La radice dei numeri sacri – II parte – Giovanna Bruno
(prosegue…)
La sacralità del numero nella cultura orientale.
Che il numero sia divino non sono soltanto le fonti occidentali a dircelo; basti pensare alla matematica vedica, in quanto, riferendoci alla Kulpasutra (letteratura rituale) in essa sono contenute i Sulbasutra che forniscono indicazioni su come costruire un altare (sulba= misurare; sutra= filo, dalla radice indoeuropea *syū-, la stessa del latino suere, “cucire”, in generale sono i versetti. Designa letteralmente un filo, una corda; in senso figurato la parola sūtra sta ad indicare una massima, una sentenza breve, un aforisma. I sūtra, come le perle di una collana, sono posti in successione sul medesimo filo, lungo il percorso logico stabilito1). Ciò dà l’opportunità di affermare che la società dell’antica India vedica non ha soltanto dato vita (come affermava Dumézil2) la ripartizione sociale, ma anche ad una vasta conoscenza scientifica, poiché non solo la matematica bensì financo l’astronomia si sviluppa in aiuto a quanto vi è di più sacro: la benedizione, il favore divino per i raccolti, attività che devono essere svolte in certi giorni, in precisi orari con precise azioni e affinché ciò riesca per il meglio la divinità deve essere propiziata cosicché dia il raccolto sia buono. Accade solo se la volontà della divinità è stata esaudita, quindi i sacrifici e le offerte ad essa graditi posti sull’altare in un certo modo, seguendo le indicazioni dei sutra che cominciano dalla costruzione precisa dell’altare stesso e precisa è la pronuncia di ogni singola parola di ciascun versetto perché altrimenti si sbaglia a porre un mattone, una pietra o chi per essi e allora il rituale che verrà attuato sarà nefasto, dichiarando il rito in toto nefasto e, perciò, attirando la malevolenza della divinità3!
Lo apprendiamo dai Vedanga4, che contengono informazioni astronomiche, e dai Jyotisutra5 (ricordiamo che Il termine sūtra si riferisce ad una tecnica di composizione e deriva dal tema verbale √sīv, “cucire”, unito al suffisso d’agente –tra) che offrivano un modo per calcolare il tempo e la posizione del Sole e della Luna nei diversi segni zodiacali. In particolare i Sulbasutra costituiscono una parte preziosa dei testi sacri dell’induismo, noti come Vedanga, una sorta di “appendici” strettamente legate ai principali Veda e si concentrano sulla geometria, la costruzione degli altari e le regole per i riti e le cerimonie. I Sulbasutra sono stati composti tra l’800 e il 600 a.C. con l’obiettivo di garantire la conformità rigorosa degli altari alle prescrizioni vediche. La precisione nella forma, nell’orientamento e nell’area degli altari era essenziale per l’efficacia dei rituali, proprio come la meticolosa pronuncia dei canti vedici (mantra). Tra le conclusioni geometriche più importanti, troviamo il teorema di Pitagora per i triangoli rettangoli. I Sulbasutra forniscono istruzioni dettagliate per la costruzione di altari di forme diverse e contengono algoritmi per calcolare aree e misure. Baudhayana, Apastamba e Katyayana hanno enunciato il teorema di Pitagora in termini di lati e diagonali di quadrati e rettangoli; ad esempio, secondo Baudhayana, la fune tesa attraverso la diagonale di un quadrato produce un’area doppia rispetto al quadrato originale6.
Applicazione Pratica:
– Immaginiamo un altare mahavedi, utilizzato per sacrifici agli dei. Le dimensioni precise dell’altare erano cruciali per il successo del rituale.
– Nel Sulbasutra di Apastamba, venivano fornite istruzioni dettagliate per la costruzione di tale altare, utilizzando una fune come strumento di misura.
Essendo (tutte queste) preghiere, come poc’anzi si diceva, va da sé che risultano importanti la fonetica e la grammatica: altari (o veda) e i fuochi sacri (o agni) erano posizionati in base a precise indicazioni nei due principali rituali, quello familiare dove l’altare era o quadrato o un cerchio, e quello pubblico più complesso, elaborato (a volte aveva forma di falco).
(Il numero all’interno delle caselle indica le quantità dei mattoncini di un certo colore o forma)
Anche se per gli Antichi Egizi e in Mesopotamia la matematica era avulsa dal sacro, come ci informa G. Joseph nella sua opera “C’era una volta un numero”7, pur restituendoci un sapere matematico altrimenti non conosciuto, dall’Oriente e soprattutto dalla Cina giungono alcuni documenti: le prime fonti cinesi risalgono al periodo Shang, ovvero 1500 a. C. circa, e sono avvertenze sull’utilizzo della matematica in relazione alla divinizzazione tramite gli ossi per oracoli (come venivano chiamati), ovviamente tutto spiegato tramite un linguaggio scritto che seguiva precise regole grammaticali.
La divinazione con gli ossi oracolari, nota anche come scapulomanzia, si svolgeva nel seguente modo: gli ossi oracolari erano principalmente scapole di bovini o gusci di tartaruga e su un lato dell’osso veniva incisa la domanda da porre agli antenati o alla divinità suprema Shangdi, mentre sul lato opposto venivano scavate delle cavità in corrispondenza dei caratteri (gli antenati dei moderni ideogrammi cinesi).
(Ossario oracolare, Anyang, in Cina)
Supponiamo che la domanda incisa sull’osso fosse:
“Avrò successo nel mio prossimo affare commerciale?”
L’osso viene quindi sottoposto al rito divinatorio. Le fratture risultanti potrebbero essere interpretate come segue:
- Se l’osso si rompe in modo netto e pulito: “Sì, avrai successo.”
- Se l’osso si frattura in modo irregolare o frammentato: “No, non avrai successo.”
Queste risposte erano spesso concise e dirette, fornendo una guida agli individui che cercavano di prendere decisioni importanti o di ottenere consigli dagli antenati o dagli dèi.
La scrittura sulle ossa oracolari cinesi utilizza un sistema numerico a base 10, ma non posizionale. I numeri vengono combinati per formare valori più grandi, come mostrato nella terza serie qui sotto. Questo legame tra la divinazione e i numeri dimostra l’importanza dei numeri nella cultura e nella pratica divinatoria cinese antica.
A questo periodo, però, appartiene anche l’opera Chou Pei Suan Ching (Libro classico della gnome e delle orbite circolari del cielo), che anticipa di molti anni la teoria di Pitagora8
Questa figura potrebbe essere una dimostrazione del teorema di Pitagora. Nel disegno si vede infatti un triangolo rettangolo di lati 3, 4 e 5 e un quadrato grande di lato 7 = 3 + 4. La dimostrazione matematica, presentata di seguito per sommi capi, serve a sottolineare quanto già detto riguardo i numeri “magici”, in quanto sono sempre ricorrenti nei loro multipli: Quattro triangoli rettangoli, di cateti 3 e 4 u, sono collocati attorno al quadrato centrale di lato 1 u.
Costruendo i simmetrici dei triangoli rispetto al punto medio delle ipotenuse (si raddoppiano i quattro triangoli), otteniamo il quadrato Q_1 di lato 7 u. L’area di questo quadrato è di 49 u². Per avere l’area del quadrato Q_2, che risulta costruito sull’ipotenusa del triangolo rettangolo di cateti 3 e 4, dobbiamo togliere l’area di quattro triangoli, ognuno dei quali ha area 6 u², cioè 49 – 24 = 25 u². Il lato di questo quadrato misura quindi 5 unità. Proprio secondo la terna pitagorica9: 3, 4, 5.
A cosa serve ciò? Ci riporta anzitutto al quadrato magico cinese di cui si è parlato quando si è analizzato il numero 4, poi la connessione successiva è con la geometrica vedica.
Il Sistema Vedico comprende due sottosistemi fondamentali: il sistema Sankhya e il sistema Yoga. Questi due approcci sono reciprocamente complementari e conducono agli stessi risultati.
- Sistema Sankhya: Si basa sulla manipolazione dei numeri e richiede una configurazione dimensionale. Quando disponibile, il sistema Sankhya utilizza artifici numerici di ordine 4.
- Sistema Yoga: Si occupa delle configurazioni dimensionali e delle procedure computazionali. È particolarmente rilevante quando si tratta di spazi di ordine 4.
Tale spazio reale è legato all’ipercubo-4 (ricordiamo che il numero 4 è relazionato alla materia creata, all’ordine in relazione allo spazio)10, rappresentato iconicamente come Brahma, è il quarto membro della sequenza dei solidi regolari. Questa sequenza inizia con l’intervallo (ordine 1), prosegue con il quadrato (ordine 2) e il cubo (ordine 3).
(La notazione simbolica dello Spazio reale di ordine 4)
Per comprendere l’esistenza dello spazio reale di ordine 4, consideriamo l’esperienza mentale del centro del cubo (l’origine dello spazio di ordine 3). Immaginiamo un cubo diviso in otto parti da un sistema di riferimento tridimensionale. Inoltre, le traiettorie di punti, segmenti, superfici e volumi portano rispettivamente agli spazi reali di ordine 1, 2, 3 e 4. Lo spazio reale di ordine 4 deriva dal movimento di volumi. Passando dallo stato macroscopico allo stato microscopico, possiamo concepire lo spazio di ordine 4 come uno stato sottile.
Esistenza di Spazi di Ordine Superiore
- Consideriamo il segmento come la traccia di un punto in movimento, la superficie di un quadrato come la traccia di un segmento in movimento e il volume di un cubo come prodotto dal movimento di una superficie quadrata.
- La traccia prodotta dal volume di un cubo in movimento è l’ipercubo-4, uno spazio quadridimensionale.
- Noi stessi, quando ci muoviamo, creiamo spazio quadridimensionale. Quindi, lo spazio in cui ci muoviamo liberamente non è tridimensionale, ma quadridimensionale, con dimensioni di ordine superiore.
- Il movimento di un ipervolume (ipercubo-4) crea uno spazio pentadimensionale e così via. In generale, un oggetto di dimensione n, con il suo movimento, crea uno spazio di ordine n+1.
Per avere una chiara esperienza mentale degli spazi di ordine superiore al 3, è necessario perfezionare la propria visione interiore considerando il movimento di punti, segmenti, superfici e volumi11.
Orbene, anche qui compare il “teorema dei numeri”, secondo cui vi sono i numerabili, cioè quelli intermedi che cominciano dal 2 sempre in ragione del fatto che 1 non era conosciuto, e gli infiniti e in connessione con ciò possiamo menzionare l’Albero della vita, albero cosmico della Creazione e Trasformazione Ciclica della Natura; la struttura dell’Albero della Vita è collegata ai sacri insegnamenti della Kabbalah, ma già 3000 anni prima nell’Antico Egitto è rappresentato con una precisa struttura molto vicina al Fiore della Vita, cioè una rappresentazione intricata dei 32 sentieri, comprese le dieci emanazioni divine (o sefirot ) che collegano l’infinito al mondo fisico e i 22 sentieri attraverso cui essi si snodano12:
- Kether (Corona) o Kether Elyon (Corona suprema);
- Chokmah (Saggezza); Binah (Intelligenza);
- Chesed (Pietà) o Gedullah (Grandezza);
- Geburah (Severità o Potere);
- Din (Giudizio) o Pahad(Paura);
- Tifereth (Bellezza) o Rahamim (Pietà);
- Netsach (Vittoria o Costanza);
- Hod(Gloria o Maestà);
- Yesod (Fondamento) o Tsedek (Giustizia);
- Malkuth (Regno) o Shekhinah (Immanenza divina)
Alcuni studiosi hanno cercato un’assimilazione tra le suddetti sefirot e le categorie aristoteliche; tuttavia, essi sono concetti diversi. Mentre le Sefirot, infatti, rappresentano attributi divini e influenzano la realtà spirituale, le categorie aristoteliche13 sono strumenti di analisi filosofica utilizzati per classificare gli oggetti materiali: dunque, le Sefirot riguardano l’esperienza spirituale, mentre le categorie aristoteliche si concentrano sulla comprensione della sostanza e delle sue proprietà. Comunque, ciò che ora più interessa è la costruzione di un preciso disegno. L’intero disegno è inciso in una grafica circolare aperta, attraverso la quale l’Aria fluisce tra le foglie e le radici. Il gioco di pieni e vuoti conferisce all’albero la capacità di respirare, donandoci ossigeno grazie alla sintesi clorofilliana: come essa permette alle piante di trasformare la luce solare in energia chimica, producendo sostanze organiche, principalmente carboidrati, a partire dall’anidride carbonica atmosferica e dall’acqua, così l’albero della vita permette la crescita e dà forza ai mondi che sorregge sui rami che protendono verso l’alto, abbeverando le sue radici nella fonte d’acqua sottostante: come un seme che si fa largo nella terra per emergere, solo dopo paziente fatica, esso può sfidare la natura circostante, connettendo ciascun essere vivente con il mondo che lo circonda. Le radici rappresentano, infatti, gli antenati, mentre i rami e le foglie simboleggiano le generazioni future. Tuttavia, l’albero della vita è collegato simbolicamente agli quattro elementi acqua, aria, fuoco e terra, che rappresentano rispettivamente protezione, risanamento, ringiovanimento, immortalità e sostentamento., simboleggiando la forza della vita stessa. Ora osservando attentamente l’immagine creata dalle Sefirot, emerge il segno dell’Ankh, l’antica chiave della vita egizia, che si forma al centro del disegno nel tronco e nei rami principali a forma di “T”14.
La particolarità risiede nell’anello circolare dell’Ankh, che si raddoppia e si specchia verso l’alto, assumendo la forma di un otto, non assai diversamente da quanto accade con l’albero cosmico norreno, Yggdrasill, che, però, sembra essere formato Tiwaz a cui si sovrappone Othila. In effetti, la runa Othila è un simbolo profondo e unico nell’antico alfabeto runico. Deriva dalla parola proto-germanica “Óðal“, che significa “patrimonio” o “eredità”. Questa runa rappresenta la terra ancestrale, l’eredità familiare e il legame con le generazioni passate. Oltre al significato terreno, Othila è considerata un antenato divino nelle credenze nordiche e germaniche, protettrice dei legami familiari e delle radici culturali. Ci invita a riflettere sulle nostre origini e a preservare il nostro patrimonio per le future generazioni15. In questo contesto, queste ultime possono essere viste come un modo di perpetuare l’eredità familiare e di collegare le generazioni attraverso il tempo, di immortalità. Stesso significato che si può cogliere dall’ Ankh: ha profonde radici nella cultura egizia e continua a ispirare e affascinare ancora oggi. Oltre a rappresentare la vita, l’Ankh è stato utilizzato per la protezione spirituale e fisica, la guarigione e le pratiche funerarie. Inoltre, è ancora usato nelle religioni neopagane moderne come simbolo di vita e immortalità.
L’albero, con il suo tronco, i rami, la chioma e le radici, costituisce una diretta rappresentazione dell’Uomo. All’interno del tronco, dove i rami si incrociano, si trova “l’Occhio”, ruotato verticalmente e posizionato all’altezza del cuore sia dell’Uomo che dell’Albero. Questo “Occhio del cuore” o “Intelligenza del Cuore” rappresenta un punto di connessione profonda. Le Radici richiamano gli intrecci dei nodi celtici, le cornici e i nodi alla maniera di Leonardo. Inoltre, un flusso di energia collega le Radici ai Rami, simboleggiando l’albero del giardino dell’Eden come fonte di vita e nutrimento. I rami, a loro volta, rappresentano i “Cieli”, mentre le radici simboleggiano le Origini dell’umanità. Questo albero è anche un simbolo di connessione tra la Madre Terra e l’Universo. Il tronco funge da congiunzione tra il piano terreno e quello celeste: l’Uomo, come l’albero, è figlio del cielo quando è pensatore e della terra quando è produttore. È la sintesi dell’uno e dell’altro, un punto d’intersezione e una chiave di collegamento tra ciò che è in basso e ciò che è in alto.
(Cosmografia nordica – In questo diagramma, il frassino Yggdrasill cresce al di sopra della volta del cielo (si noti i quattro nani che sorreggono quest’ultima), forse nel tentativo di dare una localizzazione alle radici (Gordon 1956)
L’Albero della Vita è, allora, un simbolo rappresentante l’interconnessione di tutto ciò che esiste, che si estendono verso l’infinito, ed è presente in tutte le ere nelle diverse religioni:
- Simbolismo biblico: L’Albero della Vita trae il suo nome dall’omonimo albero biblico. Nella Bibbia, l’Albero della Vita si trova nel Giardino dell’Eden ed è associato all’opportunità offerta da Dio all’uomo di condividere la vita eterna;
- l’Albero della Vita costituisce un sistema cosmologico e psicologico antico. Esso collega la vita terrena con l’ignoto, la realtà umana con l’infinito, e rappresenta il ciclo della vita e la nostra eterna ricerca di comprensione;
- Mosaico di Otranto: Nel mosaico della cattedrale di Otranto, l’Albero della Vita è una figura centrale. Lungo di esso si dipanano rappresentazioni che includono il Peccato originale, la cacciata di Adamo ed Eva dal Giardino dell’Eden e il serpente del peccato16 .
L’Axis Mundi, quindi, simboleggia unità (quell’Uno che è tale nelle sue molteplici emanazioni, qui di fatto sono rami e radici), ciclo della vita e la nostra connessione con l’infinito. La sua presenza in diverse culture e contesti testimonia la sua profonda rilevanza per l’umanità.
Infinito definito o finito indefinito?
La matematica rivela la sua affascinante complessità quando introduce il concetto di “infinito”. Improvvisamente, ciò che sembrava impossibile diventa possibile e i calcoli, un tempo inaccessibili, diventano fattibili grazie alla sinuosa figura dell’8 orizzontale rovesciato. Questo simbolo dell’infinito non si limita solo all’ambito matematico ma permea anche l’arte e la vita quotidiana: lo troviamo stampato sui vestiti o al centro di un gioiello. Oltre alle sue rappresentazioni visive, l’infinito assume un significato profondo nella filosofia e nella letteratura, incarnato nelle espressioni “per sempre”, “eterno”, “eternità”, “senza fine” o semplicemente “infinito”. Nel corso dei secoli, l’infinito ha stimolato domande e riflessioni, dalle dichiarazioni d’amore alle ampie teorie filosofiche. Nell’Antica Grecia, il termine “apeiron” indicava l’assenza di limiti e portava con sé una connotazione negativa in un mondo che valorizzava le forme definite e perfette17. Tuttavia, Aristotele fu il primo a considerare il flusso del tempo e la divisione dello spazio come potenzialmente infiniti, aprendo la strada a nuove prospettive. Anche filosofi come Plotino, Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino hanno esplorato l’infinito nel contesto della filosofia cristiana medievale. Il simbolo dell’infinito, “∞”, fu introdotto nel 1655 dal matematico inglese John Wallis, che lo descrisse come una linea senza fine. Oltre a questo segno, Wallis propose anche la divisione 1/∞, che suggerisce l’esistenza di grandezze incommensurabili che tendono a zero.
Questa formalizzazione matematica dell’infinito aprì nuovi orizzonti per lo sviluppo delle teorie scientifiche. La parola “infinito” deriva dal latino “infinitas“, che significa “senza limiti”. Un antico simbolo dell’infinito è l’Uroboro, raffigurato come un serpente o un drago che si morde la coda, formando una figura simile all’8. Questo simbolo rappresenta il ciclo eterno della vita e la costante rigenerazione.
Nel contesto cristiano, il numero 8 è associato all’infinito e simboleggia un nuovo inizio, un ordine di creazione e la resurrezione. Sebbene il simbolo dell’infinito non compaia esplicitamente nella Bibbia, la sua connessione con l’ottavo giorno, quando il Salvatore apparve sulla terra dopo la risurrezione, conferisce a questo numero una potente simbologia. In altre culture, come l’antica India e il Tibet, il simbolo dell’infinito rappresenta la dualità tra energia maschile e femminile, incarnando la perfezione e l’eternità. In antica India e Tibet, il simbolo dell’infinito era considerato un emblema di perfezione e rappresentava la dualità tra energia maschile e femminile. La cultura celtica, invece, lo raffigurava attraverso intricati nodi che creavano l’impressione di un ciclo senza fine, esattamente ciò che ci fa intendere Aristotele quando ci parla di atto e potenza: introdusse i concetti di atto (ἐνέργεια) e potenza (in greco δύναμις), associandoli rispettivamente a quelli di forma e materia. La potenza rappresenta la possibilità, da parte della materia, di assumere una determinata forma, mentre l’atto è la realizzazione congiunta di tale capacità¹. In altre parole, ogni mutamento della natura è un passaggio dalla potenza alla realtà, grazie a un’entelechia, una ragione interna che struttura e fa evolvere ogni organismo secondo leggi proprie. Ad esempio, un seme possiede già dentro di sé la pianta in potenza, mentre la pianta rappresenta il seme in atto.
Per spiegare meglio il medesimo concetto, J.P. Luminet nell’opera “Finito o infinito? Limiti ed enigmi dell’Universo” fa un ulteriore esempio che, seppur banale, esprime a perfezione il concetto aristotelico: chi cammina, con la sequenza dei propri passi, uno dopo l’altro, comprende che potrebbe procedere indefinitamente, poiché, in teoria, potrebbe fare un ulteriore passo avanti. Ecco che ci troviamo di fronte alla prima intuizione: esiste un indefinito senza fine, ovvero ciò che per Aristotele è l’infinito potenziale; ovviamente, esso è legato al successore del numero naturale (dettato dai passi), il che porta a dire che non esiste effettivamente un numero ultimo; da qui il principio di ricorrenza, che ci permette di disegnare l’infinito come 0, che abbiamo in principio detto essere non un numero, essendo classe nulla18. Poiché, come qui detto, l’infinito è l’equilibrio della dualità, così lo zero, perfetto annullamento del bene e del male, da cui ha scaturigine il Bene che esiste solo in virtù del male, così come l’1 esiste in virtù del molteplice, che parte dalla dualità dei due principi che Empedocle chiama Amore e Contesa, per divenire tre affinché vi sia un punto d’incontro (che possiamo vedere nello Spirito Santo nel caso del Cristianesimo, il demiurgo per Platone) e divenire 4 perché tramite il terzo elemento esiste la possibilità di creare la materia e dominare sull’ordine e così via. Insomma, la realtà sensibile, sebbene imperfetta, si conforma a modelli matematici che riflettono, a loro volta, le geometrie cosmiche e già Platone ci insegna l’importanza della razionalità, poiché essa ci guida nel tradurre il vero modello del mondo delle idee nella realtà della città ideale, la quale, a sua volta, rappresenta l’espressione della giusta misura e delle regole innate. E, perciò, possiamo concludere che “Uno è tutto e tutto è uno”.
NOTE:
1 https://en.wikipedia.org/wiki/Shulba_Sutras
2G. Dumèzil, L’idéologie tripartite des Indo-Européens, Bruxelles, Collection Latomus 1958
3 G. G. Joseph, C’era una volta un numero, p.p. 77-90, Il Saggiatore, Milano 2000
4 Evolution of the six Vedanga, Indian Institute of Technology Kharagpur, 2019
5Jyoti-śāstra e i Veda. Analisi sulla più antica scienza astrologica e astronomica del pianeta e dei suoi concetti filosofici e teologici fondanti, Roberto Gozzi, Śrīpāda Edizioni, Bergamo 2012
6G. G. Joseph, C’era una volta un numero, p.p. 77-90, Il Saggiatore, Milano 2000
7 Ivi, p.p. 92-101
8 Ivi, p.p. 228-239
9 Ivi, p. 257
10 Si rimanda alla prima parte del medesimo articolo
11 G. G. Joseph, C’era una volta un numero, p, 257 Il Saggiatore, Milano 2000
12 https://academic.oup.com/yale-scholarship-online/book/21475/chapter/181268428
13Si rimanda alla prima parte del medesimo articolo
14 Annick de Souzenelle, Il simbolismo del corpo umano. Dall’albero della vita allo schema corporeo, P. Longo e Yvonne Mollard (Traduttori) Servitium Editrice, 2010
15 G. Bellini e U. Carmignani, Runemal: il grande libro delle rune, Edizioni L’Età dell’Acquario, p.330, Torino 2017
16 https://it.m.wikipedia.org/wiki/Mosaico_di_Otranto
17 J. P. Luminet, Finito o infinito? Limiti ed enigmi dell’Universo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, Prologo p XII.
18 Ivi, Prologo p XII
Giovanna Bruno,
(Marcianise) docente di Lettere laureata in Filologia classica presso l’Università degli studi della Campania “Luigi Vanvitelli” nel 2018 con una tesi in Storia delle Religioni.