Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
La religione Sikh e il testo sacro Guru Grant Sahib – Simone Guslandi
La religione sikh ha circa mezzo millennio di storia. Ormai è presente, da oltre 30 anni, anche in Italia. A inizio del ‘500 Guru Nanak diede origine, nel nord dell’India, a questa fede, che rinnovava la tradizione induista, rendendola compatibile, in potenza, con ogni altro credo: in particolare con l’islamismo, in quel caso specifico. Infatti questo profeta predicò una religione di tolleranza e fratellanza proprio perché la sua zona, il Punjab, era teatro di terribili scontri fra gli indù locali e i musulmani invasori dell’impero moghul, che stavano sciamando con la forza delle armi da nord-ovest. I primi sikh si posero come garanti della pace sotto il minimo comune denominatore di un Dio accettabile da tutti.
L’opera inesauribile del sikh è quella di pronunciare il nome di Dio, in ogni momento: il continuo appellarsi a Dio, semplicemente ripetendone il nome, occupa la mente, impregna l’agire quotidiano, tiene lontani interessi diversi della persona, per quanto questi possano essere anche giustificabili, in ottica mondana, o secondo un buon senso razionalmente riscontrabile. La ripetizione ossessiva del Nam (il nome di Dio, in qualunque lingua venga espresso, potenzialmente) è l’unico comandamento del sikh: che, per il resto, non deve fare nulla, né credere nulla, né pensare a nulla, se non poi obbedire ai comandi che gli giungono da Dio.
Già dovrebbe, quindi, apparire chiara l’inconfondibile tonalità mistica di questa religione: assai esigente, aliena da forme di compromesso, almeno nelle intenzioni, data la difficoltà di una coerenza così rigorosa, a livello comunitario ma anche individuale.
Ciò spiega anche una certa intransigenza nella difesa dei propri valori da parte dei credenti di questa fede: non accettando, affatto, con disinvoltura né scadimenti morali, né sottomissioni politiche e umane di alcun tipo, si sono spesso trovati a difendersi, perfino con le armi. Il che li ha resi perfino guerrieri tra i più celebri della storia (in parziale contraddizione, peraltro, con il pacifismo presupposto nella comune fratellanza di tutti gli esseri umani in quanto figli dell’unico Dio, che la loro tradizione ha affermato). Le loro comunità, cementate dalla difesa dell’identità religiosa, hanno creato anche dei veri e propri stati, anche assai estesi,specialmente tra fine ‘700 e la prima metà dell’800.
Si stima che oggi i sikh nel mondo siano tra i 20 e i 30 milioni. Il grosso di questi risiede nel Punjab, la regione storica dell’India nord occidentale con ampie propaggini nel Pakistan, che è la loro culla. Molti di loro però sono emigrati, soprattutto in Occidente, particolarmente nelle nazioni anglofone. In Italia la loro comunità ammonterebbe approssimativamente a 50milla unità, diffusa soprattutto in certe zone agrarie (bassa padana tra Lombardia ed Emilia, Lazio…).
Nelle classifiche delle religioni con maggior numero di adepti al mondo, il sikhismo si colloca all’incirca all’ottavo posto. In Italia al quinto posto. Tra le religioni monoteistiche, è la terza, nettamente dietro a cristianesimo e islam, a livello tanto mondiale che italiano.
Il sikhismo si basa sul proprio testo sacro, il Guru Grant Sahib. Che è uno dei pochi, relativamente pochissimi, testi sacri che la letteratura religiosa universale annovera, tra quelli riconosciuti come propri da parte di una comunità religiosa nutrita. Questo libro sacro contiene un valore spirituale intrinseco, diremmo “oggettivo”, che è del massimo livello, se parametrato ad altri testi sacri più noti al pubblico italiano.
Il Guru Grant Sahib è anche un potente stimolo alla preghiera. La preghiera, per i sikh, dev’essere indefessa; deve rappresentare uno stile di vita diuturno, che non può essere oscurato da altri interessi.
Nel Guru Grant Sahib la dimensione mistica è l’unica possibile: esigente, non permette alcuna forma di lassismo. Questo testo sacro conserva questo slancio mistico innegabile, diffuso però su ben 1430 pagine.
(La traduzione del primo volume dell’opera è stata curata dallo scrivente
per Le Loup des Steppes Editore)
Un suo pregio indiscutibile, che non è però proprio a tutti gli altri testi della religiosità, è il suo ecumenismo: il sikhismo è una religione inclusiva. Lo sfondo è rigorosamente monoteistico, ma non esclude la convivenza di molte possibili versioni della fede: Dio è dentro ogni cosa, e si lascia sperimentare in modi diversi. Ma qui senza tante stranezze dottrinarie, particolari e inaccettabili ai più, più o meno astratte e improbabili, che sovente ne minano la credibilità.
Inoltre qui manca il proselitismo. Non si tratta di “rendere altri come noi”, cioè migliori, o degni dell’unica religione possibile. Manca lo zelo nel creare correligionari. Non si fa cenno a guerre sante. Semmai l’invito pressante è a sé stessi, ad essere uomini di fede seri. Il “tu generico”, così frequente nel testo, è in realtà un invito a se stessi.
Davvero la religione sikh può avere grandi sviluppi futuri per questi due aspetti, modernissimi e fondamentali per una convivenza tollerante di più persone appartenenti a “credo” differenti. Tali due punti sono:
- i credenti di tutte le fedi vi si possono riconoscere, perché qui non c’è demonizzazione di alcuna fede diversa; non c’è nessuna preferenza dirimente e pregiudiziale in favore di una fede e/o contro un’altra;
- per un sikhl’unico giudice è Dio, che si incontra dentro la propria interiorità in quell’esperienza di preghiera ininterrotta, e mai distratta, che rappresenta l’unica attività del sikh. Perciò un sikh bada soprattutto a non distrarsi da Dio. Il giudizio sulla rettitudine della fede è centrato molto più sulla propria fede, che non su quella di altri. L’obbedienza personale è al centro, più che quella comunitaria. Pertanto un’obbedienza puramente esteriore, quale quella che viene incoraggiata in tante religioni, non si troverà come preferenziale. Verrà invece privilegiata la coerenza del proprio agire quotidiano con i principi della propria fede, in un’ottica in cui tale verifica (sulla propria coerenza…) è controllabile solo da Dio e dal credente, in ultima istanza, e non da istituzioni umane.
Anche alla luce di ciò, un cristiano, un musulmano, o un credente di qualunque altra religione, non trova nulla di contrario alla propria fede, leggendo tale libro. Ma inoltre, ne trae addirittura grande alimento: infatti la preghiera, come meditazione e pensiero monotematico inesausto concentrato su Dio, sono l’essenza della fede sikh. E, forse dovrebbero essere l’essenza di qualunque fede religiosa.
Il libro si fa apprezzare anche per la sua semplicità. È lunghissimo, ma può essere letto aprendo anche pagine a caso, senza per forza dover conoscere quanto è scritto prima. Non c’è trama: l’unico argomento è il rapporto di un’interiorità individuale con Dio; tutto il resto trascolora, universo compreso.
Sono quasi assenti riferimenti storici: sono minimi, e solo riguardanti le persone dei guru, e molto sfumati.
Non c’è struttura narrativa: risulta come il continuum di un ininterrotto monologo. È vero che gli autori sono stati tanti (qualche decina fra guru, santi e bardi), ma colpisce la continuità che intercorre fra essi: costoro quasi si passano il testimone della comunicazione attorno al proprio rapporto con Dio. Tanti autori, insomma, ma un unico soggetto collettivo, quello dei credenti, che simboleggiano tutti la persona unica del fedele. Peraltro, i vari autori non provengono solo dalla tradizione sikh: a conferma di quanto si diceva prima, si leggono inni di induisti, di musulmani, e di altre tradizioni.
Il libro inoltre è un avatar per i sikh. È infatti il Guru per eccellenza, unico e ultimo possibile maestro per tutti i sikh. Il decimo ultimo guru carnale, Gobind Singh, a inizio ‘700 decise di porre fine alla successione dei guru dei sikh, inaugurata da Nanak, stabilendo appunto il Guru Grant Sahib (di cui terminò la compilazione, dopo meno di due secoli di distanza dai primi testi che vi compaiono, scritti da Guru Nanak) come incarnazione dell’unico eterno immutabile guru.
Il Guru Grant Sahib, lungo le sue ben 1430 pagine, mantiene un suo ritmo caratteristico: musicale, avvolgente, torrenziale senza mai essere travolgente. Conserva il carattere di monologo interiore, estenuato ma mai estenuante, del credente che cerca Dio: un soliloquio infinito, che in realtà è dialogo ininterrotto con Dio.
Lettori avvezzi alle scritture induiste troveranno infiniti riferimenti, in questo testo sacro, alla tradizionale visione della realtà indù.
Il testo si fa apprezzare pure per la sua apparente semplicità. Lo si può leggere d’un fiato, senza mai essere appesantiti. A tal uopo, splendide sono le costanti metafore e similitudini naturalistiche. Frequente è la curiosa comparazione all’ambito economico e commerciale: per rendere l’idea di ciò che ha davvero valore, in maniera molto concreta e quotidiana. Ma di grande rilievo è pure il richiamo al linguaggio amoroso: la tenerezza; la giocosità e la piacevolezza che devono animare i rapporti affettivi; la sottile intesa fra gli amanti, che spesso non ha bisogno di parole per esprimersi, tanto è forte e implicita.Dove qui gli amanti sono una mente e Dio.
Simone Guslandi