«La natura ha dipinto se stessa»: Nishida Kitarō e le radici metafisiche dell’arte – 3^ parte – Piervittorio Formichetti
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La kenosis del Divino trascendente, ossia il suo auto-condizionamento nei limiti dell’universo immanente, dà dunque luogo a una realtà definibile come di per sé “religiosa” o “simbolica”, poiché lega insieme (re-ligo), riunisce insieme (syn-ballein), ogni aspetto ed elemento del mondo. «Questo senso di profonda unità» fondamentale nello Shintoismo e quindi nel pensiero di Nishida Kitarō – scrive Marcello Ghilardi – «è centrale per cogliere non solo la visione ontologica di Nishida, ma anche il significato profondo che egli attribuisce all’esperienza della creazione artistica» [40], che non può non rientrare in questo fondamento ontologico essenzialmente caratterizzato dalla «trascendenza immanente» (naizaiteki chōtetsusha), o viceversa (ma a nostro parere meno esattamente) «immanenza trascendente». In un brano fondamentale, Nishida scrive:
«La distinzione tra differenziazione e unificazione è tale nel nostro pensiero, non è cosa del reale concreto immediato. Come per Goethe la natura non ha né nocciolo né guscio, tutto al tempo stesso è nocciolo e guscio, Natur hat weder Kern noch Schale, alles ist sie mit einem Male, così della vera realtà concreta, ovvero nel reale concreto dell’esperienza immediata, differenziazione e unificazione sono un’unica attività. Per esempio, in un quadro o in un brano musicale ogni singolo tratto di pennello o ogni nota rivela lo spirito dell’intero dipinto e dell’intera musica. Nel pittore o nel musicista, un’unica ispirazione subito trabocca e diventa un paesaggio di montagne e fiumi estremamente vario, o una composizione assai complessa. In uno stato di questo tipo, Dio è il mondo e il mondo è Dio» [41].
L’ispirazione artistica è dunque concepita da Nishida come un continuum tra intuizione ed espressione, una forma di conoscenza immediata, cioè non-mediata, indipendente dalla procedura ipotetico-deduttiva e logico-razionale propria dell’analisi soprattutto scientifica; in questo senso, si può dire che mentre l’attività dello scienziato e del filosofo consiste essenzialmente nell’analisi, la quale isola e divide elemento da elemento, funzione da funzione, eccetera, quella dell’artista e del mistico consiste essenzialmente nella sintesi, nella riunione dell’insieme (sym-bulein) degli elementi che il metodo analitico separa; non a caso, l’arte e la religione producono – o esprimono – simboli. Ghilardi commenta infatti: «L’ispirazione artistica, a differenza delle procedure dicotomizzanti del pensiero, si muove in un piano dove non vige di necessità la distinzione tra differenziazione e unificazione, ma le percepisce come momenti non separati di un’unica attività. Inoltre, essa è in grado di legare tutto con tutto, ovvero – per usare una terminologia buddhista, più specifica – della “non ostruzione tra fenomeno e fenomeno” (jijimuge). Tutto è al tempo stesso nocciolo e guscio, forma e contenuto, uno e molti; e l’uno è nei molti, e i molti nell’uno. Microcosmo e macrocosmo si compenetrano l’un l’altro, si rivelano l’uno attraverso l’altro. […] Per questo, anche nel più piccolo gesto o nel minimo frammento, è già contenuto l’universo, anzi, è Dio stesso che vive; si comprende che “Dio è il mondo e il mondo è Dio”» [42].
Questa concezione della realtà totale che si rispecchia in ciascuno dei suoi moltissimi frammenti particolari era stata applicata da Nishida, come si è visto, anche al rapporto tra la singola pennellata e l’insieme organizzato di tutte le pennellate presenti in un quadro, così come tra la singola nota musicale e l’insieme delle note che formano una composizione, cosicché quello che si potrebbe chiamare lo “spirito” del dipinto o della partitura si manifesta sia nel dettaglio compositivo, sia nel risultato finale (l’opera conclusa). In questa sede è impossibile valutare in quali casi ciò sia vero e in quali possa non esserlo: accenniamo soltanto che, secondo noi, due esempi di pittura europea in cui tale rapporto di corrispondenza tra dettaglio ed insieme risulta particolarmente presente sono Vincent van Gogh ed Edvard Munch. Da questa concezione dell’opera d’arte nel suo aspetto formale emerge comunque l’analogia tra la visione della realtà del filosofo giapponese e la struttura «frattale» – così definita per la prima volta nel 1975 da Benoit Mandelbrot (1924-2010) e menzionata da Luca Siniscalco nella citata video-presentazione del volume di Medrano Shintō e Zen – riconoscibile in alcuni prodotti della natura come la pianta di felce o l’abete, nei quali l’organizzazione degli elementi minimi (ad es. gli aghi dell’abete) è identica all’insieme da essi composto (il ramo d’abete) e all’insieme degli insiemi (l’insieme dei rami, cioè l’intero abete), così da riprodurre più volte, in una scala di dimensioni diverse, la medesima forma. Arte e natura possono quindi essere accomunate dalla struttura frattale (e ciò, dal punto di vista di Nishida, è indizio della loro comune origine metafisica), ma la concezione frattale – come ricordato da Siniscalco – risulta applicabile anche all’entità divina (o da essa ricavabile) della religione shintō o shintoistica, il kami, che potremmo definire energia cosciente che informa la natura. Il kami infatti trascende tutti i fenomeni naturali e, insieme, si situa in ognuno di essi (negli alberi e nelle foreste, nel vento, nel fuoco, ecc.) senza per questo diventare qualcos’altro, così come nei frattali la struttura dell’oggetto compiuto resta identica a quella dei singoli elementi che lo compongono. Per questa ragione lo Shintoismo afferma, con una iperbole, che esistono ben otto milioni di kami, ma sarebbe errato concepirli come otto milioni di individui divini: sono le varie espressioni fenomeniche di un’unica realtà che a sua volta si ritrova in ciascuna di esse, così come un’immagine intera si riflette non soltanto in uno specchio d’ampiezza adatta a rifletterla a grandezza naturale, ma anche in una miriade di specchi molto più piccoli, oppure in ciascun frammento di un grande specchio andato in pezzi [43]; in questo senso il rapporto tra il kami e le sue molteplici manifestazioni cosmiche è definibile come frattale.
Questo genere di consapevolezza dell’intima unità del reale – dice Nishida – non è una forma di conoscenza raggiungibile come risultato dell’attività logico-discorsiva (come si è visto, egli afferma giustamente che la verità non si costituisce in base alle relazioni concettuali elaborate dalla mente umana: figuriamoci in base a quelle ideologico-politiche), bensì si deve a una forma di «intuizione agente» (kōiteki chokkan) che supera le dicotomie, che, per quanto riguarda l’arte, «non si limiti alla rappresentazione di forme esteriori, ma che, conoscendole, diventi quelle forme» [44], tramite l’immedesimazione dell’artista in esse, così come il kami s’immerge in ciascuna delle forme alle quali esso stesso dà vita. Tale visione dei rapporti reciproci fra trascendenza cosciente, intuizione umana e arte fanno pensare nuovamente a Gustavo Adolfo Rol, nel cui pensiero l’esperienza e il concetto dell’«intuizione» sono ricorrenti e fondamentali. Si è già visto come nella filosofia di Rol sia essenziale il ridimensionamento dell’ego da parte dell’individuo affinché l’energia creatrice dello Spirito, del Divino, possa agire attraverso di lui; nel caso dell’«intuizione», si potrebbe dire che il Divino rende l’individuo momentaneamente partecipe della propria conoscenza immediata di uno o più aspetti particolari della realtà – in non poche occasioni, Rol ebbe degli imprevedibili “lampi” di conoscenza immediata, o a distanza, sulla vita privata di persone a lui totalmente sconosciute e che aveva soltanto visto esteriormente da pochi secondi o minuti – affinché l’individuo dotato di questa forma di «intuizione» possa esprimere lui quella volontà di bene (concetto che, come si è visto, Nishida ammette, o riconosce, essenzialmente legato alla manifestazione dell’universo) propria del Divino soprattutto nella sua attività creatrice.
La condizione necessaria per l’«intuizione agente» è dunque la carità, l’amore, che a sua volta coincide con la più perfetta forma di conoscenza; in un altro brano, infatti, Nishida scrive esplicitamente: «Amare qualcosa significa rigettare noi stessi e fare tutt’uno con l’altro da noi. Nell’unione senza fratture di sé e dell’altro, per la prima volta scaturisce il vero amore. […] Amare la luna significa coincidere con la luna. […] Più noi, rigettando il nostro io, diventiamo puramente oggettivi, cioè senza-io, più l’amore diventa grande e profondo. […] Conoscenza e amore sono dunque attività spirituali identiche. Per questo, per conoscere una cosa bisogna amarla e per amare una cosa bisogna conoscerla. […] Solo perché ama la natura, coincide con essa e si sprofonda al suo interno, l’artista può intuire la verità della natura» [45].
In quello che Marcello Ghilardi definisce giustamente «un passo straordinario [che] può essere letto quasi come una piccola summa del pensiero nishidiano in tema di arte e di relazione col mondo e la vita» [46], Nishida Kitarō torna quindi su questa condizione ispirata dell’artista: «È il sentimento dell’unione di soggetto e oggetto, non solo tra esseri umani, ma anche nel caso di un pittore nei confronti della natura. […] Va bene se sono le cose che muovono l’io, e va bene se è l’io che muove le cose. Va bene se Sesshū ha dipinto la natura, e va bene se la natura attraverso Sesshū ha dipinto se stessa. […] Non c’è un io separato dal mondo che l’io vede. […] Cielo e terra hanno un’identica radice, tutte le cose un corpo solo» [47]. Opportunamente, lo studioso italiano chiarisce che la frase «Va bene se sono le cose che muovono l’io, e va bene se è l’io che muove le cose» non significa affatto che ogni punto di vista sia uguale all’altro, bensì che ogni aspetto del mondo vive insieme al suo contrario: si tratta sempre di nuovo della «relazione di polarità inversa» che contemporaneamente separa e unisce ogni coppia di categorie della realtà (è la stessa dinamica che nella tradizione cinese è espressa con la celebre, e talvolta fraintesa, coppia di concetti yin e yang). Dal punto di vista del soggetto osservatore, ogni aspetto della realtà esiste in quanto viene percepito e reso evidente a lui stesso dalla sua mente: senza un soggetto percettore, non potrebbe esistere la percezione di ciò che esiste. In questo senso «è possibile dire sia che “sono le cose che muovono l’io”, accentuando in tal caso il carattere panenteistico dell’attività creativa, in cui il soggetto è strumento per il farsi di qualcosa che in realtà lo sopravanza infinitamente, sia che “è l’io che muove le cose”, privilegiando il tal caso la considerazione della funzione formatrice del soggetto creatore» [48].
Si tratta, in sostanza, sempre della stessa situazione: vi è un unico atto, che è poi anch’esso un evento cosmico, visto simultaneamente da due prospettive differenti: dal punto di vista trascendente, intuibile da parte dell’interiorità dell’artista, lo Spirito si esprime, cioè esprime la propria volontà di verità-bontà-bellezza, attraverso l’artista stesso; dal punto di vista immanente, l’artista crea immagini che implicano la verità-bontà-bellezza attingendo (talvolta inconsapevolmente) dalla dimensione dello Spirito. Entrambi i punti di vista coesistono nella sfera psichica umana, luogo privilegiato della manifestazione della mente – o coscienza – del Divino, ed è probabilmente in questo senso che si può spiegare la conclusione di un koan (aneddoto o parabola tipicamente spiazzante, con funzione d’insegnamento), facente parte della tradizione zen cinese: «Due monaci stavano bisticciando a proposito di una bandiera. Uno disse: “La bandiera si muove”; l’altro disse: “È il vento a muoversi”. Per caso passava di là il sesto patriarca. Disse ai due: “Non è il vento, e nemmeno la bandiera: è la mente che si muove”» [49]. Vale la pena di confrontare questo koan con un insegnamento induistico: «Non vi sono cose esterne, come gli stolti immaginano. Quando la mente vien mossa dalla vāsāna (impressione), si verifica l’apparire degli oggetti» (Lankāvatāra, X, 15) [50]. Ciò può voler dire che se la mente si sofferma sui fenomeni esperibili coi sensi (vista della bandiera, contatto del vento), significa che si è mossa in modo sbagliato poiché si è lasciata muovere da quelle impressioni sensoriali che in realtà dovrebbe superare per cogliere non i singoli fenomeni ma l’unità dinamica che sta “dietro” o “dentro” di essi.
Da questo punto di vista, ogni cosa che possa essere rappresentata dall’arte costituisce la manifestazione di un fenomeno che si distingue dai fenomeni naturali (coi quali condivide l’origine nel Trascendente-immanente) soltanto per il fatto di essere espresso attraverso l’individuo umano e, quindi, di dover poi essere trascesa essa stessa dall’essere umano per cogliere la dimensione metafisica in cui hanno origine l’una (l’arte) e l’altro (l’essere umano). Per questa ragione, argomenta Nishida, l’arte può essere bella anche quando rappresenta ciò che è brutto, buona anche quando rappresenta ciò che è cattivo, elevata anche quando rappresenta qualcosa di degradato o abietto, senza per questo poter condannare l’artista, che in questa concezione – utilizzando una metafora propria ancora di Gustavo Adolfo Rol – è puramente la «grondaia» in cui s’incanala la «pioggia» della Volontà cosmico-metafisica. Tuttavia, l’artista ideale o il vero artista, secondo Nishida, è colui (o colei) in cui il talento o la capacità artistica si uniscono alle doti morali, poiché – come si è già detto – l’arte non è (o non dovrebbe essere) una pura espressione dell’individualità psicologica o sociale di chi la produce, ma piuttosto una forma di conoscenza che, in assenza di rettitudine, non può svilupparsi pienamente: «L’arte, insieme all’agire morale, si rivela essere al contempo una forma di comprensione del mondo e la possibilità per la creazione di un mondo nuovo, o rinnovato, per mezzo del rinnovamento dello stesso sé creatore – un sé che “crea” soltanto nella misura in cui si sente ”creato”, partecipe di un processo di creazione del quale egli è strumento e tramite, e non autore unico e incondizionato» [51].
Questo brano sembra spiegare bene, per contrasto, la situazione di non poca arte contemporanea e della società che la produce: una forma mentis basata sullo scetticismo e sul relativismo etico ed estetico-artistico, abituata all’idea che l’essere umano e l’universo esisterebbero per puro caso e senza ragione, non può che produrre una mole di opere che, essendo per lo più «tristi, depressive, oppure “giochini”» formali e concettuali, stanno riducendo l’arte a rappresentante della «spazzatura della società» [52]. «L’originalità della visione di Nishida», scrive a questo proposito il suo connazionale K. Yoshioka, «sta nel fatto che egli considera il problema dell’espressione in una prospettiva in cui l’artista è sia colui che crea, sia colui che riceve il proprio essere dal mondo. Al centro di questa sua visione ci sono l’attività espressiva colta come un carattere fondamentale dell’uomo, e l’unità nell’uomo del corpo e dell’anima» [53]. Per questo, un’analoga sinergia dovrebbe connettere la bellezza estetica espressa nell’arte con la bellezza morale propria dell’artista come individuo umano: «È significativo che per Nishida la chiave della bellezza risieda anche nella autenticità dell’essere umano, o nel carattere di “sincerità”, “rettitudine” (makoto) o di “verità” (shin o makoto), intesa non soltanto in senso conoscitivo, ma soprattutto morale» [54]. Ghilardi qui fa presente che questo legame consustanziale tra estetica ed etica ritorna in molti brani dell’opera di Nishida, e che tutti i saggi contenuti nella raccolta nishidiana Arte e morale ruotano intorno ad esso.
A sua volta, l’essere umano in cui sensibilità estetica e orientamenti etici sono, o dovrebbero essere, concordemente intrecciati, si dà sempre in uno spazio, perciò anche il concetto di spazio si rivela imprescindibile per l’esperienza estetica e per l’arte. Ma mentre nell’arte occidentale – sostiene Nishida – lo spazio sembra concepito soltanto come ambiente fisico, esso in realtà è una dimensione molto più estesa, è lo spazio assoluto, nel quale avvengono tutti i fenomeni, incluso l’ambiente naturale (a sua volta incluso nella totalità del cosmo) che ospita gli esseri umani, che a loro volta esprimono le possibilità virtualmente contenute in quello spazio. Tale concezione della differenza tra spazio naturale e spazio assoluto può essere confrontata con quella presente in Pavel Florenskij (1882-1937); essa risulta applicata, dal filosofo e teologo ortodosso russo, soprattutto alla differenza nella raffigurazione dello sfondo nelle opere di pittura a tema sacro. Mentre nelle pitture occidentali anche le scene tratte dalla Bibbia (soprattutto dai Vangeli) mostrano sullo sfondo un cielo fisico, imitazione di quello visibile con gli occhi, per lo più terso o poco nuvoloso e quindi color celeste, nelle icone ortodosse lo sfondo alle spalle del personaggio sacro o del santo raffigurato (soprattutto la Vergine Maria con il Cristo bambino, e il Cristo stesso adulto) è color oro, in quanto esso simbolizza e manifesta la luce non meramente meteorologica di un paesaggio terreno, bensì quella ultraterrena nella quale vivono in eterno i santi e il Cristo: a loro volta, le icone non riproducono banalmente l’aspetto di un santo, del Cristo o della Vergine Maria, bensì li manifestano, li rendono presenti nel mondo storico, nel momento in cui l’osservatore, laico o monaco, le guarda e le venera. Nell’oro di un’icona ben riuscita – scrive Florenskij -:
«non c’è traccia di opacità, di consistenza, di torbidezza. Quest’oro è pura luce senza mescolanza e non rientra fra i colori che si percepiscono come luce riflessa: i colori e l’oro appartengono otticamente a diverse sfere dell’essere. L’oro non ha un colore anche se ha un tono. […] Oro, metallo, sole non hanno colore perché [sono] quasi identici alla luce solare. Ecco perché è di una profonda verità l’opinione che ho sentito ripetutamente da V. M. Vasnetzov, che il cielo non si può rappresentare con nessun colore, ma soltanto con l’oro. Quanto più scrutiamo il cielo, specie intorno al sole, tanto più si insinua in noi il pensiero che non è l’azzurro il suo segno caratteristico, bensì la lucentezza della luce diffusa nello spazio, e che questa profondità luminosa si può rendere soltanto con l’oro; il colore sembra torbido, piatto, opaco. Ecco che con purissima luce il pittore di icone costruisce, non costruisce però quel che capita, ma soltanto l’invisibile attingibile con l’intelletto, sussistente sul piano della nostra esperienza, ma non sensibilmente, e che perciò nella rappresentazione si è obbligati a tener distinto sostanzialmente dalle rappresentazioni del sensibile. […] In ogni caso, evidentemente l’oro si riferisce all’oro spirituale, alla luce sovraceleste di Dio» [55].
Note:
40 – Ghilardi, op. cit., p. 214.
41 – Citato in ibidem, ivi, pp. 214-215.
42 – Ghilardi, op. cit., p. 215.
43 – Vedi Shintō e Zen. Le radici metafisiche del Giappone, presentazione dell’omonimo libro di Antonio Medrano, video a cura di Eleonora Fani, con Andrea Scarabelli e Luca Siniscalco, 25 ottobre 2022: https://www.youtube.com/watch?v=XyqLHVvl68Y .
44 – Ghilardi, op. cit., p. 215.
45 – Citato in ibidem, ivi, p. 216.
46 – Ghilardi, op. cit., p. 216.
47 – Citato in ibidem, ivi. Sesshū è Sesshū Tōyō (1420-1506), monaco zen e importantissimo pittore giapponese.
48 – Ghilardi, op. cit., p. 217.
49 – Mumon (alias Ekai, 1183-1260), La porta senza porta, a cura di Nyogen Senzaki e Paul Reps, Milano, Adelphi, 1987, p. 54.
50 – Citato in Sarvepalli Radakhrishnan (a cura di), Storia della filosofia orientale, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1981, tomo II, pp. 777-778 (note di chiusura relative al capitolo IX, facente parte del tomo I, che purtroppo non è in possesso di chi scrive). Possiamo notare tra l’altro un’assonanza linguistica tra la parola sanscrita vāsāna e quella latina visio, visione(m), accomunate dal significato di «impressione visiva».
51 – Ghilardi, op. cit., p. 219.
52 – Sarebbero parole del noto regista Michel Houellebecq citate dal duo di registi italiani Masbedo (Massazza & Bedogni) durante gli incontri Dialoghi di Estetica II. Che cos’è un’opera d’arte?, a cura del Laboratorio di Ontologia dell’Università di Torino e del Dipartimento educazione del Castello di Rivoli-Museo d’arte contemporanea, Rivoli (TO), 18-23 giugno 2012 (appunti dello scrivente su https://www.academia.edu/42159672/Dialoghi_di_Estetica_II_Che_cosè_unopera_darte ).
53 – K. Yoshioka, La visione artistica di Nishida Kitarō, in AA. VV., La Scuola di Kyōto, Messina, Rubbettino, p. 146 (citato in Ghilardi, op. cit., p. 219).
54 – Ghilardi, op. cit., p. 219.
55 – Pavel Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, trad. it. a cura di Elemire Zolla, Milano, Adelphi, 2007 [tit. or. IKONOCTAC (Iconostasi), 1922], pp. 137, 140-141, 145. Il pittore Vasnetzov sarebbe Victor Michajlovič Vasnetsov (1848-1926), autore tra l’altro dei Quattro cavalieri dell’Apocalisse e del Giudizio universale.
Piervittorio Formichetti
(continua…)