«La natura ha dipinto se stessa»: Nishida Kitarō e le radici metafisiche dell’arte – 5^ e ultima parte – Piervittorio Formichetti
(prosegue…)
La distanza che separa fisicamente gli individui è dunque intesa da Nishida come condizione necessaria alla relazione, e tale concezione ha un parallelo ancora nella tradizione cinese rappresentata dall’I Ching, dove troviamo l’esagramma n. 38, K’uei, ossia «Contrapposizione», che non è solo la distanza e, se si vuole, l’iniziale diffidenza reciproca, ma implica anche i concetti di differenza e complementarità; inoltre, nella concezione taoistica alla base del Libro dei Mutamenti, che vede la realtà nel suo aspetto di ciclo di trasmutazioni fenomeniche, la contrapposizione così intesa è premessa necessaria ed anticipazione dell’accordo e dell’unione (in questo senso il traduttore Richard Wilhelm pensava giustamente alla coppia maschio-femmina come alla forma più rappresentativa di questa contrapposizione di diversità destinate a incontrarsi e a unirsi): «La contrapposizione appare in generale come impedimento, ma con la sua polarità nell’ambito di un tutto che la contiene, ha anche funzioni buone e importanti. Le contrapposizioni tra cielo e terra, spirito e natura, uomo e donna producono, quando si riequilibrano, la creazione e la propagazione della vita. […] Ma Confucio va ancora più oltre. Egli mostra come la contrapposizione sia addirittura la premessa naturale per l’unione. A causa delle contrapposizioni nasce il bisogno di conciliarle, e ciò vale per cielo e terra come per uomo e donna. Le diverse peculiarità di tutte le cose sono ciò che permette di distinguerle chiaramente e perciò di disporle in ordine,cioè di classificarle. Questo è l’effetto della contrapposizione, una fase che va superata» [73].
Il concetto di distanza qui espresso può essere confrontato anche con quello implicito nel pensiero di Friedrich W. Nietzsche, il «pathos della distanza», che implica la categoria, e l’esperienza, della relazione: «La relazione con l’altro è un dato costituente l’essere umano e costituito dall’essere umano: amicizia o inimicizia, dominio o sottomissione, e altre coppie di opposti, e la stessa solitudine, sono legati alla relazione perché si basano sull’esistenza altrui. […] L’amore, la pietà, il risentimento sono sentimenti che dipendono dalla relazione con l’altro. […] Il pathos della distanza per Nietzsche è una dinamica che si ripropone sempre nelle epoche della storia umana, è sia presupposto sia conseguenza delle dinamiche sociali […] Evolvendosi con la storia umana, il pathos della distanza è mobile, variante, non ‘dice’ sempre la stessa cosa riguardo alle relazioni umane; quasi sfugge alla definibilità. […] L’esempio più palese del legame tra pathos e distanza è la nostalgia, che per Heidegger era una delle condizioni che rendevano possibile il filosofare. […] La distanza, in quanto separazione, è una ‘fatale’ – cioè necessaria – disposizione della natura al confronto, all’attrazione, al riconoscimento reciproco. Secondo Nietzsche è anche verso noi stessi che siamo distanti, e questo ci permette di indagare sulla nostra stessa anima. […] Il pathos della distanza e la solitudine accomunano l’aristocratico e il santo, proteggendoli dalla “morale del gregge”, dall’“ipocrita egualitarismo”, dal conformismo. […] Principio di individuazione e pathos della distanza sono due cose molto più vicine di quanto si sia pensato. Il pathos della distanza potrebbe essere definito una ‘nota’ che si manifesta presente in ogni affetto – amore, amicizia, etc. – senza che sia esso stesso un affetto» [74].
Su questo stesso tema – la relazione e la distanza – Marcello Ghilardi, nel suo saggio su Nishida Kitarō, scrive quindi: «Ogni realtà posta in relazione deve infatti negarsi, ‘fare posto’ per lasciar essere la relazione e farne trasparire il carattere simbolico; se così non fosse, non ci sarebbe mai uno spazio vuoto, un luogo atto a contenere l’incessante movimento della relazione. Se fosse tutto pieno, non ci sarebbe relazione alcuna, solo oggetti inerti e sconnessi. […] Ogni processo di determinazione […] non potrebbe avere luogo nell’immobilità o nella saturazione degli spazi di movimento e di rapporto possibili» [75]. Questa riflessione risulta applicabile alla situazione psicologica e sociale di gran parte della società occidentale al punto da sembrare quasi una sua descrizione: non poche persone sono caratterizzate da un soggettivismo esasperato, un egocentrismo abituale e un narcisismo che le rendono effettivamente «sature» di se stesse, dei propri desideri indotti, dei propri risentimenti, delle proprie ambizioni, perciò mancanti di «spazio» per la comprensione dell’altro, e quindi «sconnessi» nei confronti di molte persone, nonostante molta apparenza di «vita sociale» e il frequente parlare di «empatia» sembrino indicare il contrario, dando così luogo a una paradossale situazione di solitudine di massa.
L’inevitabile sensazione di distanza che l’individuo avverte dentro di sé in quanto tale – continua Ghilardi – «è ineliminabile, e deve esserlo, ma essendo spesso disconosciuta si finisce poi per volerne azzerare la dimensione vitale in vista di un presunto avvicinamento all’oggetto desiderato. Al contrario, se la si vuole mantenere, ma non se ne riconosce il carattere dialettico, si trasforma in mera scissione estrinseca e annichilisce i termini della relazione». Probabilmente in nessuna esperienza umana ciò si manifesta con più evidenza che nell’eros e nell’amore, nei quali l’estetica (nel senso non soltanto visivo o cosmetico del termine) è fondamentale, e la cui forza si percepisce proprio perché la persona amata non è istantaneamente avvicinabile o accessibile: si affaccia quindi alla riflessione, e alla memoria, l’esperienza fondamentale dell’attesa, intimamente intrecciata a quella della distanza (si potrebbe dire che la distanza misuri lo spazio e l’attesa il tempo) e anch’essa sempre accompagnata dal pathos: essa è infatti attesa di qualcuno o qualcosa che già si conosce e si desidera, ma che nel momento in cui la si attende non è presente – l’attesa degli innamorati, appunto, o dei religiosi contemplativi e dei mistici, “innamorati” del Divino (come nel caso della poesia di Clemente Rebora Dall’immagine tesa) – oppure è attesa di una sorpresa apportatrice di significato o di felicità, di un “miracolo” in senso lato, che possa consolarci o rivelarci qualcosa di fondamentale e affidabile, come nel brano centrale (per posizione e per importanza) della poesia di Eugenio Montale I limoni [76]:
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Torna così il tema del legame tra estetica, arte e religione che Ghilardi riscontra, affrontato in modo differente, sia in Nishida Kitarō sia in Nicola Cusano. Secondo il filosofo giapponese, la religione fornisce all’arte il migliore significato e il migliore destino: «L’esercizio dell’arte […] ha il senso di includere la prospettiva della conoscenza all’interno di quella della volontà. […] Ciò che completa fino in fondo questa prospettiva è la prospettiva religiosa. Arrivati ad essa, non c’è niente che non sia espressione del sé di tutte le cose (banbutsu jiko)» [77].
Riappare qui il rapporto di compenetrabilità tra realtà immanente e azione umana da una parte, e realtà trascendente e azione divina dall’altra, con la necessità di oltrepassare la prima dimensione per poter cogliere intellettivamente qualcosa della seconda, particolarmente importante nel caso delle opere d’arte, nei riguardi delle quali sovente ci si sofferma sulle caratteristiche stilistiche come se fossero i loro unici elementi significativi – mentre è vero il contrario: senza i presupposti invisibili, interni alla coscienza dell’artista (emozioni, sentimenti, intenzioni…), non potrebbe esservi lo stile, che ne è conseguenza, traccia visibile o udibile, l’insieme automatico o volontariamente organizzato delle espressioni di quelle realtà psicologiche (riprendendo gli esempi fatti precedentemente, potremmo citare le forme ondeggianti come fiamme o come immagini in dissolvenza caratteristiche dei dipinti di van Gogh e di Munch, che esprimono bene l’interiorità inquieta dei rispettivi autori) – : «Superato il livello della tecnica formale, e anche quello in cui ci si è liberati da ogni attaccamento alla forma, all’io psicologico, o all’idea stessa di liberazione da tutti i condizionamenti, si ritorna a vedere le cose nella loro semplicità. La componente soggettiva non si è perduta, ma è stata ricompresa in un contesto più ampio» [78].
Per un’ultima volta dobbiamo notare come il pensiero di Nishida, così riassunto da M. Ghilardi, si accosti in questo caso ancora a quello espresso dal Libro dei Mutamenti cinese. Nell’I Ching, infatti, una concezione molto simile del rapporto tra bellezza meramente esteriore ed “esteticismo” da un lato, e bellezza come semplicità, ossia sincerità nella relazione, comprensiva di empatia e rispetto, che non negano ma integrano la bellezza visibile, dall’altro, è presente nell’esagramma n. 22, Pi, in cinese «Avvenenza». L’interpretazione della quarta linea di questo segno esprime infatti l’idea che l’essere umano, dopo aver attraversato l’esperienza della bellezza esteriore, del piacere, della sofisticatezza estetica ed intellettuale, torna a sentire un’esigenza di sentimenti semplici, meno appariscenti ma più profondi e sinceri, simbolizzati dal colore bianco: «[il numero] sei al quarto posto significa: Avvenenza o semplicità? Un cavallo bianco viene come se volasse. Non è un brigante, vuole corteggiare a tempo debito. Ci si trova in una situazione nella quale sorge il dubbio se si debba continuare a cercare la leggiadria dello splendore esterno, o non sia meglio ritornare alla semplicità. In questo dubbio risiede già la risposta. Dall’esterno si avvicina una conferma. Si avvicina sotto forma di un bianco cavallo alato. Il bianco allude alla semplicità. E anche se in un primo momento la mancanza delle comodità che si sarebbero potute ottenere per altra via provocherà forse una delusione, si troverà conforto nella fedele unione con l’amico che garantisce il suo affetto. Il cavallo volante è l’immagine del pensiero che supera le barriere dello spazio e del tempo» [79].
Nella conclusione del saggio che chiude la raccolta Arte e morale, Nishida torna a esprimersi sul rapporto tra l’ego individuale e il sé connesso alla dimensione metafisica dalla quale esso sorge, applicando questo rapporto anche alla «perdita» del proprio «io» che avviene nella condizione dell’ispirazione artistica, secondo Nishida caratterizzata – come si è detto – dall’«intuizione agente». Dal punto di vista espresso nel brano che stiamo per citare al riguardo, forse si può trarre che per Nishida è il sé, l’atman dell’Induismo, a essere il recettore immediato (cioè non-mediato) dell’ispirazione artistica proveniente dall’«istinto oscuro» (ossia non circoscrivibile in modo razionalistico) che costituisce la matrice metafisica di tutti i fenomeni (ma tale concetto di istinto creatore andrebbe confrontato con quello – a sua volta fondamentale in Nishida stesso – di volontà creatrice da parte del medesimo fondamento metafisico del cosmo), mentre l’ego, l’io freudiano, caratterizzato dal procedimento razionalistico, si rivela quella parte di individualità che prende atto di un fenomeno (naturale o artistico), della qualità estetica che esprime (grazia, violenza…) e/o suscita (attrazione, paura, tenerezza…) e di quale realtà invisibile (psicologica o spirituale) tale qualità possa eventualmente essere indizio, soltanto in seguito all’impressione immediata del sé (con un linguaggio un po’ semplicistico si direbbe che la ragione conferma ciò che il “cuore” ha già sentito e compreso): «Che noi perdiamo noi stessi a livello oggettivo, non significa che perdiamo la nostra singolarità, non significa che viene meno il sé. Significa che […] per entrare nel mondo del “bello” e del “bene” dobbiamo attraversare la barriera del “vero”. Al suo fondo sta la vera realtà, eterna e imperitura. Il sé che noi vediamo al di qua della coscienza in generale non è altro che l’ombra, la traccia di un oscuro istinto» [80].
In questa prospettiva, l’arte è qualcosa di ben lontano dall’essere soltanto un fenomeno sociale soggetto a tutte le mutevoli condizioni del contesto storico-culturale in cui appare e del quale, in gran parte dei casi, è o sarebbe un’espressione multiforme: conferendo lo status di opera d’arte a qualsiasi oggetto, o combinazione di oggetti, che possano essere concepiti come tali in e da un determinato contesto, questa interpretazione del fenomeno artistico si rivela eccessivamente relativistica e in certi casi assurda (buona parte dell’arte novecentesca e contemporanea, come si sa, dal ready made di Marcel Duchamp in poi è alla base di questa questione). Nel pensiero di Nishida Kitarō, viceversa, si nota una tendenza all’eccesso opposto, cioè alla assimilazione totale e alla non-differenziazione, non tanto tra ciò che è arte e ciò che non può essere tale, bensì tra il fenomeno-arte in sé e quella che potremmo chiamare l’energia cosmica cosciente dalla quale scaturiscono tutti i fenomeni o eventi, nonché tra ognuno di questi e l’arte in sé. Ghilardi riassume: «L’arte, infatti, non è tanto oggetto di studio e di contemplazione erudita, né terreno di scontro per visioni del mondo o ricostruzioni genealogiche differenti. L’arte, nel suo farsi, è per Nishida la vita stessa nel suo offrirsi in quanto tale così com’è – ci si ricollega qui all’idea giapponese di natura, shizen, colorata dagli influssi del buddhismo zen; si tratta della processualità infinita che accade in virtù dell’esperienza del mondo, nel doppio significato del genitivo» [81], cioè l’esperienza attuata e vissuta dalla coscienza-volontà cosmica nel suo svolgersi (in questo senso si potrebbe parlare di un Deus patiens, Dio che com-patisce, che vive gli stessi pathos degli e negli esseri umani, tra cui le «doglie della creazione» di cui parla Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani, cap. 8), e insieme l’esperienza attuata e vissuta dall’essere umano che percepisce se stesso immerso in essa in quanto «sé», e allo stesso tempo distinto da essa in quanto «io».
Da questo punto di vista – nota in conclusione Ghilardi – si può effettuare un ultimo confronto tra il pensiero neoplatonico di Plotino e quello di Nishida Kitarō, confronto che in un certo senso riassume buona parte della filosofia di quest’ultimo: «Se per Plotino la liberazione piena avviene attraverso un’ascesa che libera dal corpo, per Nishida è nel qui e nell’ora, nella consapevolezza che lo spirito si dà con e attraverso il corpo, che si manifesta la pienezza autentica» [82].
Si potrebbe quindi chiudere tutto questo insieme di riflessioni dicendo che mentre per Plotino l’esperienza della verità fondamentale dell’Essere debba essere «emersiva», nel senso che l’anima o lo spirito dell’essere umano dovrebbe emergere al di sopra di tutti i fenomeni sensibili, compresa la stessa corporeità dell’individuo, al contrario per Nishida tale esperienza debba essere «immersiva», nel senso che lo spirito umano dovrebbe immergersi nella dimensione sensibile, senza rifiutarne a priori alcuna forma, avendo tuttavia il medesimo obiettivo dell’antico filosofo greco, ossia di cogliere la verità assoluta che sta “dietro” o “dentro” la molteplice verità relativa dei fenomeni. In ultima analisi, per entrambi i pensatori il mondo, il cosmo, dalle galassie alla goccia di rugiada, non esaurisce il proprio significato soltanto nella dimensione sensibile o materiale, così come l’arte, per Nishida, non esaurisce il proprio senso nel fatto di essere una libera espressione dell’artista-individuo, né nei contenuti ideologici che essa può veicolare, né nel fatto che si possano ammirare lo stile dell’opera (formalismo) o il genio dell’artista per un presunto concetto mediante il quale l’opera può o potrebbe essere interpretata (in tal modo, nella categoria dell’«arte concettuale» rientrerebbe tutto e il contrario di tutto, giacché su qualsiasi oggetto è “innestabile” un concetto, ad esempio una puntina colorata al centro di un piano di polistirolo potrebbe essere arte concettuale perché può evocare il concetto della solitudine!), né – infine – per il ruolo della tecnologia più o meno sofisticata nella realizzazione dell’opera o costitutiva dell’opera stessa.
In quest’ultimo caso, l’attuale categoria postmoderna di «esperienza immersiva» nell’opera d’arte, non raramente pubblicizzata da alcuni musei in occasione di una mostra di questo genere – nella quale lo sguardo dell’osservatore è apparentemente “immerso” nelle opere d’arte mediante determinati strumenti ottici o acustici che rendono apparentemente tridimensionale o sonoro l’ambiente rappresentato in un’opera (ad esempio i cieli stellati di van Gogh o le celebri ninfee di Monet) – personalmente ci sembra qualcosa di piuttosto discutibile in sé e comunque molto diverso, forse totalmente estraneo, al concetto di immersività implicitamente ricavabile dal pensiero di Nishida Kitarō, poiché si tratta di una combinazione di tecnologia, esperienza sensoriale ed esperienza estetico-artistica puramente sovrapposta a una o più opere d’arte che non erano affatto state concepite e concretizzate per essere fruite in questo modo. Sostanzialmente, si tratta soltanto di un’illusione basata sulla tecnologia che si serve delle opere d’arte preesistenti come di oggetti sui quali sperimentare le possibilità della tecnologia stessa: il che può essere legittimo e interessante, purché non si pretenda di affermare che il panorama apparentemente tridimensionale in cui l’osservatore è illusoriamente immerso, sia esso stesso l’opera d’arte, né che l’esperienza mediata del fruitore sia esperienza di quella opera d’arte di quell‘autore. Ma questo argomento, sul quale ci sarebbe moltissimo da riflettere e discutere, richiederebbe un intero studio a parte.
Note:
73 – I Ching. Il Libro dei Mutamenti, cit., pp. 186 e 571.
74 – Domenico Venturelli, Affetti morali: Nietzsche e il pathos della distanza, intervento al convegno Nietzsche e il pathos della distanza, a cura del Dipartimento di Filosofia – Seminario Permanente Nietzschiano dell’Università di Torino, 19-20 dicembre 2012 (sessione pubblica) (appunti di chi scrive leggibili su https://www.academia.edu/42160427/Nietzsche_e_il_pathos_della_distanza_sessione_pubblica).
75 – Ghilardi, op. cit., p. 224 (anche per la citazione successiva).
76 – La poesia di Rebora fa parte dei suoi Canti anonimi (1920); quella di Montale, della sua prima raccolta, Ossi di seppia (1925).
77 – Citato in Ghilardi, op. cit., p. 225.
78 – Ghilardi, op. cit., p. 225.
79 – I Ching. Il Libro dei Mutamenti, ed. cit., p. 136.
80 – Citato in Ghilardi, op. cit., p. 225.
81 – Ghilardi, op. cit., p. 225.
82 – Ibidem, ivi, p. 226.
(fine)
Piervittorio Formichetti