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La Potenza del Nulla: Evola ed il Buddhismo – Umberto Bianchi
Uno dei testi più enigmatici ed affascinanti di Julius Evola, “La Dottrina del Risveglio”, si pone già nella scia della fase “guenoniana”, se così si può definire, del grande pensatore, risultando per tale motivo, ancor più affascinante, in quanto in grado di offrire suggestioni che, da un pensatore troppe volte concepito quale fautore di un rigido ed unilineare tradizionalismo, proprio non ci si aspetterebbe. Nel voler delineare le varie vie che portano alla realizzazione ed al perfezionamento del sé, da quella propriamente ermetico-alchemica, a quella cavalleresca del Sacro Graal, passando per quella estremo orientale del Tao, sino a quella tantrica della “mano sinistra”, Evola colloca anche il Buddhismo. Di quest’ultimo, il Barone prende in considerazione il Theravada che, rispetto al Mahayana ed allo Hinayana, a detta dei più, ne rappresenta la versione più “autentica” scevra da qualsiasi forma di devozionalismo teista e più propriamente incentrata sul percorso di realizzazione ed elevazione dell’individuo, rifacentesi, tra l’altro, a quelle che del Buddhismo, sarebbero le scritture più originali, appunto rappresentate dal Canone Pali, (scritto nell’omonima lingua e non in sanscrito…). Ma vediamo di procedere per ordine.
Il contesto che qui Evola va a trattare, è quello dell’ “Arya Dharma” o “Pensiero/Visione del mondo ariana” (così come, ad oggi, sono soliti definire gli studiosi di ambito Hindu, sic!) che nel proprio ambito include Induismo, Buddhismo, Jainismo e lo stesso Sikkhismo. Comune a queste narrazioni, è la considerazione sulla primaria necessità di evadere dalla illusoria gabbia dei sensi, rappresentata dalla nostra corporeità e dal mondo esterno (Maya), che altro non fa che immetterci in una infinita spirale di peccaminoso attaccamento a tale dimensione ed al conseguente pagamento di un prezzo esistenziale, costituito dal continuo rinascere e permanere legati tale dimensione. Primario, pertanto, per ciascun individuo, dovrebbe essere il raggiungimento di una dimensione di totale pace ( l’ellenica “ataraxìa”…), attraverso sia il “moksa” hindu, tramite il ricongiungimento dell’individuo con il “Brahman”, inteso come suprema divinità impersonale, nel suo aspetto di sostanza infinita, sia attraverso il buddhista “nirvana”, equivalente al precedente principio, ma dotato di una più decisa tendenza all’autoannullamento del “Sé”.
Inoltre, mentre l’Induismo riserva il “moksa” agli appartenti alle caste Varna più elevate dei Bramini (i sacerdoti ed i sapienti) e degli Ksatryja (i guerrieri), il Buddhismo si fa latore di una vera e propria rivoluzione, aprendo tale possibilità a coloro che, a prescindere dalla casta di appartenenza, dimostrino una intrinseca capacità e buona volontà nel perseguire questa via realizzativa. Evola parte proprio da questo contesto, per operare dei decisi “distinguo”. A suo dire, il Buddhismo, almeno nelle sue origini e così come manifestato nella sua versione Theravada, era una dottrina realizzativa di carattere fortemente elitario ed aristocratico, aperta solamente a coloro che si facessero portatori di uno stato d’animo “guerriero”, in grado di affrontare con spirito marziale la disciplina dell’auto controllo e del distacco dalle pulsioni del proprio “Io”. A conferma di tale considerazione, gli aristocratici natali di Gautama/ Buddha che, in più e più frasi e citazioni, da Evola riportate e tratte da vari testi, parla di tale stato d’animo. Questo, poiché, al pari di quanto avvenuto in ambito iranico con la riforma zoroastriana, quella hindu era divenuta una religiosità formale, incentrata su un sempre più vuoto e sterile ritualismo, (così come si evince dai “Brahmana”, quella serie di testi di ritualistica, apparsi quasi contemporaneamente alle Upanishad, queste ultime maggiormente dotate di un carattere di speculazione filosofica, sic!).
Un quadro questo, che ci riporta a quel più generale e complesso quadro epocale della storia del pensiero, che noi possiamo definire quale “Età Assiale dell’umanità” che, frutto della graduale perdita di contatto dell’individuo con la dimensione mitica e trascendente in generale, apre la strada ad una fase di progressiva “interiorizzazione” del pensiero. Qui i messaggi vengono veicolati dalla persona di un “illuminato” nel ruolo di maestro, profeta, filosofo o quant’altro, posto a far da interprete, tra le sideree dimensioni del pensiero metafisico e filosofico e l’umanità. E difatti, dall’VIII secolo AC in poi, abbiamo le figure di Buddha, del Jainista Mahavira, l’idea di Brahman delle Upanishad, ma anche Zoroastro in Iran, Lu Tzu con il Tao in Cina, Epimenide, Ferecide, Onomacrito e Pitagora in Grecia con il sapere filosofico e così via.
Un quadro nel quale, Evola intende il Buddhismo quale risposta ascetica, quale via di iniziazione “intellettuale”, alchemicamente parlando, “secca”, rispetto a quella “umida” rappresentata dalla via tantrica, dell’Induismo. Una via che, inizialmente destinata a pochi e particolari individui, va scadendo nel teistico devozionalismo di molte espressioni del Buddhismo Mahayana, sino ad arrivare alla figura carica di devozionalismo pietistico di Buddha-Amida. Nella sua interpretazione aristocratica, Evola non risparmia nulla e nessuno: neanche la dottrina della reincarnazione, da lui considerata una vera e propria deriva plebea, un lascito delle culture dravidiche precedenti all’arrivo degli Arya , da non confondersi con ciò che invece il Buddhismo enuncia, quando parla di molteplicità di stati dell’esistenza, ovverosia della possibilità di passare indefinitamente da uno stato di esistenza all’altro, sinchè permane la brama, ovverosia l’attaccamento alle cose del mondo. Cosa, a suo dire, ben diversa dal rinascere in una persona altra. Stessa sorte tocca alle figure dei “Bodhisattva”, ovverosia di coloro che, sopraggiunti ad uno stato di illuminazione, sono soggetti a devozionalistica adorazione.
Evola, invece, prende spunto dall’essenza della dottrina buddhista, imperniata sulla considerazione della generale “dukkha” o sofferenza che affligge l’umanità, per arrivare a quella della “anicca-anatta” o impermanenza dell’animo umano e della circostante realtà, che necessita di una via ascetica ed iniziatica in grado di spazzar via dalla mente dell’iniziato, quell’illusorio Velo di Maya che ottunde la visione della vera realtà. A questo proposito, tutte quelle rinunce che la dottrina buddhista prescrive, sono da Evola intese, quale virile forma di accettazione, finalizzate all’ elevazione del miste, attraverso una disciplina di progressiva spersonalizzazione di quest’ultimo. Attraverso i quattro “jhana”, o “contemplazioni irradianti”, si perviene ad un graduale distacco dall’ “Io” e dalle sue passioni, sino a giungere a quello stato di “Arupa Loka” che Evola ci descrive quale “piano dell’essenza/pura possibilità non vincolata ad una manifestazione formale”.
Un piano quest’ultimo, che comporta il distacco dalla stessa idea di “esistenza”, ritenuta quale ultimo limite da superare, per arrivare a quella realizzazione del “Sè” che vede nel “nirvana”, una perfetta compenetrazione con l’Essere Assoluto, un’auto-elisione che fa del miste un vero risvegliato. Nel ribadirci che quello di “nirvana” non è uno stato di passiva auto annichilazione, bensì una modalità di estremo autopotenziamento del Sè, tramite la rinuncia alla stessa esistenza, sottolineandoci a più riprese che, gli stessi gradi dell’ascesi buddhista vadano intesi in una prospettiva di attivo esistenzialismo, Evola ci dà la netta impressione di compiere un’impresa sul filo del rasoio. Questo perché, in base a quelle che sono le possibilità offerteci dall’ermeneutica, una qualsivoglia dottrina o forma di pensiero, può conoscere più e più interpretazioni e quella di Evola sul Buddhismo, è molto particolare, poiché mette in risalto gli aspetti più attivi e guerrieri di questa dottrina, a discapito di quello stesso iato di universalistica e totale apertura verso tutte le creature viventi, animato da un profondo senso di compassione che, nell’ottica di un Nietzsche (tanto per citare un esempio tra i più altisonanti…), avvicina non poco il Buddhismo alla narrazione del Nuovo Testamento.
Una posizione questa, ribadita dallo stesso Renè Guenon, che si spinge addirittura a capovolgere le affermazioni di Evola, (ma anche quelle di innumerevoli altri studiosi, sic!) riguardanti l’originarietà del Buddhismo Theravada rispetto al Mahayana, quest’ultimo inteso invece, dallo scrittore francese, quale più autentica ed originaria espressione della dottrina buddhista. Quella di Evola non è un’interpretazione sbagliata o scorretta; essa è invece frutto del particolare profilo spirituale di quest’ultimo, costituito da una particolare sintesi tra niccianesimo e idealismo, coniugati alla metafisica, con tutte le conseguenze del caso. E questo, non fa che rendere ancor più evidenti, le distanze tra lo stesso Evola e Guenon, a dispetto di tutti coloro che, sin troppo semplicisticamente, collocano i due autori su uno stesso piano.
Se da una parte Evola si fa fautore della supremazia dello Kshatrya, nel ruolo di monarca-guerriero iniziato sulla casta sacerdotale, in nome nel nome di un metafisico vitalismo, affermando che, originariamente fra le due caste non vi era differenza alcuna, dall’altra Guenon fa della Tradizione un monolito, i cui interpreti vengono cristallizzati in inamovibili ruoli, quale quello della casta sacerdotale, sul cui assoluto primato il Guenon insiste, tant’è che il Nostro aderirà successivamente all’Islam dei Sufi. Di fronte all’inamovibilità categoriale di Guenon, Evola, pur conscio della natura di un sistema di pensiero quale quello indo-buddhista che, di suo tende all’auto annullamento dell’individuo, preferisce correre sul filo del rasoio, e protendersi verso quel Nulla, che a suo dire, può farsi veicolo della numinosa palingenesi del miste, di contro ad una vulgata che invece ne vede la realizzazione nel suo completo annichilamento ed immedesimazione nella stessa sostanza divina.
La narrazione evoliana ci pone così, di fronte ad un bivio ontologico, rispetto al quale non vi è risposta se non quella determinata dalla condizione spirituale ed esistenziale del singolo, e che ci riporta un po’ a quello che è l’eterno rincorrersi tra due tendenze opposte ma complementari: tra ricerca iniziatica ed accettazione mistica, tra esoterismo ed exoterismo, tra sentire collettivo e sentire individuale, tra differenza ed omologazione e via dicendo, in un paradossale rincorrersi e ricongiungersi di opposti che, della vicenda dell’umana civiltà su questa terra, costituiscono il vero “Samsara”.
Bibliografia di riferimento:
- J. Evola – La Dottrina del Risveglio – Edizioni Mediterranee, Roma;
- J. Evola – La Tradizione Ermetica – Edizioni Mediterranee, Roma;
- K. Jaspers – Origine e Senso della Storia – Mimesis Editore, Milano;
- R. Guenon – Introduzione Generale allo Studio delle Dottrine Indù – Edizioni Adelphi, Milano.
Umberto Bianchi