilometri, ormai rimasto lontano da tutto quello che la mia ordinarietà mi aveva fatto conoscere, le sicurezze quotidiane, il rasserenamento di un mondo conosciuto che ora lasciavo alle spalle.
In vita mia non avevo mai tentato né ordito una cosa simile. Certo, avevo preso un traghetto da Tallin, in Estonia per arrivare ad Helsinki, in Finlandia, ma si era trattato di qualche ora. Nel 2021, al Polo artico, lasciato l’abitato civile più settentrionale al mondo, mi ero avventurato in motoscafo per una giornata intera verso il ghiaccio scosceso del nord ma ora, trovandomi su una nave immensa a dover compiere una traversata di quattro giorni, mi rendevo conto che il confine dell’ordinario era stato di gran lunga superato. Appassionato come sono di storie di avventure, ho amato e imparato a memoria le storie di Magellano e Shackleton, ma non avevo mai dormito su una nave, per cui, rivivevo nella mia immaginazione le storie dei grandi capitani di ventura.
L’ambiente sulla nave da cargo che mi trasportava era un ambiente spartano, con servizi praticamente meno che essenziali, il piccolo nugolo di persone formava l’equipaggio era costituito da camionisti od operatori tecnici bulgari rudi e ben usati alla dura vita in mare. Anche volendo, la comunicazione con loro era impossibile perché parlavano solo bulgaro e non li vedevo che al breve momento comune della mensa, che durava circa dalle 18.00 alle 18.15 con un pasto frugale. Nessun telefono funzionava, non c’era internet, non avevo alcun modo di comunicare con l’esterno, ero totalmente isolato in mezzo al mare, un mare che a nord guardava alla Crimea, un mare che bagna il porto di Sebastopoli, appena pochi giorni prima della mia partenza bombardato a causa della guerra Russia-Ucraina, un mare che ospita sottomarini nucleari russi. Insomma, mi trovavo da solo, durante la terza guerra mondiale, ad attraversare uno degli scenari bellici più delicati del globo.
Ma non temevo le insidie dell’uomo, diciamo che erano più gli eventi interni l’oggetto della mia concentrazione. Ero consapevole che se dovevo solo lontanamente avere un malore, anche una costipazione o un mal di pancia, non avevo vie di fuga. Non potevo scappare. Non era come se mi trovassi in città, foss’anche in India, dove, in un modo o nell’altro, con l’intelligenza si può affrontare un problema. Qui dove mi trovavo, in mezzo a uno sconfinato mare di acqua nera, non c’erano uffici postali, non c’erano internet point, non c’erano farmacie, c’ero solo io, i container pieni di merci e, naturalmente, i delfini, passavo ore e guardarli guizzare nell’acqua.
Nella mia cabina avevo l’impressione che si esaurisse il circolo dell’universo, come se tutto quello che esistesse avesse inizio e fine qui e fuori da quella porta non ci fosse nulla. Guardavo frangersi le onde sull’esteso mare e mi accorgevo che quelle piccole bolle bianche che si formavano sull’acqua infinita, duravano appena un bagliore, la loro esistenza era come un battito di ciglio. E pure mi sono chiesto se l’intero universo non sia, in fondo, una piccola bolla sull’acqua, che dura un infinitesimo d’istante, per poi riassorbirsi nella totalità e riformarsi in continuazione. Ma se così fosse, il mare, immenso, quanti universi contiene? La parola “infinito”, in tal caso, è così obsoleta, un’entità così statica, un cubetto infinito è pur sempre un cubetto, mentre l’oceano dell’Essere è un fluttuare vivo e palpitante, non è un tutto ascrivibile a una sommatoria, in verità è anche un niente, un niente che contenendo sé stesso trabocca da sé medesimo. Lo sapeva bene Sant’Agostino, che vide un fanciullo tentare di gettare il mare intero in un buco nella sabbia. Infinitamente lontana dalla ragione è l’esistenza di Colui che emette e riassorbe incessantemente. Dove inizia Lui la ragione termina, dove la ragione inizia l’oceano della verità si spegne.
Questo pensavo mentre guardavo l’esteso mare di Elle, l’Ellesponto, come lo chiamavano gli antichi. Elle, sorella di Frisso, vi precipitò dentro cadendo dalla groppa di Crisomallo, l’Ariete magico dal Vello d’oro che il Dio Ermete consegnò a Nefele per permettere ai suoi figli Frisso ed Elle di salvarsi da un sacrificio umano. Frisso giunse così in Colchide, nel Caucaso, nell’attuale Georgia, e grato agli Dei sacrificò a Zeus l’Ariete. A questo pensavo, valicando il mare di Elle, a quando Giasone sulla nave Argo traversò tremila anni prima quelle stesse acque alla cerca del Vello di Frisso.
Qual sorte mi toccava dunque? Giungere alla Colchide, come gli eroi dei millenni, come Giasone e Orfeo, in quella terra sacra dove il Titano Prometeo era incatenato per aver portato il Fuoco all’uomo. Quali che fossero le mie venture non avevo mai provato una dimensione così intensa, il cullare monotono delle onde, la voce dell’esteso orizzonte, il confine fra il cielo e la terra che bolliva di universi.
Al terzo giorno di navigazione avevo perso completamente il senso del tempo, non ero più capace di dire se ero da tre giorni sulla nave, se mi ero appena imbarcato o se era passato un mese. Passavo sul ponteggio buona parte del tempo a cercare con lo sguardo qualcosa in lontananza, altre navi, qualche cosa che avesse una figura. Con l’immaginazione mi figuravo la Crimea a nord. Quando ho visto un uccellino posarsi sulla nave, ho capito che una costa non doveva essere lontana e infatti a sud in lontananza scorgevo la Turchia.
A volte, dal lento ma costante baluginare della nave, temevo che mi prendesse la nausea, ma forse erano timori esagerati dall’apprensione, o forse no. A volte sentivo un leggero mal di testa, una spossatezza, e in via precauzionale assumevo il farmaco contro il mal di mare, ovvero la di menidrina. Stare male in quelle condizioni, infatti, non sarebbe stato il massimo ed era bene assumere ogni sorta di vitamina e integratori per ogni evenienza, quindi assumevo zinco, vitamina C e rodiola, un’erba che cresce in alta montagna e che tonifica il corpo in presenza di stress.
Era opportuno che io non mi arenassi in una eccessiva immobilità per cui, oltre a degli esercizi fisici nella cabina, facevo delle passeggiate sull’area percorribile del ponteggio, che era un rettangolo di circa 15×20 passi. Così, in senso antiorario, da nord a sud, percorrevo il rettangolo per delle serie di 20 minuti ciascuna. Gli altri membri dell’equipaggio non sono da meno nel cercare passatempi, chi ricorda la famiglia, chi gioca a dadi, chi beve vodka per dimenticare: un’esistenza di mare è fatta di cose essenziali.
Uno degli aspetti più particolari della mia permanenza sulla nave è l’alienazione del tempo. È veramente difficile, infatti, capire che ora è, dal momento che passando in Bulgaria ho avuto un cambio di fuso orario rispetto a quello italiano e che ora mi trovavo fra Crimea e Turchia con un’altra locazione temporale e mi chiedevo che ora facesse in Georgia. Ad ogni modo, non avevo orologi. Certamente dalla posizione del sole sapevo che era mattina o pomeriggio, questo sì. Sapevo che era ora di pranzo quando vedevo il personale recarsi alla mensa per il pasto frugale. Va bene, sapevo che era ora di pranzo, ma ancora non sapevo che ore fossero. Nel lungo arco di tempo fra il pranzo e la cena era difficile stimare che ore fossero. Tutti questi aspetti rendevano il mio isolamento ancora più intenso. Mi mancava poter parlare con un amico, avere una connessione col mondo esterno ma, nello stesso momento, mi beavo della interruzione di quel caos che è il mondo. Nella ordinarietà siamo infatti subissati da comunicazioni-immondizia, ovvero oberati di tutta una serie di informazioni assolutamente inutili per le cose essenziali della vita, pertanto, immonde. Trovarsi su di una nave totalmente isolati dalla comunicazione-immondizia permette al sistema psichico di lavarsi un poco, e di arrivare a pensare a cosa veramente sia essenziale. Anzitutto il sistema limbico funziona, e questo è quello di cui bisogna veramente esser grati, il cuore pompa sangue ai muscoli, che vengono ossigenati dal costante ricambio con l’esterno operato dai polmoni, l’apparato digerente smaltisce le tossine inoltrando agli altri sistemi la capacità della relazione ed elaborazione. In altre parole, ero vivo. Questa di per sé mi pare la comunicazione fondamentale ed essenziale che l’universo mi sta dando. Che poi io possa comunicare in inglese, italiano, greco antico o che non conosca una sola lettera dell’alfabeto non fa alcuna differenza. Da che mi risulti, un organismo può vivere senza cervello ma non senza un cuore, onde per cui, oltre alla Comunicazione somma e originaria della vita, il resto diviene un orpello, un fatto collaterale.
Questo pensavo sulla nave, non potendo comunicare con altri se non con l’Essenziale. D’altronde una comunicazione che si rispetti, ovvero una Communio, un essere in Comune, prevede anche che io risponda a questo messaggio che mi viene dato. E la mia risposta è la gratitudine, la gratitudine per essere vivo, un fatto per nulla scontato. Da questo mare di esistenze che nascono e fioriscono e poi ritornano al mare da cui sono venute senza lasciare traccia, io ero qui, solo, a pensare all’esistenza, una esistenza che qualcuno mi aveva dato.
Ma veniamo ora al senso dello spazio, dopo giorni interi in mare aperto, che ne è del senso dello spazio? Che cosa significano ancora le parole avanti e indietro? Se si medita lungamente sull’orizzonte marino si percepisce l’eguaglianza di tutto con tutto; ogni onda è eguale a ogni altra e ogni goccia è la medesima. Non vi sono più punti di riferimento spaziali: se a mezzogiorno esatto guardassimo in ogni direzione del mare non vi sarebbe pressoché nulla che possa dirci cosa sia un avanti piuttosto che un indietro, una direzione piuttosto che un’altra. Il punto inesteso della coscienza pare scomparire di contro alla totalità dell’orizzonte mare, quest’ultimo inghiotte tutto senza fare distinzioni e questo piccolo corpuscolo, l’osservatore, si trova invaso da un timor panico, un tutto che entra dentro di lui, lo assorbe e lo annienta. Scomparendo il senso interno della direzione pare vano ogni spostamento, e ci si chiede: perché muovermi se ogni andare è nulla in confronto a ciò che non ha misura? Ebbene, la spiegazione allora, operata questa sorta di scissione psico-percettiva, è riposta nella Luce. Noi marinai della conoscenza sappiamo che ciò che fa sì che quell’esteso abisso di totalità assuma la sua potenza è il chiarore apollineo, il Dio che sovra di lui si posa.
È verso la Luce che dobbiamo andare, questa è la risposta, non è una direzione spaziale, dal momento che qui lo spazio, come il tempo, diventano suppellettili di una ordinarietà lasciata sulla terra ferma, ma è una direzione verticale, una direzione sovra-percettiva, noi abbiamo il dovere di dirigerci verso la chiarità, e questo dovere è categorico. Sappiamo, oltre ogni tenebra, che la Luce sorge sopra il mare dell’esistenza e verso la sua origine dobbiamo porre la nostra direzione. Ecco che l’andare è un ritornare, ecco che il movimento diviene un essere assisi, lo scorrimento un cristallo inamovibile. Getteremo l’ancora un giorno? Pianteremo il remo a terra fra coloro che non conoscono il sale? Tornerà alla sua terra Giasone, l’uomo che andò a cercare l’oro che mai tramonta?
L’enormità di queste domande trasale, mentre la piccolezza dei nostri mezzi diviene sempre più reale, eppure, dobbiamo andare avanti, onda dopo onda, verso la Patria dove ombra e luce sono solo visioni d’una Luce più alta.
Arrivato dopo quattro giorni ininterrotti al porto di Batumi, in Georgia, e gradualmente essermi ripreso dal disorientamento, trovo, colossale, in piazza di questa città della Colchide, una statua di Medea che regge in mano il Vello d’oro, e, alla base, la nave Argo memore, millenni or sono, dell’impresa di Giasone verso l’ignoto, verso la chiarità inamovibile. Seduto, attonito, ancora la percezione mi gioca scherzi beffardi, mi pare, infatti, ancora di ondeggiare e le gambe non sono ferme, e mentre così guardo il Vello aureo ripenso al filo d’oro che lega il mio cuore all’ignoto, sempre avanti, sempre oltre, e così dolcemente tocco finalmente la terra.
Emanuele Franz (Batumi, 6.11.2023)