Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
La pratica meditativa del respiro nella tradizione dei Sutra – Luca Violini
- Postura
- a) Ogni volta che vi sedete a meditare su una sedia o su un cuscino per terra, cercate di essere più comodi possibile, mantenendo la schiena dritta.
- b) Fate in modo che schiena, collo e testa siano allineati, in senso verticale e anche laterale.
- c) Vi consiglio all’inizio di chiudere gli occhi, ma se preferite potete tenerli aperti.
- Rilassamento
- a) Mantenendo la colonna vertebrale dritta, rilassate ogni tensione nel corpo.
- b) Rilassate anche la mente. Concedetevi qualche istante per riconoscere che state regalando un po’ di tempo a voi stessi, rispetto ai compiti e alle preoccupazioni abituali del vostro quotidiano.
- Intenzione e respiro
- a) Ponetevi come obiettivo di praticare con diligenza per l’intera sessione di meditazione, indipendentemente dal risultato.
- b) Respirate attraverso il naso il più naturalmente possibile, senza cercare di controllare il respiro.
- c) Portate l’attenzione alle sensazioni associate al respiro dentro e intorno alle narici o sul labbro superiore. Un’altra opzione consiste nel concentrare l’attenzione sulle sensazioni associate al respiro a livello dell’addome.
Cercate di capire dove vi è più facile concentrarvi e poi proseguite così per il resto della seduta. Sarà il vostro oggetto di meditazione.
- d) Fate in modo che l’attenzione resti concentrata sull’oggetto di meditazione, mentre la consapevolezza periferica si mantiene rilassata e aperta a qualsiasi cosa emerga (per esempio, i suoni dell’ambiente, le sensazioni fisiche nel corpo e i pensieri sullo sfondo).
- e) Cercate di mantenere l’attenzione concentrata sull’oggetto di meditazione.
Inevitabilmente la vostra mente cadrà preda della distrazione e se ne allontanerà. Non appena ve ne accorgete, concedetevi un momento per apprezzare il fatto che vi siete ricordati della vostra intenzione di meditare, e date un’immaginaria «pacca sulla spalla» alla mente. Potrebbe anche manifestarsi la tendenza a giudicarsi e a sentirsi delusi per avere perso l’oggetto della concentrazione, ma ciò è del tutto controproducente. Il pensiero errante è qualcosa di assolutamente naturale, quindi non importa che abbiate smarrito la concentrazione. Ciò che conta è accorgersene e riportare la mente sull’oggetto prestabilito. Di conseguenza, rinforzate positivamente tale comportamento, facendo del vostro meglio per gratificare la mente perché se n’è ricordata.
- f) Ora riportate con gentilezza l’attenzione sull’oggetto di meditazione.
- g) Ripetete tutto quanto è descritto al punto 3, fino alla conclusione della sessione di meditazione, e ricordate: l’unica meditazione «sbagliata» è quella che non avete fatto
Attraverso questa pratica secondo la tradizione dei Sutra passiamo dieci Livelli:
Livello 1: Porre le basi della pratica meditativa
Livello 2: L’attenzione interrotta e il superamento del pensiero errante
Livello 3: Estendere l’attenzione e vincere la dimenticanza
Livello 4: L’attenzione continua e il superamento delle distrazioni grossolane e del torpore grossolano
Livello 5: Il superamento del torpore sottile e l’incremento della mindfulness
Livello 6: Domare le distrazioni sottili
Livello 7: L’attenzione esclusiva e l’unificazione della mente
Livello 8: La flessibilità mentale e la pacificazione dei sensi
Livello 9: La flessibilità mentale e fisica e placare l’intensità della gioia meditativa Livello 10: La tranquillità e l’equanimità.
Commento alla pratica della respiro dei Sutra
Per comprendere il ruolo del respiro appena presenta bisogna per prima cosa comprendere la distinzione tra mondo mentale e mondo materiale. I primi a distinguere il mondo mentale da quello materiale furono i greci con i loro primi studi di logica e di analisi della logica grammaticale. Per i greci L’analisi logica di una frase ne separa tre aspetti complementari: l’enunciato linguistico, il giudizio mentale e la proposizione cognitiva. Sui tre fronti coinvolti, che sono il linguaggio, il pensiero e il mondo, la logica schiera le sue tre divisioni: la semiotica, la sintassi e la semantica, che arruolano rispettivamente i segni, i sensi e i significati, determinandone in particolare le condizioni di correttezza grammaticale, validità formale e verità sostanziale. Aristotele, nell’interpretazione a questo proposito scriveva:
“I pensieri sono immagini di oggetti, le parole sono simboli di pensieri, e le lettere scritte sono simboli di suoni vocali. Lettere e suoni [cioè scritture e lingue] non sono uguali per tutti, ma i pensieri e gli oggetti si“.
E ancora come riporta Sesto Empirico in Contro i matematici:
“Gli stoici dicono che tre cose sono legate fra loro: il segno, il senso e il significato. Il segno è la parola, ad esempio «Dione». Il senso è ciò che la parola rivela e che si comprende mediante il pensiero, ma che i barbari non comprendono, benché possano udire il suono della parola. Il significato è l’ oggetto che esiste all’esterno, ad esempio Dione stesso. Di queste cose, segno e significato sono corporei, e il senso è incorporeo“.
L’ultima affermazione allude al fatto che il segno, in quanto scrittura o suono, e il significato, in quanto oggetto o stato di cose, sono concreti e appartengono al mondo fisico, mentre il senso, in quanto pensiero, è astratto ed immateriale ed appartiene al mondo mentale. Fra i moderni, colui che espresse più chiaramente la distinzione fu Frege, nell’articolo “Senso e significato” del 1892:
“Pensando a un segno (sia esso un nome, o un nesso di più parole, o una semplice lettera), dovremo collegare a esso due cose distinte: e cioè, non soltanto l’oggetto designato, che si chiamerà «significato di quel segno», ma anche il «senso del segno», che denota il modo come quell’oggetto ci viene dato. Per esempio, le espressioni «stella della sera» e «stella del mattino» designano l’identica stella, e perciò hanno il medesimo significato, ma hanno invece, ovviamente, un senso diverso”.
Nella tradizione del Buddhismo Mahayana e in particolare nelle corrente del la Madhyamaka e Cittamatra questa distinzione tra mondo mentale e mondo materiale tra senso e significato verrà ulteriormente sviluppate e delucidata . Un testo fondamentale del Buddhismo tibetano il Lorig definisce infatti la mente concettuale come una la mente che coglie un oggetto tramite un immagine mentale. Ad esempio quando si pronuncia la parola fiore il suono di questa parole si forma nella nostra mente un’immagine generica di questo fiore. L’immagine che noi creiamo è un po’ come quando ci guardiamo allo specchio. Attraverso l’immagine riflessa sappiamo com’è la nostra faccia realmente. In modo simile la nostra mente concettuale conosce l’oggetto non direttamente ma attraverso questa generica immagine mentale dell’oggetto stesso. Se parliamo con precisione, dobbiamo dire che il fiore appare ad una mente concettuale che apprende il fiore perché l’immagine generica del fiore appare alla mente.
Pertanto secondo il Lorig il fiore non è altro che l’immagine dell’oggetto che appare ad una mente concettuale che apprende il fiore. Questo porta alla conclusione che ogni pensiero, ogni sentimento e ogni percezione sono composti d’immagini psichiche, e il mondo esiste soltanto in quanto noi siamo capaci di produrne un’immagine. Siamo così profondamente impressionati dal fatto di essere imprigionati e limitati nella nostra psiche, che siamo addirittura pronti ad ammettere che esistano in essa cose che non conosciamo e che chiamiamo “l’inconscio”: il fatto che né sappiamo né affermiamo di sapere che cosa sia la “psiche” e cosa sia questo mondo immateriale che noi etichettiamo come psiche. Scrive Jung :
““Realtà psichica” è un concetto controverso, così come “psiche” o “spirito”. C’è chi intende questi due concetti come la coscienza con i suoi contenuti, e chi invece ammette l’esistenza di immagini “oscure” o “subconsce”. Gli uni includono gli istinti nella sfera della psiche, gli altri li escludono. La grande maggioranza considera la psiche un risultato di processi biochimici che si svolgono nelle cellule cerebrali; alcuni pochi congetturano che sia dovuta alla psiche la funzione delle cellule corticali; molti identificano “vita” con psiche. Ma soltanto una minoranza trascurabile considera il fenomeno psichico una categoria dell’Essere in sé e per sé e ne trae le necessarie conseguenze.. È infatti una contraddizione che la categoria dell’essere, condizione sine qua non di ogni essere, e cioè la psiche, venga trattata come reale solo a metà. L’essere psichico è, in verità, l’unica categoria dell’essere di cui abbiamo conoscenza diretta, poiché nulla può essere conosciuto se non appare come immagine psichica. Soltanto l’esistenza psichica è direttamente verificabile. Se il mondo non assume la forma di un’immagine psichica, è praticamente non esistente. Questo è un fatto dli cui l’Occidente non si è ancora perfettamente reso conto, salvo in poche eccezioni, come ad esempio nella filosofia cli Schopenhauer. Ma Schopenhauer era influenzato dal buddhismo e dalle Upanisad”.
L’unica forma di esistenza di cui abbiamo conoscenza immediata è quella psichica. Potremmo ben dire, anzi, che l’esistenza fisica non è che una deduzione, poiché noi conosciamo la materia solo in quanto percepiamo delle immagini psichiche trasmesse attraverso i sensi: la scoperta del mondo psichico della realtà immateriale e non fisica del nostro essere e la sua netta distinzione con il mondo fisico trae origine da una credenza proveniente dall’Orfismo, per molti aspetti rivoluzionaria, la quale è stata giustamente considerata come elemento di un nuovo schema di civiltà. Si incomincia infatti a parlare della presenza nell’uomo di qualcosa di immateriale «divino» e non mortale, che proviene dagli Dei e alberga nel corpo stesso, di natura antitetica a quella del corpo, di modo che l’uomo è veramente se stesso quando il corpo dorme o addirittura si appresta a morire, e, pertanto, quando allenta i vincoli con esso e lo lascia in libertà. Il nuovo schema di credenza consiste dunque in una concezione dualistica dell’uomo, che contrappone l’anima immortale al corpo mortale e considera la primacome il vero uomo, o, meglio, come ciò che nell’uomo veramente conta e vale. Questa concezione, come è stato notato, inserì nella civiltà europea un’interpretazione nuova dell’esistenza umana. Il concetto della divinità dell’anima risulta poi centrale nelle «laminette auree» trovate in alcunetombe, da cui si ricava che essa costituiva il fulcro della fede orfica. Ecco una laminetta aurea trovata a Turi:
“Vengo dai puri, pura regina di sotterra,
Eucle, Eubuleo e altri Dei immortali,
poiché mi vanto anch’io di essere della
vostra stirpe beata, ma mi sconfisse la Moira e gli altri Dei
immortali, e il fulmine, che sfavilla dagli astri.
Dal ciclo di affanni pesanti e pene volai via, e alla corona bramata
ascesi con rapidi piedi, m’immersi giù nel seno della signora regina
degli inferi, e alla corona bramata ascesi con rapidi piedi. «O felice
e beato, sarai Dio, anziché un mortale!».”
Tale nuovo schema di credenza – come dicevamo – era destinato a rivoluzionare l’antica concezione della vita e della morte, e lo si vedrà già con Pitagora, con Eraclito e con Empedocle. L’opinione più diffusa degli studiosi è che in Grecia siano stati gli Orfici a diffondere la credenza nella «metempsicosi», ossia la credenza nella rinascita e reincarnazione dell’anima in una serie di vite successive. Il corpo è inteso come «prigione dell’anima», il luogo dove essa sconta la pena di una antica colpa, e se la reincarnazione è come la continuazione di questa pena, allora è chiaro che l’anima deve liberarsi dal corpo e che proprio in ciò consiste il suo fine ultimo, il «premio» che le compete. In una laminetta si legge:
“Dio divenisti, da uomo; capretto nel latte cadesti.
Rallegrati, rallegrati, avanzando sulla destra e per i prati sacri e i
boschi di Persefone”.
«Da uomo diventerai Dio», perché dal Divino derivi: ecco la più sconvolgente novità del nuovo schema di credenza, accogliendo la quale la vita e la morte erano destinate a cambiare il loro più antico significato”. La scoperta di essere un espressione immateriale di essere macchina puramente virtuale che si poggia su una macchina fisica il nostro corpo ha spinto i filosofi Greci ad indagare a fondo sulla psiche e a identificarla con la vita Per i greci la psiche è il principio che dà ai corpi la vita . Gli esseri animati differiscono dagli esseri inanimati perché posseggono un principio che dà loro la vita, e questo principio è proprio la psiche che deriva dal greco antico e significa “respiro”. Aristotele sostiene che la vita è una forma, ossia un principio organizzatore che conferisce agli esseri viventi le loro caratteristiche peculiari. La materia, invece, è il sostrato informe sul quale la forma si imprime. In questo senso, i corpi viventi sono come un sinolo, ossia un’unità di materia e forma. Nello specifico, Aristotele osserva che i corpi viventi hanno vita, ma non sono vita. Ciò significa che la vita è qualcosa di più del semplice corpo, che è solo la materia sulla quale la vita si imprime. La vita è un principio attivo che anima il corpo e gli conferisce la capacità di intelligenza vibrante capace di crescere, svilupparsi e riprodursi.
Pertanto, l’anima è la forma della vita. Essa è ciò che conferisce ai corpi viventi la loro capacità di vivere. L’anima è un principio immateriale, che non può essere ridotto alla materia. Essa è presente in tutti gli esseri viventi, dai più semplici ai più complessi. l’anima come qualcosa di intrinsecamente unito al corpo pur avendo una natura ideale; non si tratta però di una realtà a se stante e non conciliabile col corpo, ma si tratta della forma, dell’atto o dell’entelechia del corpo: è quel principio intelligibile che, strutturando il corpo, lo fa essere ciò che deve essere. Da questo punto di vista gli organi di questo corpo vivente rispecchiano un immagine un simbolo del mondo psichico. Il nostro spirito esiste, anche se esso non sa discernere la forma della propria esistenza per mancanza di un punto esterno di Archimede. La psiche esiste, è anzi l’esistenza stessa.
Noi spesso identifichiamo la psiche con Il nostro stato ordinario di coscienza della veglia ma quest’ultimo non è qualcosa di naturale o dato, ma una struttura altamente complessa specializzato per affrontare il nostro ambiente e le persone che lo abitano, uno strumento utile per fare alcune cose ma non molto utili, e perfino pericolose, per farne altre. E non l’unico stato di coscienza che sperimentiamo. Vi è il sogno, il sonno profondo, l’ipnosi e gli stati alterati di coscienza dovute a droghe. Mentre guardiamo da vicino la coscienza, vediamo che può essere analizzata in molte parti. Eppure queste parti funzionano insieme secondo uno schema: formano un sistema. Oggi si parla di «mente-sistema» anziché soltanto di «mente». Questo perché, anche se di solito parliamo della mente come se fosse un’entità singola, in realtà è formata da tanti processi distinti ma interconnessi. La mente sistema si basa postulati derivanti sull’esperienza umana. Il primo postulato è l’esistenza di una consapevolezza di base. Perché è possibile un certo controllo volontario del focus della consapevolezza, a cui generalmente ci riferiamo come attenzione/consapevolezza. Dobbiamo anche riconoscere l’esistenza dell’autocoscienza, la consapevolezza dell’essere consapevole.
Ulteriori postulati fondamentali riguardano le strutture, quelle strutture funzioni relativamente permanenti, sottosistemi della mente cervello che agiscono sulle informazioni per trasformarle in vari modi. Tale sistema complesso si compone di due porzioni principali, la mente conscia e la mente inconscia. La mente conscia è la parte della nostra psiche che sperimentiamo direttamente, e la possiamo paragonare la a uno schermo. Su questo schermo vengono proiettati i contenuti dei della mente inconscia. Inconscio è un termine che in occidente è utilizzato per designare i contenuti psichici non ancora sottoposti a elaborazione cosciente e che per conseguenza rappresentano un dato psichico ancora immediato. Per noi occidentali questi menti sono inconsce perché non esiste un Io, non c’è nessuno che possa essere consapevole cli qualche cosa; Per l’occidentale l’io è indispensabile nel processo di presa di coscienza .Vi deve essere un testimone pertanto questa parte inconscia risulta qualcosa di oscuro .La tradizione tibetana in genere definisce la mente ciò che è capace di conoscere e assegna. La scuola dei Sutra (Cittamatra) classifica il tipo di mente in percettori ‘diretti’ e ‘non diretti’. La percezione diretta, definita non concettuale, può essere a sua volta divisa in quattro categorie: attraverso i sensi, mentale, autoconoscente e yogica. cioè ogni coscienza ha la sua ‘autoconoscenza’, ovvero la qualità che la rende consapevole di se stessa. Ad esempio, la momentanea e specifica coscienza visiva di una mela possiede la propria ‘autoconoscenza’, cioè la qualità che ha la consapevolezza che percepisce la mela di essere anche conscia di se stessa. Questa definizione permette una descrizione più precisa dei processi inconsci
La porzione inconscia la possiamo della mente-sistema si suddivide in tre sotto-parti principali: la mente sensoriale e la mente discriminante e la mente sostrato. La mente sostrato resti psichici di azioni compiute con attaccamento o avversione. Sono oscuramenti della coscienza, immagazzinati nella coscienza di base dell’individuo, kunzhinamshe. Nonostante se ne parli come di un contenitore, il kunzhinamshe di fatto equivale all’oscuramento della coscienza: quando questo non esiste, non c’è kunzhinamshe. Non è una cosa o un luogo, è la dinamica sottostante l’organizzazione dell’esperienza dualistica. È insostanziale, come una collezione di abitudini, e potente, come le abitudini stesse, che permettono al linguaggio di avere un senso, alle forme di risolversi in oggetti e all’esistenza di apparire come qualcosa di significativo, che è possibile percorrere e comprendere. La metafora comune per il kunzhinamshe è quella di un magazzino o di un deposito, che non può essere distrutto. Possiamo pensare al kunzhinamshe come a qualcosa che raccoglie modelli o schemi. È una grammatica dell’esperienza che risente, in misura maggiore o minore, dell’influsso di ogni azione che compiamo, esternamente o internamente, fisicamente o mentalmente. Finché nella mente dell’individuo esistono le tendenze abituali, esiste il kunzhinamshe. Quando si muore e il corpo si deteriora, il kunzhinamshe continua a esistere. Le tracce karmiche continuano nella coscienza mentale, finché non vengono purificate. Quando sono completamente purificate, non c’è più kunzhinamshe e l’individuo è un buddha..Spesso è equiparato all’”inconscio collettivo”.
Scrive infatti Jung:
“Un certo strato per così dire superficiale dell’inconscio è senza dubbio personale: noi lo chiamiamo “inconscio personale”. Esso poggia però sopra uno strato più profondo che non deriva da esperienze e acquisizioni personali, ma è innato. Questo strato più profondo è il cosiddetto “inconscio collettivo”. Ho scelto l’ espressione “collettivo” perché questo inconscio non è di natura individuale, ma universale e cioè, al contrario della psiche personale, ha contenuti e comportamenti che (cum grano salis) sono gli stessi dappertutto e per tutti gli individui. In altre parole, è identico inutti gli uomini e costituisce un sostrato psichico comune, di natura soprapersonale, presente in ciascuno. L’esistenza psichica si riconosce soltanto dalla presenza di “contenuti capaci di divenire coscienti”; possiamo perciò parlare di un inconscio solo in quanto siamo in grado di indicarne i contenuti. I contenuti dell’inconscio personale sono principalmente i cosiddetti “complessi a tonalità affettiva”, che costituiscono l’intimità personale della vita psichica. I contenuti dell’inconscio collettivo sono invece i cosiddetti “archetipi” arcaici o meglio ancora primigeni, cioè immagini universali presenti fin da tempi remoti. L’espressione représentations co11ectives, che Lévy Bruhl usa per designare le figure simboliche delle primitive visioni ,del mondo, si potrebbe usare senza difficoltà anche per i contenuti inconsci”.
Sostituendo ad archetipi tracce karmike mi sembra che kunzhinamshe e inconscio collettivo indichino lo stesso ente .Ritornando alla nostra analisi. La mente sensoriale elabora le informazioni provenienti dai cinque sensi fisici. Produce momenti di vista, udito, olfatto, e via dicendo. Per contro, la mente discriminante, la cui porzione più importante è detta mente pensante/emotiva produce momenti di coscienza relativi a oggetti mentali, come pensieri ed emozioni. È la parte di mente dove hanno luogo il ragionamento e l’analisi. I contenuti della mente conscia sono sempre e soltanto «costruzioni» mentali, ideazioni che scaturiscono dall’elaborazione delle informazioni delle sotto-menti inconsce. Le sensazioni piacevoli, spiacevoli o neutre che accompagnano i pensieri, le emozioni e le percezioni sono anch’esse prodotto di queste menti. Il «Sé» e il «Mondo» dell’esperienza conscia consistono interamente in costruzioni mentali prodotte dalla mente-sistema quando elabora le informazioni. La nostra percezione intuitiva di queste costruzioni mentali come entità reali ed esistenti è il risultato della mente discriminante che fraintende l’esito della mente narrativa. Anche emozioni come il desiderio e l’avversione sono delle costruzioni mentali. Il loro scopo specifico è motivare certi comportamenti egocentrici. Queste emozioni, e le intenzioni, scaturiscono dal modo in cui la mente-sistema nel suo complesso interpreta le costruzioni della mente narrativa.la mente narrativa semplicemente combina gli eventi consci distinti provenienti dalle diverse sotto-menti, strutturandoli in una storia che riproietta nella coscienza. Ma la nostra autoconsapevolezza –quella sensazione continua e intuitiva di essere un «sé» separato rispetto al mondo degli oggetti — scaturisce dal modo in cui la mente discriminante interpreta queste storie. Il fondamentale e permanente senso di un «sé» come attore separato e distinto che compie azioni e sperimenta eventi non è altro che un’utile ma immaginaria costruzione della mente narrativa, oggettivata dalla mente discriminante. In altri termini, «l’omino nella macchina», l’anima che osserva il mondo attraverso la finestra dei suoi occhi, e la persona che siede tra il pubblico del «teatro» della mente sono soltanto illusioni. La mente discriminante espande ulteriormente quell’«Io» narrativo e nebuloso fino a solidificarlo in una più evidente e concreta idea di u nego-Sé caratterizzato da tratti specifici. La mente discriminante imputa un’esistenza indipendente a questo Sé, immaginando che sia un’entità singola, permanente e separata.
La coscienza di cui siamo coscienti pertanto consiste in qualsiasi cosa stiamo sperimentando in questo momento. È molto simile a un’apparizione: così come gli oggetti del nostro campo visivo cambiano da un momento all’altro, anche quelli nel campo della consapevolezza conscia, ovvero ciò che vediamo, ascoltiamo, annusiamo e gli altri fenomeni esteriori, sorgono e cessano. Ovviamente questo campo non è limitato a ciò che percepiamo con i sensi esteriori. Include anche oggetti mentali interiori, che prendono la forma di pensieri, emozioni e ricordi transitori. L’esperienza conscia assume due forme diverse: l’attenzione e la consapevolezza periferica. Ogni volta che concentriamo la nostra attenzione su qualcosa, questo domina la nostra esperienza conscia. Al contempo possiamo anche essere più generalmente consapevoli dei vari oggetti sullo sfondo. Per esempio, adesso la vostra attenzione è concentrata su quello che state leggendo. Nel frattempo siete anche consapevoli delle altre cose che vedete, ascoltate, annusate, e delle sensazioni periferiche. Il modo in cui l’attenzione e la consapevolezza periferica operano congiuntamente è molto simile al rapporto tra lo sguardo concentrato e la visione periferica. Provate a fissare un oggetto esteriore. Noterete che, mentre vi concentrate su quell’oggetto, la visione periferica raccoglie altre informazioni dal resto del campo visivo. Potete paragonarlo a ciò che sperimentate con l’attenzione e la consapevolezza periferica nel vostro quotidiano, quando prestate attenzione ad alcuni fenomeni mantenendovi perifericamente consapevoli di altri. Per esempio, potreste trovarvi ad ascoltare con attenzione quello che vi dice una persona. E nel frattempo siete perifericamente consapevoli del sapore del tè che state sorseggiando, dei rumori del traffico sullo sfondo e delle sensazioni piacevoli che scaturiscono dal fatto di sedere su una poltrona comoda. Così come, nell’ambito della vista, siamo pienamente consci dell’oggetto su cui concentriamo l’attenzione, ma ci manteniamo al contempo coscienti anche di tutto il resto che rientra nella consapevolezza periferica. Quando spostiamo la nostra attenzione, quello che si trovava al centro dell’attenzione si sposta nella periferia. Via via che l’attenzione passa da un oggetto all’altro – dalla conversazione alla tazza di tè – siamo sempre più pienamente consapevoli di ogni nuovo oggetto, pur restando perifericamente consapevoli degli altri. È importante comprendere che l’attenzione e la consapevolezza periferica sono due modi diversi di «conoscere» il mondo. Ognuno di essi ha le sue virtù e le sue manchevolezze. L’attenzione seleziona alcuni particolari del campo della consapevolezza conscia, isolandoli dal resto, in modo che possiamo analizzarli e interpretarli. Invece la consapevolezza periferica è più olistica, inclusiva e aperta, e fornisce il contesto complessivo dell’esperienza conscia. Ha più a che fare con le relazioni deivari oggetti tra loro e con il tutto. In questo l’articolo, il termine consapevolezza si riferisce sempre alla consapevolezza periferica, e mai all’attenzione. Questa distinzione è fondamentale, perché altrimenti si crea una considerevole confusione. Questo schema sistema-mente è molto utile per la meditazione nella meditazione lavoriamo con l’attenzione e la consapevolezza periferica per coltivare l’attenzione stabile e la mindfulness, i due obiettivi principali della pratica di meditazione.
L’attenzione stabile è la capacità di dirigere e mantenere il centro dell’attenzione, e di controllare la portata dell’attenzione. Dirigere intenzionalmente e mantenere l’attenzione significa imparare a scegliere di quale oggetto occuparsi e concentrare continuativamente l’attenzione su di esso. Controllare la portata dell’attenzione implica addestrare la mente a regolare l’ampiezza della concentrazione, così da essere più selettivi e intenzionali rispetto a ciò che dev’essere incluso o escluso. Per molte persone, la vita quotidiana è un insieme di distrazioni efrenetico multitasking. Un’attenzione concentrata, mantenuta e selettiva costituisce un modo molto più pacifico e coinvolgente di sperimentare il mondo. Si tratta anche dello strumento più utile per investigare la mente egiungere a una comprensione di noi stessi. Analizziamo quindi nel dettaglio come va coltivata l’attenzione stabile Per sviluppare un’attenzione stabile e diretta intenzionalmente sul suo oggetto, dobbiamo per prima cosa comprendere il suo opposto, ovvero i movimenti spontanei dell’attenzione. L’attenzione si sposta spontaneamente secondo tre diverse modalità:
- esplorando
- lasciandosi catturare
- alternando
L’esplorazione avviene quando la concentrazione passa da un oggetto all’altro, alla ricerca di qualcosa di interessante nel mondo esteriore o tra i contenuti della mente. L’attenzione si lascia catturare nel momento in cui un oggetto, come un pensiero, una sensazione fisica o uno stimolo esterno, attira improvvisamente il nostro interesse. Per esempio, il suono della sirena di un’ambulanza ci può distogliere dal libro che stiamo leggendo, oppure il dolore di un dito sbattuto contro qualcosa può sviare la nostra attenzione dai pensieri piacevoli che occupavano la nostra mente durante una passeggiata. Probabilmente avrete familiarità con questo genere di movimenti spontanei dell’attenzione, poiché si verificano di continuo Il terzo tipo di movimento spontaneo, l’attenzione alternata, è un genere di attenzione sottile di cui sono consapevoli soltanto i meditanti più esperti.
In realtà, lo sperimentiamo tutti, che meditiamo oppure no. La differenza è che chi non medita non percepisce l’alternanza. Al contrario, coltiva l’illusione di prestare attenzione a due o più cose simultaneamente. In realtà, ciò che accade è che l’attenzione si focalizza, spostandosi molto rapidamente tra una serie di oggetti, soffermandosi su ognuno di essi grossomodo per la stessa quantità di tempo. È questo il genere di attenzione che caratterizza il multitasking. Se durante una lezione scarabocchiamo mentre ascoltiamo l’insegnante, la concentrazione si sposta così rapidamente che sembra non esserci alcuna frattura. Abbiamo l’impressione che l’attenzione sia simultanea. Un altro modo in cui possiamo sperimentare l’alternarsi dell’attenzione è quando la nostra concentrazione sembra posarsi su un determinato oggetto, mentre altre cose emergono dalla consapevolezza periferica. Per esempio, potreste essere intenti a rispondere a un’email, ma anche sentire miagolare il gatto che reclama cibo e percepire una pressione alla vescica. L’attenzione sta rivolgendosi rapidamente a diversi oggetti, pur indulgendo soprattutto sull’oggetto principale, per esempio rispondere all’email. Fondamentalmente, qualsiasi cosa emerga sullo sfondo della consapevolezza periferica lo fa perché si trasforma in modo intermittente in un oggetto dell’attenzione. In tutti questi esempi sperimentiamo una continuità dell’attenzione, che invece sta passando rapidamente da un oggetto all’altro. A meno che il multitasking non sia intenzionale, l’alternarsi dell’attenzione è una sorta di movimento spontaneo dell’attenzione stessa. Ciò significa che è presente una certa quota di distrazione. Durante la meditazione, i movimenti intenzionali dell’attenzione si sostituiscono a tutti e tre i tipi di movimenti spontanei dell’attenzione. Tale processo si dispiega gradualmente e sistematicamente nei vari livelli. Passiamo quindi ad analizzare che cosa si intende per attenzione diretta intenzionalmente e sostenuta, e come controllare la portata dell’attenzione. Per attenzione diretta intenzionalmente s’intende proprio che abbiamo deciso consciamente a che cosa prestare attenzione. Quando siamo al lavoro dobbiamo spostare intenzionalmente la nostra attenzione da una cosa all’altra, per concludere il compito cui ci stiamo dedicando. Inoltre, se ci lasciamo distrarre e smarriamo la concentrazione, dobbiamo applicarci di nuovo intenzionalmente. Fin dall’inizio (livelli 2 e 3) ci esercitiamo e rafforziamo la nostra capacità di dirigere l’attenzione intenzionalmente. Ma questa è soltanto metà dell’opera. Dopo avere rivolto l’attenzione al respiro, spesso scopriamo che la mente vaga per conto suo. Per tale motivo, dobbiamo imparare anche a esercitare un’attenzione sostenuta. Ciò implica che dobbiamo arrestare tutti i movimenti spontanei dell’attenzione. Ora, mantenere l’attenzione è un po’ più complicato che dirigerla. Perché? Perché è possibile dirigere volontariamente l’attenzione. Invece, le porzioni di mente che mantengono l’attenzione per più di alcuni momenti operano in modo interamente inconscio. Non possiamo servirci della volontà per controllare quanto rimaniamo concentrati su una determinata cosa. Al contrario, c’è un processo inconscio che soppesa l’importanza di ciò su cui ci stiamo concentrando rispetto agli altri possibili oggetti dell’attenzione. Se un oggetto è importante o sufficientemente interessante, l’attenzione si mantiene stabile. Ma se qualcos’altro viene giudicato più importante o interessante, l’ago della bilancia si sposta e l’attenzione si dirige altrove. Per quanto tale genere di processo di ponderazione non sia sotto il nostro controllo conscio, possiamo comunque influenzarlo mantenendo consciamente un’intenzione. Decidendo di osservare un oggetto e di tornarci ogni volta che siamo distratti, addestriamo tale processo inconscio ad aiutarci a restare concentrati con maggiore continuità. È un po’ come imparare a giocare a freccette. Le complesse abilità motorie di cui abbiamo bisogno per lanciare una freccetta implicano anche l’addestramento a un processo inconscio, facendo ricorso all’intenzione e alla ripetizione, così come tornando a rivolgere ripetutamente l’attenzione al respiro ogni qualvolta vi perdete nella distrazione, comunicate al processo di valutazione inconscia che la concentrazione sul respiro è qualcosa di importante. Nel livello 2 cominciate a lanciare freccette mentali sull’obiettivo dell’attenzione sostenuta. Una volta giunti al livello 4, avete sviluppato una capacità costante di mantenere l’attenzione sull’oggetto di meditazione. Al livello 4 l’attenzione è continua e stabile, tuttavia il centro della concentrazione si alterna ancora rapidamente tra l’oggetto di meditazione e le distrazioni che sperimentiamo come oggetti che emergono dalla Mantenendo l’intenzione di colpire il bersaglio, nel lanciare le freccette addestriamo inconsciamente e involontariamente la coordinazione mano-occhi finché non riusciamo a colpire costantemente il bersaglio. Ogni informazione contenuta nell’ambito della coscienza è comunicata all’inconscio. Formulare l’intenzione conscia di concentrarsi sull’oggetto di meditazione rappresenta una nuova informazione di cui i processi inconsci devono necessariamente tener conto. Mantenendo tale intenzione consapevolezza periferica. Al fine di padroneggiare concretamente un’attenzione sostenuta e diretta, dobbiamo superare questa tendenza all’alternarsi dell’attenzione stessa. L’attenzione esclusiva a un oggetto, chiamata anche concentrazione univoca, è molto diversa dall’attenzione alternata. L’attenzione esclusiva non passa continuamente dalle distrazioni all’oggetto su cui intendiamo concentrarci. Dal livello 1 al livello 5 imparate gradualmente a migliorare la stabilità complessiva dell’attenzione, ma raggiungerete l’obiettivo dell’attenzione esclusiva soltanto al livello 6. Finora abbiamo semplicemente descritto come l’intenzione conscia influenzi i meccanismi inconsci che mantengono l’attenzione, ma questo non è che l’inizio. Nel corso dei vari livelli vi servirete dell’intenzione conscia per addestrare la mente inconscia in tanti modi. L’uso corretto dell’intenzione può trasformare le cattive abitudini, annullare le visioni scorrette e coltivare prospettive più sane. In breve, applicando abilmente l’intenzione conscia potete ristrutturare del tutto la mente e trasformare ciò che siete. Questa è la vera essenza della meditazione: riprogrammare i processi mentali inconsci, ripetendo continuamente con una chiara intenzione dei compiti elementari. Una volta che riuscirete a dirigere e sostenere l’attenzione, dovrete intervenire sul controllo della sua portata, ovvero quanto la volete allargata o ristretta. Molte attività della vita quotidiana richiedono di espandere o contrarre il tipo di attenzione prestata. Per esempio, se dobbiamo infilare un ago o sforzarci di ascoltare qualcuno che parla in una stanza rumorosa, dovremo concentrarci molto e prestare attenzione ai dettagli. Per contro, quando guardiamo una partita di calcio, la nostra attenzione può essere rivolta all’attaccante, ma non appena questi riceve il pallone, la portata dell’attenzione si espande, fino a includere tutto lo svolgimento dell’azione. Anche se è possibile esercitare un certo controllo, senza un preciso addestramento la portata dell’attenzione tende a cambiare automaticamente sulla base di influenze inconsce. Una portata estesa è molto simile a un’attenzione alternata, nel senso che può includere nel suo campo tutta una serie di oggetti. Inoltre, può trasformarsi in uno strumento utile nell’ambito del multitasking. Ciononostante, quando ci sforziamo di mantenere un’attenzione stabile, una portata che tenda spontaneamente a espandersi farà entrare ogni sorta di distrazioni. Quindi l’attenzione non sarà realmente stabile fino al momento in cui non avrete determinato intenzionalmente la portata della concentrazione, mantenendola salda .Questa è una capacità che si coltiva principalmente al livello 6, e cioè dopo che il centro dell’attenzione si è stabilizzato. Imparerete a controllare la portata dell’attenzione attraverso una serie di esercizi, nei quali bisogna passare deliberatamente da una portata più ristretta a una più ampia. Ai livelli 6 e 7 si pone una particolare enfasi sulla concentrazione esclusiva su un oggetto meditativo. Giunti al livello 8, padroneggerete il controllo della portata dell’attenzione e potrete ampliarla fino a includere l’intero campo della consapevolezza conscia in una «non-concentrazione» unica, aperta ed estesa. Di norma, mantenere una portata così ampia implica l’essere più estesamente consapevoli di molte cose nello stesso tempo. 10 Per fortuna, èa nche possibile incrementare il potenziale della coscienza, facendo in modo che ogni cosa resti assolutamente chiara. Questo ci porta al secondo obiettivo della meditazione: la consapevolezza. La Consapevolezza ci consente di riconoscere le nostre opzioni, di scegliere le risposte edi assumere il controllo della nostra vita. Inoltre, ci permette di diventare la persona che vorremmo essere. Ma soprattutto ci conduce all’insight, alla saggezza e al risveglio.
Ma che cos’è la Consapevolezza ? «Consapevolezza » indica l’essere attenti o il ricordarsi di prestare attenzione. La Consapevolezza meditativa è molto più di essere coscienti e vigili del normale. Di conseguenza, la nostra consapevolezza periferica è maggiore, e l’attenzione è impiegata con una precisione e un’obiettività senza precedenti. Una descrizione più accurata, ma che suona un po’ pesante, potrebbe essere «attenzione conscia potentemente efficace», oppure «piena consapevolezza conscia». Consapevolezza intendo specificamente l’interazione ottimale tra attenzione consapevolezza periferica, che richiede un incremento conscio del potere complessivo della mente. Proviamo a scendere più nel dettaglio. Per comprendere realmente la mindfulness dobbiamo prima capire come funzionano in genere l’attenzione e la consapevolezza periferica. Ognuna svolge un ruolo particolare, e ci fornisce un certo tipo d’informazione. Ma possono anche lavorare insieme, e per reagire con intelligenza all’ambiente circostante abbiamo bisogno di entrambe. Detto questo, vediamo come l’attenzione e la consapevolezza comuni possono trasformarsi in quell’interazione ottimale che definiamo Consapevolezza .L’attenzione svolge un lavoro molto specifico. Sceglie un oggetto nel campo generico della consapevolezza conscia, per poi analizzarlo e interpretarlo. È la facoltà che ci consente di discernere tra informazioni conflittuali (per esempio, quello che vediamo per terra è un pezzo di corda o un serpente). Nel momento in cui un oggetto dell’attenzione è stato identificato e analizzato, può venire ulteriormente esaminato, fatto oggetto di riflessione, giudicato e adeguatamente manipolato. Affinché tale processo accada rapidamente e con efficacia, l’attenzione trasforma tutti i suoi oggetti in concetti o idee astratte, a meno che, ovviamente, l’oggetto non sia già un concetto o un’idea. Di solito l’attenzione traduce la nostra esperienza grezza del mondo in termini che possiamo comprendere più facilmente, e che poi organizziamo in un quadro della realtà. Per contro, la consapevolezza periferica opera in modo assai diverso. Invece di scegliere un singolo oggetto da analizzare, implica una consapevolezza generale di qualsiasi cosa rientri nell’ambito dei nostri sensi. La consapevolezza periferica è solo in minima parte concettuale. È aperta e inclusiva, oltre che olistica. Ciò significa che si preoccupa delle relazioni degli oggetti tra loro e con il tutto. La consapevolezza periferica ci permette di reagire con maggiore efficacia, fornendoci le informazioni riguardo allo sfondo e al contesto della nostra esperienza: dove siamo, che cosa succede intorno a noi, che cosa stiamo facendo e perché (per esempio, ci consente di determinare che si tratta di un pezzo di corda e non di un serpente,)
L’attenzione analizza l’esperienza e la consapevolezza periferica fornisce il contesto. Quando l’una o l’altra non opera correttamente, o quando non c’è sufficiente interazione tra le due, rispondiamo alle situazioni con minore efficacia. Potremmo, per esempio, reagire in maniera eccessiva, prender e decisioni inadeguate o fraintendere quanto sta succedendo. Ogni sensazione, pensiero o emozione fa la sua prima comparsa nella consapevolezza periferica. A questo punto la mente decide se qualcosa è meritevole di diventare un oggetto dell’attenzione. La consapevolezza periferica filtra tutte le informazioni non pertinenti e «coglie» gli oggetti che meritano un esame più attento. Ecco perché alcuni oggetti sembrano emergere spontaneamente nel campo della consapevolezza periferica sino a diventare oggetti dell’attenzione. L’attenzione opera anche una veloce scansione degli oggetti nel contesto della consapevolezza periferica, alla ricerca di qualcosa di rilevante o importante, o semplicemente piacevole, da esaminare. È questo il processo di «esplorazione» che abbiamo descritto in precedenza. Inoltre, il modo in cui ci serviamo dell’attenzione «addestra» la consapevolezza periferica a selezionare determinati oggetti. Per esempio, se siete appassionati di uccelli, la vostra consapevolezza periferica impara a prendere nota di tutto ciò che vola ed è piumato. Mentre l’attenzione è attratta da qualcosa, la consapevolezza periferica vigila ed è alla ricerca di qualcosa di nuovo o inusuale. Quando la consapevolezza prende in considerazione un oggetto che potrebbe essere interessante, libera l’attenzione dal precedente a cui si stava dedicando e la dirige verso il nuovo oggetto. Immaginiamo che siate coinvolti in una conversazione mentre passeggiate, quando con la coda dell’occhio notate una forma che si sta avvicinando. La consapevolezza periferica allerta l’attenzione, che analizza rapidamente l’informazione. Per esempio: «Siamo su una pista ciclabile e un ciclista sta arrivando proprio verso di noi!». Così afferrate il vostro amico e vi spostate dalla corsia. La consapevolezza periferica ci aiuta a mantenerci vigili rispetto all’ambiente circostante, e a servirci dell’attenzione con la massima efficacia. Quando la consapevolezza periferica non fa il suo dovere, l’attenzione vaga alla cieca, senza guida, e può essere presa alla sprovvista. Per fortuna non tutte le esperienze hanno bisogno di essere analizzate, altrimenti la nostra attenzione sarebbe ben presto sopraffatta. La consapevolezza periferica si occupa di tante cose senza evocare l’attenzione, come scacciare una mosca dal viso mentre mangiamo. Ovviamente l’attenzione può anche essere coinvolta nel togliere di mezzo la mosca, così come in tante altre piccole cose, come per esempio scegliere il prossimo boccone dal piatto che ci sta davanti. Ma ci sono una quantità di compiti elementari che non richiedono attenzione. Usarla per tutto sarebbe impossibile. Inoltre, ci sono situazioni che avvengono troppo rapidamente perché possiamo occuparcene. Per esempio, l’attenzione non può fornire la rapida risposta di riflesso di una madre che blocca il figlio prima che corra in mezzo a una strada trafficata. Dato che la consapevolezza periferica non elabora l’informazione con la stessa cura dell’attenzione, può agire molto più in fretta. Se la consapevolezza periferica non fa il suo dovere, l’attenzione viene facilmente sopraffatta ed è troppo lenta per assumere il comando di queste funzioni. Di conseguenza, non reagiamo affatto agli eventi, oppure rispondiamo in maniera del tutto inconscia e automatica, alla cieca, inconsapevolmente e senza godere dei benefici dell’elaborazione conscia. Un altro modo in cui attenzione e consapevolezza operano congiuntamente consiste nell’aiutarci a percepire le cose con maggiore obiettività. Di base, l’attenzione implica in generale una forte preoccupazione per il «sé». Ciò è perfettamente logico, se consideriamo che buona parte del lavoro dell’attenzione consiste nel valutare l’importanza dei fenomeni in rapporto al nostro benessere personale. Ma ciò significa anche che l’oggetto dell’attenzione può essere facilmente distorto dal desiderio, dalla paura, dall’avversione e da altre emozioni. L’attenzione non si limita a interpretare gli oggetti sulla base dell’interesse personale, ma ci fa identificare con gli oggetti esteriori (questa è la «mia» auto) o con gli stati mentali («sono» arrabbiato, felice, eccetera). La consapevolezza periferica è meno «personale» e percepisce le cose più obiettivamente, «così come sono». Oggetti esterni, sensazioni e attività mentali appaiono nella consapevolezza periferica come parte di un quadro generale, e non siamo portati a identificarci con essi. Per esempio, possiamo essere perifericamente consapevoli che sta emergendo un fastidio. Ciò è ben diverso dal formulare il pensiero: «Sono infastidito». Una forte consapevolezza periferica contribuisce a smorzare la tendenza egocentrica dell’attenzione, rendendo la percezione più obiettiva. Ma quando la consapevolezza periferica si affievolisce, il modo in cui percepiamo i fenomeni diventa egocentrico e distorto. Infine, l’attenzione e la consapevolezza periferica possono essere estrospettive o introspettive. Estrospettiva significa che l’attenzione o la consapevolezza è rivolta verso oggetti che provengono dall’esterno della nostra mente, come quelli relativi a vista, olfatto o sensazioni fisiche. Introspettiva è quando gli oggetti della coscienza sono interiori, come i pensieri, le sensazioni, gli stati d’animo e le attività della mente. Mentre l’attenzione e la consapevolezza possono essere estrospettive o introspettive, soltanto la consapevolezza periferica può osservare lo stato mentale generale (per esempio, felice, pacifico o agitato) e anche le attivitàdella mente (per esempio, se l’attenzione si sta spostando oppure no, e se è occupata da qualche pensiero, ricordo o suono). La condizione in cui lamente «si fa da parte», per osservare il proprio stato e le proprie attività, è definita consapevolezza introspettiva. L’attenzione, d’altrocanto, non può osservare le attività della mente, perché i movimenti el’astrarre informazioni dalla consapevolezza sono attività della mente. In altri termini, non possiamo prestare attenzione all’attenzione. Per esempio, quando l’attenzione è concentrata sul ricordo, non possiamo servirci dell’attenzione stessa per riconoscere che stiamo ricordando. Tuttavia possiamo essere consapevoli del fatto che stiamo ricordando. Inoltre, poiché l’attenzione opera isolando gli oggetti, non può osservare gli stati complessivi della mente. Se rivolgiamo l’attenzione introspettivamente, questa si limita a scattare un’«istantanea» della consapevolezza periferica degli stati mentali un attimo prima che li osserviamo. Immaginiamo che qualcuno ci chieda: «Come ti senti?». Quando analizziamo il nostro stato interiore, l’attenzione cerca di trasformare la consapevolezza degli stati mentali complessivi in uno specifico pensiero concettuale.
Ora che abbiamo visto quanto diverse, benché interdipendenti, siano l’attenzione e la consapevolezza periferica, risulta evidente l’importanza di poter disporre di entrambe. In quasi ogni momento di veglia noi stiamo reagendo a qualcosa, che provenga dall’ambiente circostante o dall’interno della nostra mente. Queste reazioni non comprendono soltanto le nostre parole e azioni, ma anche i pensieri e le emozioni che abbiamo. Sebbene non sembri, ci sono sempre più modi in cui possiamo reagire, il che significa che è in corso un continuo processo decisionale. La qualità di queste decisioni istantanee dipende dalla qualità delle informazioni rese disponibili sia dall’attenzione sia dalla consapevolezza periferica .Tutto quello che pensiamo, sentiamo, diciamo e facciamo da un momento all’altro, nonché ciò che siamo e come ci comportiamo, alla fine dipende dall’interazione tra l’attenzione e la consapevolezza. La mindfulness rappresenta l’interazione ottimale tra queste due funzioni, quindi coltivare la Consapevolezza Meditativa può trasformare il nostro modo di pensare, sentire, parlare e agire, e cambiare le cose in meglio. Può letteralmente trasformare chi siamo.
Luca Violini