La Sibilla Cumana – Luigi Angelino
La sibilla cumana, la sacerdotessa di Apollo entrata nell’immaginario collettivo e nel linguaggio popolare, è senza dubbio una delle più importanti ed affascinanti figure della religiosità ellenica e romana. Alla donna spettava il titolo di “somma sacerdotessa italica”, presiedendo all’oracolo di Apollo nei territori della Magna Graecia, divinità solare ed associata al principio maschile, nonché custodendo i segreti di Ecate, l’enigmatica dea lunare già presente nella mitologia pre-ellenica. L’attività della Sibilla si svolgeva nei pressi del Lago d’Averno, indicato come il mistico ingresso nell’Ade, il Regno dell’Oltretomba, in una caverna poi conosciuta con la quasi poetica denominazione di “antro della sibilla”, situata nella ricca città di Cuma, attualmente conglomerata nella città metropolitana di Napoli, del cui sito nello specifico parleremo in seguito. L’oscura ed eterea creatura, traendo ispirazione dalla divinità, scriveva i propri vaticini su foglie di palma componendo esametri che, alla fine della elaborazione, venivano mischiati dai venti che filtravano dalle tante aperture dell’antro, in modo che le frasi risultassero apparentemente senza senso e quindi diventassero molto difficili da decifrare (1). A tal proposito, il sommo poeta Dante, sempre pronto a rievocare i miti virgiliani, riassume: “così la neve al sol si disgilla, così al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla” (2). Dal punto di vista dell’importanza della funzione ricoperta, si può dire che la Sibilla Cumana avesse un ruolo più o meno pari a quello svolto dall’oracolo di Delfi in Grecia.
Le sibille, in linea generale, erano leggendarie profetesse immaginate in diversi siti del Mediterraneo, non solo in Grecia e nell’Italia meridionale, ma anche in Africa ed in Asia Minore. Senza perderci nella complessa classificazione “canonica” delle sibille, non rispondente alle esigenze di questa breve trattazione, ricordo che l’elenco ritenuto più esauriente è quello stilato da Varrone, secondo il quale le Sibille “operative” più autorevoli erano dieci: Persica o Caldea, Libica, Delfica, Cimmeria, Eritrea, Samia, Cumana, Ellespontina, Frigia, Tiburtina (3). E’ di immediata evidenza come le profetesse venissero denominate a seconda del contesto geografico in cui operavano ed esercitavano la propria influenza, spesso utilizzate come strumento del potere politico e militare. L’etimologia del termine “sibilla”, reso in epoca classica con il significato di “poetessa”, è molto incerta. Gli studiosi, tuttavia, tendono a ricondurre il vocabolo al termine composto di matrice dorica “Siobolla” che risulterrebe correlato all’attico “Theoboule” (theòs -dio- + boulè -volontà-), ricavandosi una sorta di perifrasi che suona come“volontà di Dio” o meglio, considerata la tendenza politeistica dell’espressione religiosa classica, “volontà del Dio”. La Sibilla, pertanto, entrando in una dimensione estatica o di trance, era in grado di rivelare i messaggi della divinità a cui era preposta, mettendo in comunicazione il mondo fisico degli uomini con quello degli dèi. E’ importante sottolineare come l’esperienza estatica in ambiente greco-romana fosse concepita in maniera profondamente diversa rispetto alla cultura giudaico-orientale. In quest’ultimo contesto, infatti, Dio soffiava il proprio spirito (pneuma) nel profeta che, comunque, quando parlava o scriveva per Suo conto, conservava la propria individualità psichica. Le sibille, come le altre figure veggenti della mitologia greco-romana, invece, cedevano momentaneamente il proprio corpo alle divinità che esprimevano i vaticini attraverso di loro. Si pensa che Sybilla sia stato inizialmente un nome proprio di persona, forse attribuito ad una delle veggenti più antiche, la Sybilla Libica, così come attestato da Pausania.
Della Sibilla Cumana sono stati tramandati alcuni nomi come Amaltea, Demofila ed Apenninica, citati in alcuni passi di Licofone e di Eraclito. Tra i riferimenti letterari più noti alla sacerdotessa campana, non si può dimenticare quello contenuto nel libro VI dell’Eneide (4). Il grande Virgilio definisce la donna dell’antro cumano come “longeva sacerdotessa”, ricordandola con il nome di Deifobe di Glauco ed anche Amphrysia, legando la sua attività oracolare al fiume Amfriso che scorre in Tessaglia, famoso perchè Apollo vi avrebbe nascosto il gregge di Admeto. E’ proprio Virgilio che ci dà una delle versioni della Sibilla Cumana destinata ad avere più larga diffusione nei secoli successivi. La fanciulla si sarebbe rifugiata nell’antro “dalle cento porte” e qui sarebbe stata invasata da Apollo, fino a cambiare del tutto aspetto e timbro della voce. Nel racconto virgiliano, con navigata esperienza, la donna cerca di stimolare le domande di Enea, desideroso di conoscere il proprio incerto destino. Ed allora gli risponde con enigmatici vaticini, assicurandogli l’arrivo verso la destinazione finale, ma condizionato dal compimento di alcune azioni “sacre”, come le necessarie onoranze funebri al compagno di viaggio Palinuro, o la raccolta di un magico ramo d’oro da cercare nel bosco sacro, per offrirlo a Proserpina, regina dell’Ade, il Regno dei Morti. La Sibilla sarà la guida di Enea nel suo viaggio nell’Oltretomba (5). Di grande suggestione poetica è un’antica leggenda legata alla giovane/vecchia sacerdotessa, capace di oltrepassare i secoli e di arrivare fino ai nostri giorni.
Apollo si innamorò follemente di lei e le promise di concederle qualsiasi cosa, se avesse acconsentito a diventare la sua sacerdotessa. La ragazza chiese l’immortalità, ma commise un grave errore, in quanto si dimenticò di associare alla straordinaria richiesta anche la possibilità dell’eterna giovinezza. Perciò, con il passare del tempo, quella che era stata una splendida fanciulla invecchiò sempre di più. Si racconta che dopo molti anni il suo corpo cominciò a rattrappirsi, fino a consumarsi del tutto e ad assumere le sembianze di una cicala. A quel punto fu deciso di riporla in una gabbietta e di posizionarla nel tempio di Apollo, fino al momento in cui il suo esilissimo corpo non scomparve del tutto e di lei rimase soltanto la voce che si espandeva ed echeggiava nell’antro. In una delle varianti alla già nota leggenda, si dice che Apollo le concesse ancora una possibilità: se la sibilla fosse diventata completamente sua, le avrebbe ridato la giovinezza. Ma l’ostinata e tenace sacerdotessa non volle perdere la propria verginità ed andò incontro al triste destino. E’ probabile che la leggenda, pur con i suoi elementi simbolici profondi, sia stata diffusa per dare una spiegazione dei motivi per i quali i pellegrini, una volta recatisi nell’antro, non riuscissero di fatto ad incontrare la tanto desiderata sacerdotessa. Una delle fonti letterarie più importanti della precitata leggenda si ritrova nel libro XIV delle “Metamorfosi” di Ovidio e, precisamente, nel dialogo tra Enea e la Sibilla (6). La sfortunata profetessa racconta all’eroe troiano di come avesse avuto in dono da Apollo una vita lunga tanti anni come quanti granelli di sabbia avrebbe potuto stringere nella sua mano, scordandosi, però, di precisare che la lunghissima esistenza doveva essere accompagnata dall’eterna giovinezza. Pausania racconta che i Cumani, per spiegare l’assenza fisica della Sibilla, usarono l’espediente di posizionare un’urna funeraria contenenti le sue ceneri. Molto realistiche sono le parole di Pausania:
“I Cumani non avevano alcun responso di quella donna da mostrare, mostravano invece una piccola urna di pietra nel tempio di Apollo, dicendo che lì giacevano le ossa della Sibilla” (7).
L’antro della Sibilla si trova a pochi chilometri da Napoli, dove sorgono i resti dell’antica e gloriosa città italica di Cuma, fondata dai Greci intorno all’VIII secolo a.C.. Attualmente l’antro è situato nel territorio dei Comuni di Pozzuoli e di Bacoli. Il famoso antro è stato individuato in una galleria artificiale collocata nel sito archeologico che misura una lunghezza leggermente superiore ai cento metri ed una larghezza di cinque metri circa. Gli archeologi hanno rilevato che sulla parete occidentale, durante il periodo di dominazione romana, furono realizzate ben nove aperture, di cui alcune concepite come murate. Nella parte opposta, cioè sulla parete orientale, si nota una vera e propria stanza dalla quale si accede a tre spazi dove il pavimento è ribassato rispetto al resto della caverna. Si pensa che questi tre ambienti contenessero delle cisterne e che, in seguito, fossero stati utilizzati anche come luogo di sepoltura dei defunti. Dallo stesso lato ci si imbatte in un’altra stanza, la cui funzione non è stata ancora chiarita, dove si scorge un sedile in pietra che, al giorno d’oggi, non potrebbe essere adoperato a causa del tetto ribassato. Nella parte finale dell’antro si incontrano tre nicchie. Tra queste, una ha lo scopo di far filtrare la luce, mentre un’altra si distingue perchè ha la struttura di un cubicolo preceduto da un modestissimo vestibolo che, a sua volta, è protetto da un cancello. Gli studiosi sono abbastanza concordi nel ritenere che questo fosse il sancta sanctorum della sacra grotta, cioè il posto dove la Sibilla esprimeva i propri vaticini.
A dispetto del fatto che all’ingresso dell’antro vi siano due lapidi in marmo con l’intento di introdurre il visitatore nel centro operativo della profetessa, l’autenticità del suo scopo è stata ovviamente messa in discussione. Alcuni esegeti, infatti, hanno ipotizzato che si trattasse di una struttura di tipo militare al fine di difendere la città ed il suo fiorente porto commerciale (8). La grotta ha subìto vistose modifiche nell’epoca augustea e durante il periodo bizantino, fino ad essere abbandonata nel XIII secolo, quando Cuma si ridusse ad un piccolo villaggio. Soltanto nel 1932 l’archeologo Amedeo Maiuri la riscoprì e la esplorò quasi interamente, rilevando il tipo di taglio della pietra tufacea a forma trapezoidale che ne attestava la realizzazione orientativamente tra il VII ed il VI secolo a.C.. E’ interessante osservare la strana forma della caverna: trapezoidale nella parte superiore e rettangolare in quella inferiore. Si trattava di un rudimentale, ma efficace, stratagemma antisismico ideato dagli architetti greci, anche se la forma geometrica della parte inferiore fu accentuata per l’abbassamento del piano di calpestio durante l’età imperiale romana. E’ probabile che la grotta sia stata fatta edificare dal tiranno di Cuma, Aristodemo, poi assassinato da una congiura di nobili nel 492 a.C.. Tuttavia, fino all’epoca rinascimentale, si credeva che la dimora della Sibilla Cumana fosse situata presso il lago d’Averno, successivamente identificata come galleria militare che metteva in comunicazione il lago d’Averno con il lago Lucrino. Ricordiamo che la religiosità classica riteneva che dal lago d’Averno si potesse accedere nell’Ade e, secondo un’altra narrazione leggendaria, la profetessa usava proprio questo ingresso per i suoi viaggi nel Regno dei Morti. E’ stato anche ipotizzato che in origine vi fosse un vero e proprio santuario oracolare e divinatorio presso il già citato lago, ma che Aristodemo avesse utilizzato le ricchezze pubbliche della sua città per edificare un nuovo santuario allo scopo di dare lustro a Cuma ed insidiare perfino il grande prestigio di Delfi (9).
Come accennato in precedenza, Cuma fu fondata verso la metà dell’VIII sec. a.C.. da gruppi di naviganti provenienti dalla Grecia. Secondo la leggenda più ricorrente, i fondatori della città sarebbero stati gli Eubei di Calcide (10) che avrebbe scelto di approdare in quel punto della costa campana, perchè ispirati dal volo di una colomba (secondo alcune varianti, invece, perchè colpiti da un fragore di cembali). Sta di fatto che la scelta si rivelò particolarmente azzeccata, perchè i profughi greci trovarono ad attenderli un territorio particolarmente fertile che seppero sfruttare al meglio, pur conservando le proprie tradizioni marinare. I coloni cumani riuscirono ad arginare le mire dei popoli confinanti ed ad estendere il proprio dominio su gran parte della regione circostante. Ma l’influenza di Cuma fu soprattutto di carattere culturale: furono proprio i Cumani a diffondere la cultura ellenica nell’Italia meridionale, portando l’alfabeto “calcidese” che ben presto fu assimilato dagli Etruschi e dai Latini. Per rimanere prosperi ed indipendenti, i Cumani dovettero fronteggiare i Capuani di etnia etrusca, gli Aurunci ed altre popolazioni del territorio interno campano in molti conflitti sanguinosi. Tra questi si ricorda la battaglia di Aricia nel 507 a.C, che vide i Cumani alleati con i Latini ed alcuni decenni dopo, nel 474 a.C., la battaglia chiamata proprio di “Cuma”, in cui la popolazione locale fu affiancata dalle truppe siracusane.
Cuma assunse una tale importanza, nella sua area geografica, che Diodoro Siculo scrisse che con l’espressione “campagna di Cuma” si tendeva ad indicare l’intera zona che sarà poi denominata dei “Campi Flegrei”. Tra i cittadini “stranieri” illustri che scelsero Cuma come loro residenza, menziono Tarquinio il Superbo che, secondo la storiografia tradizionale, fu l’ultimo re di Roma. Il Superbo visse gli ultimi anni della sua esistenza a Cuma dopo esser stato scacciato da Roma. Dopo la conquista romana della Campania, negli ultimi decenni del IV secolo a.C., a Cuma fu attribuita la civitas sine suffragio, ma la sua grande fedeltà alla città eterna, dimostrata soprattutto nella dura opposizione all’esercito cartaginese di Annibale, al quale, invece, Capua spalancò le porte, gli valsero la conquista della dignità di municipium nel 215 a.C.. Da quel momento Cuma, pur conservando alcune tradizioni specifiche degli antichi coloni greci, iniziò ad adottare la lingua latina negli atti ufficiali, rappresentando una brillante risorsa strategica per le operazioni militari condotte dai Romani. Contesa tra Bizantini e Goti, in epoca medioevale la città di Cuma si avviò verso una progressiva quanto inesorabile decadenza, riuscendo a risorgere parzialmente soltanto dopo l’invasione longobarda e la conseguente annessione prima sotto i Duchi di Benevento, sostituiti poi da quelli di Napoli. Come già detto in precdenza, le incursioni saracene del XIII secolo diedero il colpo di grazia a quelli che ormai erano solo i resti di una splendida ed antica città (11).
Analogamente a quanto avvenuto con le figure più importanti della mitologia gtreco-romana, nel Medioevo anche le Sibille furono assimilate nella sincretica dottrina cristiana. Ad ogni sibilla, con molta fantasia, si fece predire qualcosa in merito all’Incarnazaione, alla Passione ed alla Resurrezione di Cristo. Secondo una rilettura quanto mai di parte della Legenda Aurea (12), la già citata sibilla Tiburtina avrebbe mostrato all’imperatore Augusto la Vergine Maria con in braccio il bambino e su quel luogo, il Campidoglio, lo stesso Ottaviano avrebbe fatto edificare la chiesa dell’Aracoeli, dopo aver ascoltato una voce che gli avrebbe proclamato: -Questo è l’altare del Cielo-. E’ superfluo sottolineare come si tratti di un forzato riadattamento cristiano riguardante una tradizione completamente diversa. Le Sibille diventarono un tema molto caro all’arte cristiana, di cui le raffigurazioni presenti nella Cappella Sistina sono forse l’espressione più emblematica. Michelangelo, tra il 1508 ed il 1512, nella serie degli affreschi dedicati ai Veggenti, raffigurò le Sibille insieme ai Profeti, decorando i “peducci” della volta della famosa Cappella. Il grande artista toscano ne scelse cinque, ciascuna con un preciso significato simbolico: la Sibilla Eritrea, la Libica, la Delfica, la Cumana e la Persica, prendendo chiari spunti da uno scritto sul tema elaborato dal frate domenicano Barbieri (13).
La figura della sibilla cumana, sotto il profilo psicologico, costituisce il simbolo dell’archetipo umano della continua ricerca di individuare un importante nesso causale tra la propria condizione creaturale, finita e limitata, e la volontà di un Dio trascendente o, comunque, collocato in una dimensione diversa e sovraordinata. La profetessa versava, secondo i racconti, in uno stato che la scienza moderna definirebbe di “coscienza modificata”, potendo ricomprendere in tale alveo una molteplicità di comportamenti, come il sonno, il sogno, l’ipnosi, l’isolamento prolungato, forzato o volontario, oppure alterazioni dovute ad assunzioni di droghe non tanto peregrine nei rituali greco-romani. Nell’esperienza, definibile di trance-estasi, si fa strada, nella psiche del soggetto, una coscienza che è diversa da quella consueta. Per gli antichi emergeva un’altra entità, identificata con un dio o con una dea, Apollo nel caso specifico della Sibilla Cumana. In realtà, seguendo i modelli psico-analitici contemporanei, si potrebbe arrivare ad affermare che in capo ad un soggetto non esista solo la cosiddetta “coscienza ordinaria” ma, qualora vengano sollecitate con adeguati stimoli, possono affiorare forme di coscienza molto diverse, capaci di vedere oltre l’apparenza e di intuire particolari qualità extrasensoriali. Gli Antichi, pur ricorrendo al proprio bagaglio culturale, avevano intuito queste “finestre” che di tanto in tanto si possono aprire nel nostro spirito. Sulla base di queste premesse, nacque una vera e propria corrente mistica, il menadismo greco (14), ovvero l’estasi rituale delle donne che è poi sfociato nelle visioni cristiane (vedansi gli episodi in trance attribuiti a Teresa d’Avila) e nel sufismo musulmano. L’attività di veggenza della Sibilla Cumana è stata paragonata anche a quella praticata nello Sciamanesimo, un fenomeno religioso originato in Siberia e nell’Asia centrale, con il quale la profetessa condividerebbe il concetto di “daimon”. Dal punto di vista antropologico, anche gli Sciamani anelano all’apertura di una “seconda coscienza”, in particolari condizioni rituali che richiedono, comunque, una sorta di silenziamento della “razionalità”. Il viaggio che si intraprende, però, non tende soltanto a raggiungere una dimensione trascendente ed onirica, ma anche ad entrare in stretto contatto con la propria creatività, capace di compiere altissimi voli nel campo dell’arte, della letteratura e dell’intuizione in genere.
Di grande valore simbolico, è la morale legata alla presunta vendita dei libri sibillini a Tarquinio il Superbo, settimo re di Roma, da parte della Sibilla Cumana (secondo alcune fonti si trattava di quella Eritrea). La profetessa avrebbe offerto al sovrano inizialmente nove libri, ma Tarquinio avrebbe rifiutato l’offerta, considerando il prezzo troppo esoso. Allora la donna ne avrebbe bruciati tre, presentandosi di nuovo davanti al re con sei libri e rinnovando la sua proposta di vendita. Il Superbo avrebbe rifiutato ancora. La Sibilla, allora, ne avrebbe bruciati altri tre, riformulando l’offerta al sovrano che, alla fine, li acquistò al prezzo iniziale di nove libri. Tarquinio il Superbo si era deciso a sborsare il denaro davanti alla determinazione della Sibilla e confidando nella preziosità del contenuto dei tre testi superstiti. I libri sibillini erano custoditi da due nobili patrizi (duumviri sacris faciundis) (15) che, successivamente, diventarono quindici, tra cui anche cinque rappresentati del popolo. La funzione principale di questi sacri libri era quella di consultare gli oracoli su disposizione del Senato, soprattutto in occasione di nuove imprese militari. La loro sede era in una camera scavata sotto il Tempio di Giove Capitolino, ma andarono perduti a seguito dell’incendio dell’83 a.C.. Si tentò allora di ricostruirne i testi, cercando alcuni passi in altri templi o santuari, fino a quando Ottaviano Augusto, dopo un’attenta selezione, non li pose in due armadi dorati ai piedi della statua di Apollo Palatino, collocata nel tempio omonimo (16). Si ritiene che la nuova raccolta ivi rimase fino al V secolo d.C., cioè fino alla caduta dell’impero romano d’occidente, dopodichè non se ne seppe più nulla, tranne numerose leggerende sul tema fiorite in epoca medioevale.
In conclusione, non si può fare a meno di esprimere una riflessione sulla figura della Sibilla come metafora dell’incertezza del destino e del costante desiderio dell’uomo di conoscere l’ignoto. Non a caso alla Sibilla Cumana si attribuisce la frase latina: “ibis, redibis non morieris in bello”. La profetessa avrebbe pronunciato questo vaticinio ad un soldato, ansioso di avere notizie sull’esito della sua imminente missione. La frase, come tutte le allocuzioni oracolari, suona intenzionalmente oscura ed ambigua. Se si appone una virgola prima del “non”, ibis redibis, non morieris in bello”, la traduzione è “Andrai, ritornerai e non morirai in guerra”, dando un significato positivo alla missione del soldato. Se, invece, la virgola viene segnata dopo la negazione, ibis, redibis non, morieris in bello, il senso risulta completamente diverso e nefasto, prefigurando la morte dello sfortunato soldato.
Note:
1 – Cfr. Gianluca Savarino, La Sibilla Cumana tra mito e storia, Editore Valtrend, Napoli 2010;
2 – Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso Canto XXXIII, verss. 64-66;
3 – Si tratta di una classificazione molto diffusa in epoca medievale, ma molto contestata dagli studiosi. In realtà il numero delle sibille era molto più elevato;
4 – Cfr. Virgilio, Eneide, libro VI, verss. 45-46. Nel poema virgiliano la sibilla cumana portava il nome di Deifobe;
5 – Cfr. Ferdinando Neri, Le tradizioni italiane della Sibilla, Editore Book Time, Milano 2017;
6 – Il racconto riportato nel libro XIV delle Metamorfosi di Ovidio è sostanzialmente simile a quello dell’Eneide di Virgilio;
7 – Cfr. Pausania, Periegesi della Grecia;
8 – Cfr. Autori vari, Cuma e il suo parco archeologico. Un territorio e le sue testimonianze, Editore Scienze e Lettere, Roma 2010;
9 – Il tiranno Aristodemo, diventato molto popolare per aver sconfitto a più riprese gli Etruschi, fece trucidare un elevato numero di nobili che gli si opponevano. Per questo gli aristocratici superstiti meditarono la vendetta;
10 – Calcide era la più importante città dell’isola di Eubea, situata nel territorio dove l’isola di avvicina maggiormente alla terraferma.
11 – Cfr. William Hamilton, Campi Flegrei, traduzione di Antonio Tommaselli, Edizione Grimaldi & C., Napoli 2020;
12 – La Legenda Aurea (erroneamente italianizzata in Leggenda Aurea con relativa falsificazione del significato) è una raccolta medievale di biografie agiografiche, in gran parte fantasiosa, redatta da Jacopo da Varazze o da Varagine, che fu frate domenicano e vescovo di Genova. L’opera fu compilata a partire dal 1260 fino alla morte dell’autore avvenuta nel 1298;
13 – Filippo Barbieri, appartenente all’ordine dei frati domenicani, visse nel quindicesimo secolo (1426-1486). E’ ricordato oltre che come teologo e filosofo, anche come storico ed inquisitore;
14 – La definizione eziologica trae origine dalle Menadi, dette anche Baccanti, che erano le donne invasate da Dioniso, la divinità della forza vitale;
15 – Da tradurre in maniera translata “i due uomini addetti alle pratiche sacre”;
16 – Cfr. Gennaro Franciosi ed altri, Leges regiae, Javini Editore, Torino 2003.
Luigi Angelino