La religione degli Egizi nei “Testi per uscire al giorno” (1^ parte) – Piervittorio Formichetti
Oh Residenza di Unnut, io esisto come Falco in essa.
Io sono in essa come un grande tra i Glorificati.
Io sono tra le Infaticabili Stelle.
Il mio nome non sarà distrutto! […]
Io esisterò con voi, io vivrò con voi:
io sarò amato da voi più che i vostri dèi.
Libro per uscire al giorno [Libro dei Morti], Formula CXLIX
Quando gli Arabi, nei secoli VII e VIII, sottrassero all’impero bizantino quella che gli antichi Egizi chiamavano «Terra di Kemet» – da kemi, «nero», riferito al limo nerastro lasciato sul suolo dalle piene del Nilo [1] – denominarono «Libro del morto» (Kitab el mayytun) ogni rotolo di papiro che trovarono nelle antiche necropoli dell’Egitto. Tale definizione è comunque adatta a questi testi: essi sono generalmente una raccolta miscellanea di formule rituali, magiche e religiose la cui lettura doveva avere effetti, per così dire, pratici: accompagnare le offerte sacrificali di pane, birra, buoi, oche, frutta, verdura e incenso per il fuoco (mancando le quali l’anima del defunto, nel suo percorso ultraterreno, sarebbe stata costretta a mangiare escrementi o animali detestati, come i topi), e permettere al defunto di scampare ai pericoli dell’Oltretomba, immaginati soprattutto nella forma di animali velenosi o antropofagi.
Le formule dei Libri dei Morti dovevano essere lette dal «sacerdote lettore» (kheri-heb) «con giusta voce», cioè con l’intonazione adatta per rappresentare le qualità umane del defunto, per proteggere le sue spoglie mummificate in terra e per «provocare la vibrazione magica idonea a disgregare e respingere le entità avverse» [2] che avrebbero ostacolato il suo cammino ultraterreno. Il defunto era onorato come forma particolare dell’onnipresente dio Osiride: per questa ragione, quasi tutte le formule del Libro dei Morti cominciano con la frase «Parole [mwdw] a dirsi da…», alla quale seguono la qualifica «Usir» («Osiride») e infine il nome proprio della persona.
Per bocca del sacerdote lettore, quindi, era il defunto stesso a pronunciare le formule che avrebbero garantito l’esito felice del suo iter ultraterreno. L’anima che in vita aveva agito e parlato rettamente avrebbe superato la nota prova finale della psicostasia, la pesatura del cuore, che doveva essere leggero quanto la piuma sacra della dea Maat, cioè la Verità-Giustizia. Scampato così alle fauci di Ammit la Grande Divoratrice (un ibrido di ippopotamo, leonessa e coccodrillo [3] che rappresentava la distruzione definitiva), il morto era dichiarato «giustificato» o «giusto di voce» (in lingua egizia maa herew), era accolto nell’«Assemblea» o «Cerchio» degli dèi, e sarebbe tornato ad «uscire al giorno». Questa espressione sottintendeva la complessa, eterogenea e talvolta contraddittoria metafisica egizia, secondo la quale l’anima avrebbe acquisito una nuova vita, non più corporea e temporanea, bensì immortale e spirituale, nei «Campi Hotep» o «Campi Iaru», praterie eterne analoghe ai Campi Elisi greco-romani (a volte immaginate coltivabili, da cui l’usanza di seppellire con la mummia le statuette dei servi-lavoratori dette ushabti), ma sarebbe anche tornata nel mondo fisico per godere della luce del sole, del gusto dei cibi, della possibilità di vedere familiari e amici viventi [4], senza però poter essere visto. Ora, per loro, egli era un’«anima perfetta» o un «beato» (baw), titolo dato talvolta anche agli dèi.
Alcune formule dei «Libri per uscire al giorno» (così erano definiti nell’antico Egitto i Libri dei morti) contengono anche uno o più «nomi magici» che, se pronunciati correttamente, avrebbero applicato in modo preciso il potere delle frasi rituali, «un potere performativo tale da modificare la realtà, a cominciare da quella personale» [5] del defunto, che poteva così acquisire la giusta forma temporanea (ḫpr) per affrontare un determinato avversario od ostacolo nel suo pericoloso viaggio ultraterreno. Alcuni nomi magici, «ababab-rerek», «ababab-sererek» o «haka-haka-her» [6] somigliano, forse non a caso, ai più noti abracadabra e abrasax presenti in alcuni testi di magia e su alcuni amuleti europei del Medioevo e del Rinascimento [7]; nei secoli XV e XVI, il clima culturale di riscoperta delle antiche filosofie, mitologie e religioni precristiane coinvolse anche quella egizia, che, sebbene fosse sovente fraintesa in buona fede, fu considerata fino alle soglie dell’Illuminismo – come indica l’opera del “tuttologo” gesuita Athanasius Kircher – la madre di tutte le successive tradizioni tramite la figura mitica di Ermete Trismegisto (versione ellenistica di Thot, il dio egizio della conoscenza) [8]: il che, ovviamente, non era vero, ma – come si vedrà – per quanto riguarda alcuni elementi del Giudaismo e del Cristianesimo potrebbe essere non totalmente erroneo.
Inizialmente i Libri dei morti furono prodotti per, e utilizzati da, una élite di persone che agivano intorno al Faraone e dallo stesso monarca: il quale, se durante la vita era identificato con il dio Ra (il Sole) e con suo figlio Horo (o Horus) simbolizzato dal falco, dopo la morte era assimilato a Osiride, l’antichissima divinità dell’Aldilà che nei dipinti fu raffigurata di pelle verde, come la vegetazione che sempre muore e rinasce. Ma nel periodo della VI dinastia regnante (cioè dal 2350 al 2200 a. C.) si cominciò a pensare che anche le persone comuni, una volta morte, sarebbero state assimilabili al dio della rinascita: come già accennato, «il morto, quale che fosse il suo nome [rn], diventava Osiride, e questo veniva precisato sempre anche nelle iscrizioni» [9]. Ciò significa che per gli Egizi la persona trapassata diventa divina perché diventa parte integrante del dio onnipresente, ma allo stesso tempo restava se stessa. Da questo punto di vista, Osiride era inteso dagli Egizi in modo simile al Dio cristiano della Divina Commedia (cfr. Paradiso, XXXIII, 124-132), cioè una sorta di totalità di tutte le anime, ognuna delle quali scopre di essere stata una Sua incarnazione. Anche nel Libro dei Morti sembra esserci una traccia di questa concezione, laddove la dimensione divina/ultraterrena è definita, in modo sorprendentemente mistico, «la Dimora di Coloro che hanno trovato i loro volti» [10].
Ad oggi, il più lungo e più completo esemplare tra i Libri dei Morti ritrovati e studiati negli ultimi due secoli è il «Papiro di Torino», denominato così dal luogo della sua conservazione: il Museo Egizio di Torino, secondo al mondo dopo quello di Il Cairo. Il proprietario egizio di questo esemplare fu tale Ieuf-Ankh, figlio di Ta-Shrit-Min (o Ta-Shrit-Menu), nome di sua madre (quello del padre è assente), vissuto in epoca tarda saitica tolemaica, cioè tra i secoli VI e IV a. C.; il rotolo, alto 29 centimetri e lungo ben 19,12 metri, è quindi piuttosto recente. Tra il 1836 e il 1842 fu copiato, stampato e numerato in 165 capitoli dallo studioso tedesco Karl Richard Lepsius (1810-1884), che però non lo tradusse. Il primo a pubblicarne una traduzione in italiano, nel 1986, è stato l’archeologo ed etnologo italo-russo Boris de Rachewiltz, docente di Egittologia presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma e presso l’Università di Il Cairo, direttore di diverse campagne archeologiche in Medio Oriente e in Sudan, autore di numerosi testi di egittologia e archeo-etnologia, nonché genero del famoso scrittore statunitense Ezra Pound. Nell’Ottocento erano apparse le traduzioni di altre versioni del Libro dei Morti – la «Recensione Saitica» nel 1867 e nel 1882; la «Recensione Tebana» e quella del celebre egittologo E. A. Wallis-Budge in Inghilterra; le versioni di Orazio Marucchi (1852-1931) e Ernesto Schiaparelli (1856-1928) in Italia – che furono sempre confrontate con il Papiro di Torino. Di questo, nella traduzione di de Rachewiltz, sono presenti anche fotografie dell’intero originale, in modo da illustrare al lettore anche l’impaginazione del rotolo in linee verticali.
Sul volume, dopo le immagini del Papiro di Torino, sono riprodotte altre sette fotografie di Libri dei Morti conservati al British Museum di Londra, per mostrare alcune principali tipologie di tali testi e il modo di disporvi le immagini. Tra queste, attira l’attenzione la tavola IV, tratta dal rotolo di tale Nestanebasheru, vissuto nei secoli XI-X a. C., che raffigura tra l’altro tre divinità: Shu (l’Aria) che solleva sua figlia Nut (il Cielo, soprattutto notturno) dopo l’unione sessuale con Geb (la Terra) [11]. Si tratta di un antichissimo mito cosmogonico, la separazione primordiale di Terra e Cielo ad opera dell’Aria. In questo disegno, Shu è affiancato da due esseri divini gemelli con la testa di ariete o di caprone, che sorreggono le braccia di Shu. Al lettore che conosca i primi cinque libri della Bibbia (Torah o Pentateuco), questa immagine può ricordare un episodio dell’Esodo: gli Ebrei, liberati dai lavori forzati in Egitto da Mosè e guidati verso la terra di Canaan, in Palestina (verso il 1230 a. C.), si trovarono a combattere contro alcuni popoli abitanti tra il nord della penisola araba e la Palestina; durante la battaglia contro gli Amalekiti, Mosè, già molto anziano, osservava lo scontro insieme a Aronne (suo fratello maggiore e primo sommo sacerdote ebraico) e a Cur (marito della loro sorella Miriam), e sosteneva il suo popolo pregando Dio in piedi e con le braccia alzate verso il cielo (la stessa posa di preghiera degli antichi cristiani [12], prima che si diffondesse la genuflessione):
Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte; ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek. Poiché Mosè sentiva pesare le mani per la stanchezza, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo passandoli poi a fil di spada (Esodo, 17, 10-13).
C’è quindi una somiglianza tra la posa di Shu e dei suoi assistenti divini sul Papiro di Nestanebasheru, e quella di Mosè nel racconto dell’Esodo, ma ciò non implica un legame “genealogico” tra il mito egizio e il racconto ebraico, dato che il contenuto e lo scopo delle due narrazioni sono del tutto differenti tra loro.
Il contesto etnico e culturale composito del Medio Oriente del II millennio a. C., in cui nacquero sia i Libri dei Morti egizi sia le memorie centrali della Torah ebraica, consente comunque agli storici di riconoscere influssi reciproci tra la cultura egizia, stanziale e agricolo-edilizia, e quelle semitico-mesopotamiche (ma anche africane nord-orientali) prevalentemente seminomadi e pastorali. Scrive infatti de Rachewiltz che tra la redazione degli antichi Testi dei Sarcofaghi (dalla VI alla XII dinastia, cioè dal 2350 al 1800 a. C.), che possono considerarsi l’embrione dei Libri dei Morti, e la redazione di questi ultimi,
si situa un hiatus determinato dalla invasione degli Hyksos, i cosiddetti «Re pastori» di stirpe semitica provenienti dall’Asia. La violenta reazione egizia del periodo della riscossa [seconda metà del secolo XVI a. C.] distrusse la quasi totalità degli elementi attestanti tale dominazione: si salvarono soltanto gli scarabei degli agenti fiscali e qualche sfinge. Gli invasori asiatici costituirono inevitabilmente una facile ponte per il passaggio in Egitto di nuove correnti di idee che si sovrapposero e si amalgamarono a quelle preesistenti. Il Libro dei Morti risente di tale influenza… [13]
Tra i molti aspetti sotto i quali il Libro può essere studiato, qui ci si concentrerà soprattutto su alcune corrispondenze più o meno significative fra le concezioni teologico-religiose e le espressioni linguistiche presenti nel testo sacro egizio e quelle della tradizione giudaico-cristiana. Queste ultime, infatti, possono riflettere una assimilazione e rielaborazione delle prime per il fatto di aver avuto origine nel medesimo contesto storico-culturale, ambientale e talvolta anche terminologico.
Ad esempio, nel capitolo XI del Libro dei Morti, intitolato dagli scribi che lo compilarono Formula per uscire contro gli avversari nella Necropoli, il defunto, appartenendo ormai alla dimensione ultraterrena (condizione che, nei dipinti parietali e nei disegni sui papiri, è indicata da una sorta di fiammella rossa sulla testa della persona), si esprime sovente come fosse nei panni di una fra le divinità egizie, in questo caso Ra (il Sole):
Io sono Ra che proviene dall’orizzonte contro il suo avversario, che non sfuggirà né sarà salvato da me. Ho steso il mio braccio come il Signore della Corona… [14]
Anche nella Bibbia ebraica troviamo il gesto, riferito a Dio, di stendere il braccio come segno – evidentemente antropomorfo e non insolito nel contesto delle guerre tra gli antichi popoli mediorientali – di autorità e di potere:
Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai gravami degli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù con braccio teso e con grandi castighi [su di loro] (Esodo, 6, 6);
Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso (Deuteronomio, 5, 15).
Nel capitolo XIV del Libro dei Morti (Formula per rimuovere il dispiacere dal cuore dell’Osiride Ieuf-Ankh giustificato) si legge poi: «Che il male venga rimosso, e fatto cadere sulle braccia del Signore della Verità» [15]. Questa frase somiglia a un consiglio biblico col quale si invita a confidare in Dio: «Getta sul Signore il tuo affanno» (Salmo 54, 13). Nel capitolo CLXII (Formula per produrre una Fiamma [«Bes»] sotto la testa del defunto), sentiamo il sacerdote lettore che si rivolge al defunto divinizzato, o quest’ultimo che si rivolge a un dio: «Tu sei il dio invocato che viene a colui che lo invoca, e che libera l’oppresso dai suoi affanni» [16]. Nell’Esodo si legge una frase quasi simmetrica a questa, espressa dalla voce di YHWH nel roveto ardente al quale si è avvicinato Mosè:
Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto, ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti, conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto (Esodo, 3, 7).
Nel capitolo XVII (Formula della resurrezione degli Akhu dell’uscita della Necropoli…), il defunto dice: «Io sono colui che chiude e colui che apre»; e poco dopo, tra le risposte a una serie di domande decisive da parte di alcune entità divine: «Io sono Ieri e conosco il Domani» [17]. Lo spirito del defunto, divinizzandosi, ha dunque esteso la sua conoscenza dei tempi pari a quella di Osiride: un aspetto della vita ultraterrena secondo gli Egizi su cui si tornerà. Nel capitolo LXIV (Formula per uscire al giorno riassunta in una sola Formula) torna la metafora del potere di aprire e chiudere acquisito dal defunto: «Io apro e sigillo secondo quanto mi ha accordato il Buon Signore» [18]. E nel capitolo XCII (Formula per schiudere la tomba all’Anima [Ba] e all’Ombra [Sẉt], onde uscire al giorno e avere potere sulle gambe):
È aperto ciò che io ho aperto, è chiuso ciò che io ho chiuso, giacente. Io ho aperto ciò che è stato aperto alla mia anima al comando dell’Occhio di Horo… [19]
Troviamo parole simili nel Libro di Isaia (VII secolo a. C.) riguardo al re ebreo Eliakim, che sette secoli più tardi saranno citate nell’Apocalisse, riferite al Cristo risorto nel suo aspetto di Giudice dei viventi e dei morti:
Colui che possiede la chiave della casa di Davide, Colui che quando apre, nessuno potrà chiudere, Colui che quando chiude, nessuno potrà aprire (Isaia, 22, 22; Apocalisse, 3, 7).
Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine (Apocalisse, 22, 13).
Come già accennato, il capitolo XVII è caratterizzato da una serie di domande sempre identiche: «Chi è questo?» e «Che cos’è questo?», indicanti di volta in volta alcune divinità, i loro oggetti-simbolo o determinati luoghi dell’Aldilà, presentati al defunto come in un esame che accerti la sua conoscenza (gnosi) della dimensione cosmica e metafisico-esoterica. Le linee 6-27 del capitolo XCIX (Formula per condurre l’Imbarcazione nella Necropoli), analogamente al capitolo XVII con le sue domande mirate, presentano un comando reiterato, «Dimmi il mio nome!», da parte dei vari elementi che compongono una delle barche divine sulle quali, nell’immaginario allegorico degli Egizi, viaggiavano gli dèi dell’Aldilà e del cosmo [20]: in questo caso, la «Barca del Nu», o Nun, personificazione dell’«Abisso liquido primordiale in cui erano contenute in germe tutte le cose esistenti» [21]. A ogni comando segue la risposta opportuna del defunto, ad esempio:
Dimmi il mio nome!, dice il Sostegno dei Remi – «Pilastri della Necropoli» è il tuo nome!
Dimmi il mio nome!, dice la Cabina – «Dimora dell’Apritore dei Cammini» è il tuo nome!
Dimmi il mio nome!, dice il Timone – «L’Equilibratore splendente delle Acque, il Bastone Misterioso» è il tuo nome! [22].
Similmente, nel capitolo CXLV (Inizio dei Piloni dei Campi Iaru e della Dimora di Osiride), ricorre il dialogo tra l’anima del defunto e ognuno dei ventuno Piloni delle praterie eterne. Il morto, identificandosi nel dio solare Horo figlio di Ra, saluta e onora: «Omaggio a te, dice Horo, o tu Pilone dell’“Essere dal Cuore immobile”! Io ho compiuto la mia strada…», e ognuno dei Piloni (il primo, poi il secondo, e così via) risponde: «Passa! Tu sei puro» [23]. Questi dialoghi al di là del tempo e dello spazio in un’atmosfera sacrale, capace di coinvolgere il pathos del lettore, sono contemporaneamente una richiesta di parole d’ordine per superare l’ostacolo e un esame che mira ad accertare la conoscenza (gnosi) della dimensione del Sacro da parte dell’anima, di cui è in gioco il destino ultimo ed eterno. Questo scenario si può confrontare con quello delle tre domande decisive nelle leggende medioevali sui cavalieri di re Artù alla ricerca del Sacro Graal: «Che cos’è la lancia? Che cos’è la spada? Che cos’è il Graal?». Nella versione del film Excalibur (John Boorman, 1981), le domande sono poste non dal cavaliere (Gawain o Perceval) al Re Ferito, ma dal Re, che è quasi un alter Christus che unisce la figura del Re Ferito e lo spirito di Re Artù (il quale, intanto, è appunto in fin di vita):
Qual è il Segreto del Graal? Di chi è al servizio? – Al tuo, mio Signore.
Chi sono io? – Sei il mio Signore e Re; tu sei Artù.
Hai trovato il Segreto che io ho perduto? – Sì: tu e la terra siete Uno.
Dalle risposte di Perceval dipende non soltanto la salvezza di re Artù, ma anche la rinascita della Terra Desolata, e ciò può far pensare al legame strettissimo che nella weltanschauung egizia univa il Faraone e il destino dell’Egitto, dove la morte del monarca era vissuta come una sorta di crepa nell’ordine cosmico.
L’anima del defunto del Libro dei Morti, continuando a parlare come un dio, dichiara poi: «Io presiedo all’inventario di ciò che è e di ciò che sarà» [24]. Anche la metafora dell’inventario del tempo presente e futuro può ricordare un tema biblico: quello del «Libro della Vita» sul quale solo Dio può scrivere o cancellare il nome di ogni essere umano a seconda delle azioni e degli eventi di cui egli, durante la vita terrena, è stato responsabile (cfr. Esodo, 32, 32; Salmi, 68, 29; Daniele, 12, 1; Lettera di Paolo di Tarso ai Filippesi, 4, 3; Apocalisse, 3, 5; 20, 12-15). La cancellazione, a sua volta, assomiglia a quella che in latino sarà definita damnatio memoriæ – la cancellazione delle tracce scritte e iconografiche di un personaggio pubblico colpevole di qualche reato o dichiarato tale – che talvolta fu praticata anche dai Faraoni egizi (forse l’applicazione più conosciuta è quella che colpì alcuni monumenti della regina Hatshepsut dopo la sua morte nel XV secolo a. C.) [25].
Nell’antico Egitto vi è dunque l’idea che l’anima del defunto, nell’Aldilà, possa acquisire alcune prerogative degli dèi (soprattutto di Osiride), fra le quali la possibilità di conoscere il futuro e di classificarne gli eventi in base a un criterio. La classificazione metafisica degli eventi non è da confondere con la predeterminazione o predestinazione, che esclude il libero arbitrio umano: altrimenti la concezione e la pratica magico-rituale degli antichi Egizi espresse nel Libro dei Morti, dirette a salvare il defunto dall’eventuale condanna ultraterrena in conseguenza di azioni malvagie compiute durante la vita, non avrebbe avuto ragione di esistere. Si deve quindi supporre che l’«inventario» metafisico degli eventi naturali e umani sia basato su un criterio già determinante nella forma mentis degli Egizi: la correlazione degli avvenimenti a una delle due dimensioni cosmico-politiche in contrasto reciproco, la maat (verità, ordine, equilibrio, giustizia) o, al contrario, l’isft (il caos, il disordine), al quale venivano assimilate l’invasione di popoli stranieri, le calamità naturali, le crisi politiche, le epidemie [26].
La facoltà di prevedere i fatti da parte dell’anima del defunto diventa dunque, come quella di Osiride, estesa su un tempo potenzialmente infinito e su un numero presumibilmente illimitato di eventi. Ma si ha l’impressione che gli antichi teologi egizi pensassero che l’anima beata acquisisse anche una sorta di estensione spaziale: l’anima del defunto, non più limitata dal corpo e venendo a coincidere con l’Essere divino di Osiride, diventa forse onnipresente come lui o quasi, acquisendone il punto di vista che potremmo dire celeste:
Ho ottenuto maggior altezza e maggior estensione, e traggo pieno respiro nella Dimora di mio padre il Grande (XXXII, Formula per non far togliere dai coccodrilli allo spirito glorificato i suoi Incantesimi nella Necropoli);
… il Signore del naos [centro del tempio (termine greco)] che sorge nel mezzo della Terra. Egli è me e io sono lui. […] O Ra, […] siano piacevoli per me le tue strade; che le tue strade si allarghino per me, per attraversare la terra ed espandermi in cielo (LXIV, Formula per uscire al giorno riassunta in una sola Formula);
O Glorificato, […] tu non sarai imprigionato da coloro che hanno la custodia di Osiride, e che sorvegliano le anime, e che rinchiudono le Ombre dei morti. Chi ti conterrà sarà [soltanto] il Cielo (XCII, Formula per schiudere la tomba all’Anima [Ba] e all’Ombra [Sẉt]);
L’eternità è per te come durata della ricompensa, data come gratificazione, per rendere più grande e ampliare l’Osiride Ieuf-Ankh giustificato (CIX, Formula per conoscere gli spiriti dell’Oriente);
Il volto dell’Osiride Ieuf-Ankh giustificato è grande come il Grande (CXLIV, Conoscenza dei nomi dei Guardiani delle sette Arrit) [27]
Si direbbe che l’individualità del defunto si sia espansa nello spazio, e la sua vista, ormai indipendente dagli occhi corporei, ora possa comprendere nel suo campo visivo una smisurata porzione della Terra, anziché soltanto la parte limitata dall’orizzonte nella vita terrena. Questo probabile ampliamento del campo visivo può essere confrontato con quello che sembra riscontrarsi in alcuni casi odierni di esperienze di vita extracorporea (OBE: Out of Body Experience) e di esperienza alle soglie della morte (NDE: Near Death Experience), non raramente legate tra loro, suggerendo la possibilità che il corpo sia il supporto materiale, il mezzo di manifestazione, della coscienza-anima, la quale, però – essendo parte di quella che potremmo chiamare Coscienza cosmica (in sanscrito: Cit) o, con il celebre cosmologo Stephen Hawking, «la Mente di Dio» – di per sé eccederebbe la minuscola parte di universo occupata dal corpo. Da alcune testimonianze raccolte nel libro Vita oltre la vita da Raymond Moody jr., medico e psichiatra che si è occupato in modo affidabile delle OBE e delle NDE, emerge che la coscienza-anima, esattamente come la parte dell’anima che gli Egizi definivano Ba, poteva vedere non soltanto il proprio corpo dall’esterno [28], ma talvolta anche un panorama impossibile da abbracciare con la vista corporea:
«Pote[vo] vedere tutto attorno a me – compreso il mio corpo sul letto – senza occupare alcuno spazio». […]
I sensi corrispondenti alla vista e all’udito non soltanto sono intatti nel corpo spirituale, ma sembrano potenziati, perfezionati; un uomo ricorda che la vista sembrava incredibilmente più potente: «Non riesco a capire come riuscissi a vedere tanto lontano». Una donna osserva: «Sembrava che quel senso [visivo] spirituale non avesse limitazioni, come se potessi guardare comunque e ovunque». […]
Molti hanno riferito di aver visto, mentre si trovavano fuori dal corpo, cose accadute a distanza, a volte fuori dell’ospedale, che venivano poi confermate da testimoni [29].
De Rachewiltz ritiene che una delle funzioni principali del Libro dei Morti, quella di «formulario» la cui lettura da parte del sacerdote mirava ad accompagnare e salvaguardare l’anima del defunto, sia fondamentale anche nel Bardo-Thödol, il Libro dei Morti dei buddhisti tibetani [30]; similmente, Raymond Moody ha scritto che il Libro tibetano «veniva letto a chi stava morendo (e, per un certo tempo, anche dopo che era già morto) perché sapesse meglio che cosa lo aspettava» [31]. Moody non parla mai del Libro dei Morti egizio, ma il confronto tra alcuni elementi di questo e la breve sintesi del Libro tibetano fatta da lui [32] può suggerire che possa esistere qualche comunanza tra il testo egizio e l’asiatico anche per quanto riguarda le presunte esperienze del trapassato sulla soglia dell’Aldilà.
Il capitolo XXIII (Formula per aprire la bocca di una persona nella Necropoli) si apre così:
Che la mia bocca sia aperta da Ptah, e che Ammon, dio della mia città, disserri le pastoie della mia bocca da quando sono uscito dal ventre di mia madre [33].
Ptah, uno degli dèi caratterizzati dall’aspetto interamente umano, secondo la cosmogonia dei sacerdoti di Menfi era il dio tutelare della voce e del suo potere di incidere sulla realtà. In un documento risalente alla V dinastia (2500-2350 a. C.) giuntoci soltanto in copia su una stele fatta incidere dal faraone Sciabaka (fine dell’VIII secolo), Ptah è presentato come il demiurgo creatore (e perciò ritenuto anche patrono degli artigiani):
una dottrina molto originale ed eccezionalmente spirituale in confronto con il materialismo della creazione del demiurgo di Eliopoli [il quale si servì delle proprie escrezioni corporali]. Ptah opera la creazione con «il cuore», cioè con la volontà, e con «la lingua», cioè con la parola, il verbo (in veste mitica identificati rispettivamente con Horo e Thot), una vera creazione «per Logos», intellettuale. [34]
La creazione mediante il logos, cioè il pensiero espresso con la voce-parola, è un elemento fondamentale nella tradizione giudaico-cristiana: il Dio («Elohim», più tardi chiamato col nome rivelato YHWH) fa esistere gli elementi del mondo estrinsecando il proprio pensiero mediante la voce: «E disse Dio: “Sia luce!” E fu luce…» (Genesi, 1, 3). Su questa base, secoli più tardi un Vangelo affermerà: «In principio era il Logos, e il Logos era presso Dio […] e tutto ciò che esiste è stato fatto mediante Lui» (Giovanni, 1, 1-3).
Ma anche in Grecia e in India esistevano concezioni della creazione a partire da una energia sonora: nel caso greco, le teorie matematico-musicali dei seguaci di Pitagora, e quelle – analoghe per certi versi, differenti per altri – di Platone [35]. Per gli Indiani devoti al dio Shiva – ha scritto Pio Filippani Ronconi – la dimensione divina è «un universo di energie in cui si rifrange la Parola Cosmica, Pāra Vāk»; nella letteratura prodotta dalle scuole filosofiche shivaite, raccolta sotto il nome di Agama, la forma femminile del Divino detta Shakti, «Sposa-potenza» (del dio), è concepita come madre di ulteriori entità divine femminili tra cui la dea Parola (Vāk, assonante col latino Vox, voce) la quale, essendo «suono udibile» (śabda), è anche fondamento del linguaggio umano; inoltre «la Parola Suprema, Pāra Vāk, è identica alla potenza di Shiva, per cui la Realtà null’altro è che Suono (l’“armonia delle sfere” di Pitagora!)» [36]. Secondo alcune scuole shivaite, un suono indistinto detto para-nāda, al principio di ogni creazione ciclica dell’universo, riempie l’intero spazio e ha la medesima natura della luce: esso si concentra poi in un singolo punto (bindu) e di qui si espande nel «grande suono creatore», il śabda-Brahman [37]. Questa idea del suono-luce concentrato e poi espanso al principio dell’universo sembra quasi anticipare due elementi fondamentali dell’attuale cosmologia: la «singolarità iniziale» e la «radiazione cosmica di fondo», costituita di fotoni (cioè di luce), il cui lontanissimo ronzio (che è stato definito «l’eco del Big Bang») è udibile oggi con gli attuali strumenti scientifici [38].
Note:
1 Termine dal quale deriverà anche l’arabo kimiya, da cui al-kimiya e i nostri «alchimia» e «chimica»: cfr. Serge Hutin, La vita quotidiana degli alchimisti nel Medioevo, Milano, Rizzoli, 1998 [ed. or. Paris, 1977], p. 23.
2 Il Libro dei Morti degli antichi Egizi. Il Papiro di Torino, a cura di Boris de Rachewiltz (d’ora in poi: Il Libro dei Morti (BdR)), Roma, Edizioni Mediterranee, 1986, ristampa 2001, dal risvolto di copertina.
3 Ci si chiede se il mostro Ammit si possa rispecchiare nell’ebraico Behemoth, che significa «bestie», con cui gli Ebrei definivano appunto l’ippopotamo, ritenuto l’animale che incarnava tutte le animalità insieme; cfr. Anthony S. Mercatante, Dizionario universale dei miti e delle leggende, Roma, Newton & Compton, 1988, p. 349 (che rimanda al Libro di Giobbe, 40, 15-24); Laura Tuan, Il grande Dizionario dei Sogni, Milano, De Vecchi-Euroclub, 1995, p. 198.
4 «Gli Egizi non potevano accettare di non vedere i vivi, dopo la morte […] Questa “uscita durante il giorno” è della massima importanza per il morto»: G. Rachet, Il Libro dei Morti degli antichi Egizi. Testo e raffigurazioni del Papiro di Ani, Casale Monferrato, Piemme, 1997, p. 23.
5 Primavera Fisogni, Nel segno del pensiero. Come pensavano gli antichi Egizi, Cosenza, Santelli, 2019, cap. IV (dattiloscritto in possesso dello scrivente, p. 84).
6 Cfr. Il Libro dei Morti (BdR), pp. 62 (Formula XLII) e 135 (Formula CLXII).
7 L’«abracadabra», a quanto pare, si trova per la prima volta come formula contro le malattie in uno scritto del II secolo, quando le comunità cristiane stavano svincolandosi dalle origini giudaiche: da questo punto di vista, la tradizione (cfr. Mercatante, Dizionario universale dei miti e delle leggende, cit., p. 19) che fa derivare l’«abracadabra» dalle parole ebraiche Ab-Ben-Ruah ha-Kadash (Padre-Figlio-Spirito Santo) può risultare discutibile, perché delle prime due parole (ab e ben) sarebbero presenti solo le lettere iniziali, mentre le ultime due sillabe (da-bra) non sono assonanti con kadash o kadòsh (santo, sacro) ma piuttosto con dabàr o davàr (parola).
8 Cfr. ad es. Eugenio Garin, Ermetismo del Rinascimento, Roma, Editori Riuniti, 1988; Silvio Curto, La riscoperta dell’Egitto antico, in Egitto. Introduzione al mondo dei Faraoni, a cura dei Soci C.R.A.L. e S.I.P., Torino, Consiglio Regionale del Piemonte, 1987; Boris de Rachewiltz, Anna Maria Partini, Roma egizia. Culti, templi e divinità egizie nella Roma imperiale, Roma, Edizioni Mediterranee, 1999. Per Kircher e l’egittologia: Maristella Casciato, Maria Grazia Ianniello, Maria Vitale, Enciclopedismo in Roma barocca. Athanasius Kircher e il museo del Collegio Romano tra wunderkammer e museo scientifico, Venezia, Marsilio, 1986; Joscelyn Godwin, Athanasius Kircher e il Teatro del Mondo, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2010; Piervittorio Formichetti, La Mensa Isiaca del Museo Egizio: un reperto egittizzante dall’antica Roma a Torino, “Piemonte Mese” 1 aprile 2014.
9 Fisogni, Nel segno del pensiero, cap. III (dattiloscritto cit., p. 65).
10 Il Libro dei Morti (BdR), p. 66 (capitolo LVIII, Formula per respirare l’aria e avere dominio sull’acqua nella Necropoli). Sembra un modo di intendere il legame tra la Divinità e l’essere umano che può portare a pensare che questo coincida quasi essenzialmente con quella, come nell’Islam sufico di Jalal ad’din Rumi (1207-1273) e, forse, nel Cristianesimo mistico del tedesco Johannes Eckhart (1260-1326).
11 Cfr. Il Libro dei Morti (BdR), tavola IV e didascalia a p. 156. Notiamo le assonanze tra i nomi egizi delle divinità del cielo (Nut) e della terra (Geb) e alcuni nomi indoeuropei corrispondenti: il sanscrito Nakta (dea vedico-induistica della notte), da cui il latino Nox – Nocte(m); il greco Ge o Ghe, «terra», da cui i termini geografia, geologia, geometria, ecc..
12 La stessa posa (una figura umana in piedi con le braccia alzate) e lo stesso significato («invoco protezione») sembrano presenti in forma stilizzata nella quindicesima delle Rune germanico-scandinave, Algiz.
13 Il Libro dei Morti (BdR), p. 13.
14 Ivi, p. 37.
15 Ivi, p. 38.
16 Ivi, p. 135.
17 Ivi, p. 42.
18 Ivi, p. 69.
19 Ivi, p. 85.
20 Ad esempio, il ciclo del Sole era immaginato come un viaggio di Ra nel cielo su una barca che mutava nome a seconda della metà del giorno (oppure si pensava che fossero due barche): Antit o Andjit era la «nave del mattino», dall’alba al mezzogiorno; Mesketet la «nave della sera», dal mezzogiorno al tramonto.
21 Il Libro dei Morti (BdR), p. 172. Questa concezione sembra quasi anticipare quella del «brodo primordiale» elaborata dallo scienziato russo Aleksandr Oparin nel 1924 per indicare lo stato fluido dell’Universo preistorico, dal quale sarebbero sorti tutti i successivi elementi organici (molecole, microrganismi…).
22 Ivi, p. 89.
23 Il Libro dei Morti (BdR), pp. 120-124 passim. Il «Cuore immobile» di Osiride è metafora della sua superiorità e imperturbabilità alle passioni umane, che spesso rendono le persone influenzabili e incostanti.
24 Ivi, p. 42.
25 Nel celebre film I Dieci Comandamenti di Cecil B. DeMille (1956) la damnatio memoriæ è utilizzata come espediente narrativo per spiegare l’assenza di testimonianze egizie su Mosè, dopo che si è scoperta la sua appartenenza agli Ebrei. Il nome Mosè, però, è egizio: la parola mose o mosi significa «generato da», «figlio», «ragazzino», e nei nomi di persona ha significato e funzione analoghi al suffisso –poulos dei cognomi greci (figlio di, oppure: il piccolo, il giovane): ad es. i faraoni Thutmosi, Ahmosi, Kamose; un tale Thutmose marito di Isis fu contemporaneo di Ramses II; un secolo e mezzo più tardi, un altro Thutmose fu sacerdote di Ammon e proprietario di un papiro funebre simile ai Libri dei Morti, il Libro dell’Am-Duat (cfr. Anna Maria Donadoni Roveri, Museo Egizio, Torino, Barisone Editore, s. d., pp. 11 e 37). Il significato di «Estratto [in ebraico Moshé] dall’acqua» è un’interpretazione ebraica del nome suggerita dalle circostanze del suo ritrovamento: Mosè fu chiamato così non da sua madre, ma dalla figlia del faraone, che lo trovò all’età di tre mesi nella cesta galleggiante in un canale del Nilo e lo adottò (Esodo, 2, 10).
26 Cfr. Fisogni, Nel segno del pensiero, capp. V e VI passim (dattiloscritto cit., p. 95).
27 Il Libro dei Morti (BdR), pp. 56, 68, 86, 94, 120. Le sette Arrit sono le sette «Stanze» metafisiche in cui altrettanti dèi risiedono come Guardiani delle Porte dell’Aldilà.
28 Raymond A. Moody, Vita oltre la vita e Nuove ipotesi sulla vita oltre la vita, Milano, Mondadori, 1977, pp. 27-28, 38-39, 41, 47, 77. Cfr. anche Mike Dash, Al di là dei confini, Milano, Corbaccio, 1999, pp. 106-116.
29 Moody, Vita oltre la vita cit., pp. 44, 51, 259.
30 Il Libro dei Morti (BdR), p. 14.
31 Moody, Vita oltre la vita cit., p. 241.
32 Ibidem, ivi, pp. 103-106.
33 Il Libro dei Morti (BdR), p. 51.
34]Edda Bresciani, L’antico Egitto – La religione, in La Storia, vol. 1, Dalla preistoria all’antico Egitto, Novara De Agostini-Torino UTET-Milano Mondadori 2007, p. 664.
35 Cfr. ad es. Armando Bertinetti, Cosmogonie musicali (reperibile in internet anche in formato .pdf).
36 Cfr. Pio Filippani-Ronconi, L’Induismo, Roma, Newton, 1994, pp. 64-65, 71-72, 85.
37 Cfr. Sarvepalli Radakrishnan (a cura di), Storia della filosofia orientale, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1981, tomo II, pp. 521-522.
38 Cfr. ad es. Halliwell, Krauss et al., Cosmologia. Alla ricerca delle origini dell’universo, Milano, Mondadori, 2003, pp. 10, 25, 46-47, 67, 71. Curiosamente, nel 2003 un satellite della NASA captò una nota musicale proveniente dalla costellazione Perseo, un Si-bemolle lontano 250 milioni d’anni-luce e «un milione di miliardi di volte più bassa dei suoni che l’orecchio umano può percepire» (Piero Bianucci, Hai mai sentito fischiettare un buco nero?, “Specchio” 11 ottobre 2003, pp. 96-100).
(articolo originariamente apparso nel 2021 col titolo Il “Libro dei Morti” degli antichi Egizi 1a parte, sul blog Axis Mundi, che ringraziamo per la collaborazione)
Piervittorio Formichetti
(continua…)