La morte e il morire: dallo scacco del pensiero filosofico alla risposta delle religioni – Marco Pucciarini – 1
Narrano le cronache che nell’anno 1498, nei dintorni d’Este, fosse stata rinvenuta in un antico sepolcro una lampada ardente da più di mille anni, ma che, tolta dal luogo ed esposta all’aria, d’un tratto, si spense. A Roma, qualche anno prima, il 15 aprile del 1485, fu scoperto, nei pressi della Via Appia, un sarcofago marmoreo dentro cui, galleggiante in un liquido, giaceva il corpo intatto di una fanciulla romana che tale, freschezza e flessibilità conservava, da sembrare quello di una adolescente appena morta II volto delicato aveva un leggero colorito, gli occhi e la bocca semiaperta e intorno al capo, ornato da una fascia d’oro, s’intrecciavano i lunghi e fluenti capelli color dell’oro. Essa era bella – narra il cronista – oltre quanto si può dire e scrivere, e se lo dicessi, quelli che non la videro non crederebbero. (1) La fama corse per la città e per i paesi vicini, e trasportato il corpo al Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, la gente vi si recava da ogni parte per poter ammirare un tale prodigio; ma il corpo, anneritosi dopo qualche giorno d’esposizione all’aria e alla luce, fu, per ordine del pontefice Innocenzo VIII, seppellito nottetempo in un luogo segreto fuori della Porta Pinciana, e di questa straordinaria scoperta non rimase altro che la memoria. L’illusione che in qualche modo si potessero eludere gli impalpabili lacci della morte e sottrarsi all’ineluttabile disfacimento, non era durata che un tenue momento: Mors ultima linea rerum est (Orazio, Epist. 1,16). La morte rimane per tutti un dramma sempre incombente e sconvolgente, e un mistero impenetrabile. Dramma e mistero che segna il punto culminante dell’esistenza, dove tutto s’innalza, come in un’onda che sale repentina e poi d’improvviso precipita in abissi assolutamente inaccessibili allo sguardo umano. Tutti gli uomini sono dunque soggetti alla legge della morte. La vita non è che un movimento veloce verso la morte. La morte avanza continuamente verso l’uomo. L’organismo umano è materia e come tale è soggetto alla lenta usura del tempo, così come succede a una pianta, a una pietra, a un metallo. Tutto in lui decade lentamente, invecchia, si prosciuga, si ferma, si corrompe, muore. Sentiamo pure che il nostro compito non può essere soltanto quello di far la catena in cui s’inanellano le generazioni, avvertiamo che ciascun elemento di essa ha un valore suo e incommensurabile (l’individuum ineffabile degli scolastici) (2). Può bensì il singolo nella vita apparire effimero e inconsistente, e per esso si può ripetere l’antica immagine omerica, continuata fino a Dante: gli uomini sono come le foglie della foresta, che cadono ad ogni stagione e si rinnovano. Ma se il tronco, che è l’umanità, rimane saldo e sopravvive al mutar delle foglie caduche e inaridite, esso non è poi che lo strumento per l’alimentazione delle fronde, dei fiori, dei frutti, che via via si succedono. Non importa che alcuni individui valgano più ed altri meno, come i fiori che sono più o meno odorosi e i frutti più o meno gustosi; giacché essi esprimono semplicemente un diverso grado di maturità. Quello che importa è che il tronco dell’umanità viva, per dar vita a questi esseri innumerevoli; che l’umanità fiorisca e fruttifichi negli individui, i quali hanno una finalità loro propria, e sono la ragion d’essere dell’albero della vita. Allora, che cos’è morire? e perché si muore? Albert Camus (3) scriveva: “In realtà, non c’è esperienza della morte”. Perché? Seguiamo ancora Camus: “In senso proprio, non è sperimentato se non quello che è stato vissuto e reso, cosciente”. Quando parliamo del “morire”, ne parliamo come se si trattasse di un evento, o di un atto, vissuto. Ma, un evento, o un atto, definiscono e si definiscono attraverso un “prima” e un “poi”, irriducibili l’uno all’altro. Questo “prima” e questo “poi”, non sono sospesi nel vuoto, ma s’iscrivono nella continuità di una storia personale, nella soggettività storica. E’ questa continuità che ci interroga: c’è in essa un soggetto che è morto dopo essere stato vivo? O, di contro, la morte non è, propriamente, l’annientamento di questa soggettività capace di vivere il “poi” e di collegarlo al “prima”? Ipotesi questa che è già stata di Epicuro: “Abituati a pensare che la morte non è nulla per noi, perché ogni bene e ogni male risiedono nella facoltà di sentire, di cui la morte è appunto privazione… Il più terribile dei mali dunque, la morte, non è niente per noi, dal momento che, quando noi ci siamo, la morte non c’è, e quando essa sopravviene noi non siamo più” (Epistola a Meneceo, 124 e ss ). La morte e il soggetto suscettibile di farne l’esperienza, non potranno mai incontrarsi. Senza dubbio la teoria di Epicuro comporta un’ipotesi negativa per qualunque idea di sopravvivenza. Ad ogni modo, morire, essere morti, rigorosamente parlando, non può essere concepita come una “esperienza” se non per chi è morto, se questi resta cosciente e se può riflettere, elaborare, quello che gli accade in questa condizione.
Se dunque, l’esperienza della morte esiste, essa non fa parte del nostro mondo e noi non possiamo né comunicare né entrare in relazione con essa. C’è comunque un ambito che fa eccezione: possiamo parlare dell’esperienza, nostra esperienza, del vedere la morte altrui. Quale è il suo contenuto? Ci può, in qualche modo, illuminare su ciò che è morire? Certo, qualcosa accade davanti a noi, un evento, il più irrevocabile di tutti, si produce: pochi istanti prima qualcuno era là, potevamo comunicare con lui, anche se solo con uno sguardo, la pressione della mano; poi, non abbiamo davanti altro che un cadavere, incapace di risponderci. La morte altrui è l’esperienza della rottura, definitiva, netta, della comunicazione(4). Quel corpo che era vita, parola, ora è inerte, muto. Il cadavere è là, davanti a noi, porta ancora i tratti della persona che abbiamo conosciuto, amato: l’essere che viveva “prima” è là, inutile cercarlo da qualche altra parte nel nostro mondo. Eppure non è più presente. Così sperimentiamo la distanza che separa il morto dal vivente, lo choc di questa morte sulla nostra vita, quando si tratta di qualcuno che amiamo. Dinanzi alla morte altrui il primo movimento dell’animo è quasi un soggiacere all’evidenza di quest’annichilimento. La nostra stessa desolazione sembra implicare in noi la persuasione di una sventura ultima, irreparabile: e a questo sentimento spontaneo per la perdita della persona cara si associa tacitamente quello della nostra caducità. Noi stessi usiamo chiamarci “mortali”, e per questo nome gli uomini sembrano distinguere se medesimi dagli altri esseri viventi. Dinanzi alla tomba, ultimo asilo, la sola parola vera pare quella suprema di Amleto: the rest is silence. Facciamo un’esperienza che è sì esperienza della morte, ma non del “morire” stesso come evento che accade al morente. L’idea che essa ci fornisce su ciò che sarà la nostra propria morte non è che molto marginale. Sapendo che morremo e non avendo alcuna esperienza diretta di ciò che significhi morire, non possiamo fare a meno di tentare di “riempire” questa certezza vuota di un qualsiasi contenuto sperimentabile direttamente. Anche se la morte non si fa mai conoscere “di persona”, noi non rinunciamo a cercare di farci una sua semi-esperienza, impadronendoci di tutto quello che ci sembra suscettibile di prefigurarla. Così, l’esperienza quotidiana del sonno può essere intesa come un’immagine direttamente anticipatrice della morte. L’analogia è fondata sulla nostra stessa esperienza: davanti ad una persona profondamente addormentata “seppellita” nel sonno, non c’è mai capitato di domandarci con inquietudine se questa non fosse morta? Certo, per quanto ci concerne direttamente, noi “cadiamo” nel sonno senza poterci osservare addormentati. E’ solo quando ci svegliamo che realizziamo che ci siamo addormentati e, pure allora, quello che ci è accaduto nel momento stesso in cui ci siamo addormentati rimane per noi sconosciuto. Il sonno, propriamente parlando non è un’esperienza e, forse, è proprio per questo che si è reso cosi adatto a figurare la morte. Esiste, è vero, un torpore ancora cosciente che non è ancora sonno vero e proprio, ma che lo precede e l’annuncia. Una distanza radicale, come quella che separa l’agonia dalla morte, sussiste fra questo torpore e il sonno vero e proprio. Invecchiare vuol dire avvicinarsi a morire, un’altra prefigurazione della morte. Il progressivo ridursi delle attività nell’anziano, la diminuzione delle sue facoltà, la sua ridotta capacità di investire la sua affettività in compiti, relazioni, non costituiscono una prefigurazione della morte come sciogliersi di ogni relazione, di ogni scambio con il mondo? L’analogia è valida se la morte è intesa come rottura ed estinzione, ma se l’ intendiamo come liberazione, se pensiamo di trovare al di là da essa una vita dello spirito più libera, più viva, allora non è più la vecchiaia che ci offre un’immagine della morte, ma, al contrario, l’analogia più densa di significato ci è offerta dalla giovinezza, meglio ancora dalla nascita, dall’ingresso nella vita, dall’apertura al mondo. Incerti riguardo alla morte, non ci troviamo forse come chiusi in un cerchio? Da un lato, la certezza che abbiamo del morire, del nostro morire, è vuota, non significante, vista la nostra incapacità di darle un qualsiasi contenuto di esperienza o di semi-esperienza. D’altra parte la scelta che operiamo in queste prefigurazioni della morte implica una qualche idea preliminare di ciò che esse devono prefigurare. Se noi ignorassimo del tutto quello che è il morire, come sapremmo che il sonno o la vecchiaia sono immagini della morte? Per cercare di uscire dal cerchio, ritorniamo all’idea della morte. Possiamo precisarla in qualche maniera più diretta? Partiamo dalla definizione classica della morte come separazione dell’anima e del corpo. Solo che questa definizione ci rimane oscura fintantoché non siamo in grado di dire come l’anima e il corpo, attraverso i loro rapporti, definiscono il vivere. Per sapere cosa sia il morire occorre conoscere cosa sia il vivere. Di fatto la problematica ontologica dell’anima e del corpo ha lungamente occupato la filosofia greca e la filosofia medievale, fino a trovare la sua più soddisfacente elaborazione nel pensiero di Tommaso d’Aquino. L’antropologia tomista unisce intimamente – sostanzialmente – l’anima e il corpo, senza però ignorare quella che è la vita propria dell’anima. L’intelligibilità di quest’antropologia è però legata a un sistema che ingloba in una sintesi gerarchica tutto l’insieme degli esseri creati. L’uomo è posto al confine di due mondi: quello delle sostanze immateriali e quello delle sostanze composte di materia e forma. La possibilità di comprendere quest’antropologia risulta dunque sospesa all’intelligibilità propria di questi due mondi, in particolare all’intelligibilità del mondo delle sostanze materiali di cui l’uomo fa parte in modo più diretto. In altre parole essa è strettamente connessa ad una cosmologia che lasci concepire la possibilità di una indipendenza progressiva della forma nei confronti della materia che anima.
Dal giorno in cui, divenendo matematica, la fisica ha cessato di riferirsi all’hylemorfismo, l’idea tomista dell’anima, come unione sostanziale dell’anima e del corpo, s’è oscurata. Si vede bene in Descartes, che pensa chiaramente il pensiero, l’estensione, ma che non riesce a concepire l’unione sostanziale dell’anima e del corpo che pure ammette. Non gli sembra che “lo spirito umano sia capace di concepire ben distintamente, nello stesso tempo, la differenza fra l’anima e il corpo e la loro unione; ciò a ragione del fatto che occorrerebbe pensarle come una sola cosa e allo stesso tempo concepirle come due, ma questo è contraddittorio” (Lettre à la Princesse Elisabeth du 28 juin 1643). Originariamente, la nozione d’anima ha un rapporto diretto con il problema della morte e dell’immortalità. L’anima è ciò che sopravvive al corpo. Se la definizione classica della morte (5) come separazione dell’anima dal corpo può essere interpretata nel senso di un annientamento dell’anima consecutivo alla disorganizzazione del corpo, il suo significato più diretto implica la credenza nell’immortalità dell’anima. E questa è la posizione del primo filosofo in cui troviamo questa definizione: Platone – senz’altro influenzato dalla visione orfica. Ogni tentativo di dimostrazione dell’immortalità dell’anima si richiama, più o meno direttamente, a Platone e agli argomenti del Fedone (70,71 e ss.), particolarmente a quello che stabilisce l’affinità fra l’anima e le Idee che sono indistruttibili, eterne. Questi argomenti o prove suppongono un’esperienza. L’esistenza separata dell’anima comincia a diventare concepibile nella misura in cui, nell’esistenza attuale, noi sperimentiamo una certa vita indipendente dell’anima. Così, nel Fedone (64a, 67a) Platone fa dire a Socrate che il filosofo non deve temere la morte. Ma perché? Ha forse delle ragioni specifiche per non temere la morte? Sì. Perché il filosofo nell’atto stesso del filosofare anticipa la morte, poiché quest’atto esige un raccoglimento totale del soggetto in sé stesso, per pensare ” con l’anima sola”. Questo sforzo per realizzare nella vita le condizioni stesse della morte, o piuttosto dell’immortalità, dà confidenza non solamente nella possibilità di una esistenza separata dell’anima, ma pure nella libertà superiore di cui gode l’anima così separata dal corpo che la turba e le impedisce di pensare. Traendo da questo testo la conclusione che l’anima in quanto tale, ogni anima, è immortale, si rischia di non avvedersi del fatto che distaccandosi dal corpo per pensare con l’anima sola, il filosofo non fa soltanto la prova che l’immortalità è possibile, ma ne pone pure la condizione. Non soltanto quegli che si è esercitato ad un pensiero purificato dal contatto con il corpo ha il privilegio di concepire l’immortalità, la cui natura resta nascosta per chi non abbia fatto questa esperienza, ma egli è senz’altro il solo che si renda capace di goderne. La relazione dell’anima, con le Idee si acquisisce, in effetti, solo in questo movimento della vita del pensiero. E’ possibile dunque promettere l’immortalità a chi non abbia reso la sua anima affine alle Idee attraverso la disciplina del puro pensare? In effetti, Platone, per una tale persona, non prevede che la caduta in un nuovo corpo sino a che l’anima, purificata dalla filosofia, possa realmente liberarsi dal ciclo della metempsicosi. Oggi, può essere di una qualche difficoltà il riprendere puramente e semplicemente le idee platoniche. In primo luogo, occorre osservare che nel l’ammettere che il pensiero possa veramente purificarsi, in questa vita, dal corpo e rendersi così affine al mondo intellegibile, non si può fare a meno di chiedersi se lo spirito si prepari così all’immortalità propriamente detta, cioè a una vita personale dopo la morte, o se esso, piuttosto, non faccia l’esperienza della partecipazione, in questa stessa vita, all’eternità delle Idee. Quest’ultima è la posizione, ad esempio, di Spinoza, che si rifiuta d’immaginare la sopravvivenza, benché ammetta che lo spirito può in questo stesso mondo sperimentare la sua eternità. Ancora possiamo domandarci se, quando raggiunge la sua più alta purificazione, il pensiero non resti dipendente, nel suo porsi, dalla conoscenza sensibile e quindi dal corpo. Il problema dei rapporti dell’anima e del corpo raggiunge, qui, il suo maximum di complessità – e d’interesse filosofico – allorché si tenti di pensare la relazione fra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale. La mediazione fra queste due forme di conoscenza è di difficile discernimento ma essenziale. In particolare, sembra evidente come l’intelligenza abbia bisogno, per il suo esercizio, della conoscenza sensibile. Dunque, come ammettere la possibilità di una vita intellettuale dell’anima separata dal corpo? Rifiutando il dualismo agostiniano san Tommaso si è fatto obbligo di esaminare questo problema con la massima attenzione e gravità. Il suo pensiero è ricco di sfumature e occorre confessare che quella parte della sua antropologia che si occupa della vita e della conoscenza dell’anima separata non è né la più chiara, né la più soddisfacente. Ora, questa oscurità scaturisce dalla definizione classica della morte. Lungi dal costituire una verità indipendente e immediata, questa definizione non è che un momento particolare dell’antropologia. Se non si può parlare in modo intellegibile dell’immortalità, ancor meno si è in grado di dare un senso chiaro e preciso alla definizione della morte come separazione dell’anima dal corpo. Questa difficoltà è ancor più vivamente avvertita nei nostri tempi La definizione esistenziale dell’uomo insiste, in maniera ancor più forte, sul ruolo della corporeità non soltanto nella conoscenza, ma anche come presenza al mondo e all’altro che costituiscono l’esistente come tale. L’insistenza sull’incarnazione dell’uomo, e il turbamento che essa introduce nella concezione classica della morte e dell’immortalità, non si origina esclusivamente da una forma particolare del pensiero filosofico. Siamo portati a distanziarci dalla sintesi antropologica all’interno della quale la morte può essere definita come la separazione di un’anima immortale e di un corpo mortale, non solamente da difficoltà intellettuali, ma da tutto il movimento dell’esistenza moderna, che ci allontana da una concezione puramente speculativa del pensiero per impegnarla, al contrario, nella conquista tecnica del mondo e della vita sociale. Lo statuto ontologico dell’anima separata, già difficile da concepire nell’ambito di una filosofia speculativa del pensiero, lo diviene ancora di più allorché l’uomo definisce la sua esistenza in funzione del lavoro e dell’altro.
Il valore che Platone attribuiva alla liberazione dell’anima nei confronti del corpo, diviene impensabile per l’uomo moderno. Come riconoscere il significato umano di un’esistenza spirituale separata dal mondo in cui l’uomo agisce e parla? Indipendentemente da ogni considerazione di fede, l’idea cristiana della resurrezione dei corpi può apparire, alla fine, plausibile. In questa prospettiva, il legame dello spirito e del corpo è tale che la morte non può apparire che come un annientamento totale, da cui possiamo tuttavia riaverci per mezzo di una resurrezione totalmente gratuita, ricreante, in una nuova terra e sotto nuovi cieli, tutto il nostro essere di uomini indissolubilmente legati a un corpo. Il filosofo, tuttavia, non può fare a meno di interrogarsi: sostituendo la resurrezione dei corpi all’immortalità dell’anima, risolviamo effettivamente tutte le problematiche che abbiamo rilevato? Il pensiero trova delle nuove difficoltà. Affermando che la sopravvivenza riguardi veramente la realtà integrale dell’uomo – il corpo e la sua relazione con il mondo – si rischia di affermare una rappresentazione dell’altra vita talmente concreta, talmente vicina a ciò che noi viviamo che ci si potrebbe chiedere come sia possibile che, in un’esistenza dalle condizioni così simili alle nostre, tutto non ricominci come nel nostro mondo: perché la nuova creazione non avrebbe, come la nostra, una storia, cioè dei conflitti e delle genesi? Per evitare simili conclusioni, il pensiero cristiano deve affermare l’alterità radicale del mondo della resurrezione, ma allora occorre rilevare che noi non siamo in grado più di sapere dove inizi e finisca l’analogia. In quale senso il corpo resuscitato, altro da quello che è stato portato sulla terra, è realmente un corpo, capace di svolgere un ruolo analogo a quello che il nostro corpo svolge nella vita presente? Quando opera la sua critica, la speranza cristiana della resurrezione dei corpi si mostra molto meno semplice di quanto appaia nella sua immediata opposizione alla dottrina dell’immortalità dell’anima. La fede non proietta una chiarezza totale sul fenomeno della morte. In fin dei conti, il suo più incontestabile beneficio può consistere, al contrario, nell’offrirci la possibilità di credere nell’aldilà senza obbligarci a pensare che abbiamo risolto il mistero della morte, del “morire”, che rappresenta per il pensiero umano un limite invalicabile cui le religioni cercano di dare una risposta. Il fatto morte nelle culture arcaiche e primitive è un fatto fortemente socializzato, un avvenimento che determina una “crisi” nel gruppo familiare e in quello più ampio di stirpe, di lignaggio, di clan, di tribù, ecc. Le strutture in cui si articola il gruppo reagiscono alla morte attraverso una serie di funzioni mitiche e rituali, creando dei paradigmi in cui tali reazioni si cristallizzano e tipicizzano in modo tradizionale. Così che l’esperienza di morte, per quanto concerne l’individuo, è costantemente mediata dai modelli che il gruppo di cui fa parte gli offre. L’individuo reagisce alla morte difendendosi magicamente o religiosamente dai possibili attacchi degli stregoni; ovvero realizza la sua esigenza di superamento della morte in una proiezione d’immortalità e di resurrezione, ma, in ogni caso, il suo atteggiamento è condizionato dalle soluzioni che il gruppo gli propone e che trova “vere” e “reali”. L’evento morte è generatore, per il suo configurarsi e acquisire intelligibilità attraverso le motivazioni mitiche e rituali, di reazioni ambivalenti. Da un lato il gruppo esprime il suo dolore, il sentimento di distacco, l’intenzione di vendicare il morto e di ricostituire un ordine turbato dall’accadimento. Sotto un altro aspetto, il gruppo viene a riconoscere nel morto un potenziale aggressore, un rischio per la vita che continua e deve ricorrere a varie forme di difesa dalle aggressività e dal rischio, cancellando la memoria del morto o trasformando la sua carica negativa in positiva. Nella maggior parte delle culture tradizionali l’avvento della morte si presenta come un disgraziato “incidente” Verificatosi agli inizi. La morte era sconosciuta ai primi uomini, agli antenati mitici. La morte è la conseguenza di qualcosa che è avvenuto in un’epoca primordiale che ha mutato l’originaria condizione di pienezza e che ha creato la situazione in cui l’uomo si trova nella sua attualità. Dal mito si apprende cosi come la morte è comparsa per la prima volta e si capisce il perché della propria morte: si muore perché la tal cosa è accaduta in illo tempore. Tale mutamento dipende da una colpa o anche dalla violazione di un “tabù” posto all’origine, o, infine, da taluni avvenimenti mitici che introducono la morte nel mondo indipendentemente dalla volontà, dal comportamento, dalla responsabilità degli uomini, talvolta soltanto per un capriccio, per un gioco, per una competizione di esseri divini o semidivini. Nel mito si tende ad accertare non tanto il perché dell’origine della morte, quanto il come e il quando essa si è introdotta nella vicenda umana. In questo modo si realizza una sicurezza di connessione di una vicenda quotidiana, comune e non spiegabile in sé, il “dopo”, ad una ratio che è in un certo tempo, il “prima”, nel quale si è verificata l’eversione della natura umana. Nei miti di trasformazione della morte, essa assume il valore di un passaggio, talvolta di una prova, attraverso la quale l’uomo accede ad una condizione diversamente rappresentata, che gli assicura la continuità d’essere in un’altra vita. Le singole forme di credenza in una sopravvivenza dell’uomo sono molto differenti; qui di seguito ne tracceremo una tipologia generale, lasciando ai successivi capitoli l’approfondimento di quelle proprie alle principali culture dell’Antico Oriente. La forma più semplice è l’idea di una prosecuzione della vita terrena, collocata nel sepolcro o nel regno sepolcrale. La stessa sepoltura dei morti ha quale premessa l’idea di una qualche sopravvivenza; già in epoca preistorica gli uomini venivano sepolti con doni di cibo e di bevanda, armi e ornamenti, coniugi, gente del seguito e schiavi. Le tombe megalitiche del Nord così come le piramidi e le mastabe egiziane sono testimonianze della fede in questo genere di sopravvivenza. Accanto al rifornimento dei morti al momento della sepoltura, vi era l’uso di nutrirli in determinate festività come le greche Ànthesteria e le romane Parentalia. La sepoltura in tombe di famiglia aveva lo scopo di assicurare ai membri defunti la prosecuzione nella loro comunità.
Presso vari popoli (Cinesi, Romani ed Ebrei), l’idea dell’immortalità individuale passava in secondo piano rispetto a quella dell’immortalità della famiglia e della stirpe; i Germani credevano in una sopravvivenza della stirpe nella “casa delle anime”, sotto la guida non di un dio, ma di uno degli anziani. Secondo un’altra prospettiva, i morti acquisiscono potere su una determinata sfera della vita terrena, rivelando una concezione della sopravvivenza come continuità e potenziamento della vita terrestre. Singoli defunti che già in questa vita possedevano uno straordinario potere magico, come sovrani, stregoni o eroi, conseguono dopo la morte, un potere più grande e possono così interferire nella vita dei loro discendenti o del loro gruppo sociale. Il culto degli eroi e degli antenati quasi non si differenzia dal culto degli dèi, entrambi i gruppi sono invocati nella preghiera come spiriti della natura e dèi supremi, ed entrambi i gruppi sono onorati con sacrifici. Secondo una diversa concezione, la vita terrena potenziata continua nell’aldilà in un “luogo” che può essere descritto, come paradiso o regno dei morti. Le popolazioni indiane nordamericane credono in un paradiso situato a ovest, sottoterra, un caldo paese fiorito dove c’è abbondanza di tutto, dove non c’è posto alcuno per le malattie e la morte, dove si circola nudi e si canta e danza. Gli Egiziani parlano di una verde e fertile terra di Aalu, dove si semina, si raccoglie, si caccia e si gioca: Il Rig – Veda parla della sede celeste dei padri, dove essi banchettano, cantano e suonano il flauto; molto diffusa è l’immagine dell’isola dei beati, circondata dal mare. I Campi Elisi, posti ai confini della terra, sono il luogo dove agli uomini è assegnata una vita più facile; l’isola dei beati irlandesi è detta “il paese sotto le onde”, “l’altro mondo”, “il paese luminoso”, ed è un luogo dove abitano uomini meravigliosi, con musica e alberi da frutto soprannaturali, cibo e bevande in grande abbondanza e nel quale i defunti godono giovinezza e bellezza eterne. L’altra immagine, quella che implica un peggioramento della vita terrena dopo la morte, è quella del “regno dei morti”. Diffusa è l’idea che i morti conducano negli Inferi un’esistenza ombratile. L‘Arallu babilonese è immaginato come una città circondata da sette mura: “Al Paese-senza-ritorno… / Nella Dimora dove non escono mai più / Coloro che vi sono entrati / Per la strada senza ritorno, / Dove coloro che arrivano / Sono privati della luce / Non nutrendosi che di humus, alimento della terra, / Calati nelle tenebre, senza mai vedere il giorno”(6). Secondo la visione omerica(7), le ombre dell‘Ade conducono una semi-vita inconsapevole, senza aspirazioni e volontà, senza influenze sul mondo dei vivi e restano, perciò, privi della venerazione e delle offerte di questi; non vi è alcun mezzo per costringerle o attirarle tra i vivi, soltanto l’offerta del sangue di Odisseo risveglierà in loro il ricordo della vita vissuta. Molte culture concepiscono l’idea della vita dopo la morte, come un proseguimento su questa terra. L’anima si distacca dal corpo attuale e passa in un altro corpo, sia umano sia animale o vegetale, e, a volte, anche in oggetti inorganici, in special modo pietre. Secondo la credenza dei Tlaxealtechi del Messico i sovrani rinascono in splendide gemme o in uccelli, gli altri esseri umani in animali. Per gli Zulù, i sovrani diventano serpenti velenosi, mentre gli altri uomini solo semplici e inoffensivi serpenti e le vecchie, lucertole. Stando all’antica fede nordica, gli antenati rinascono nei loro discendenti. In Nuova Zelanda i sacerdoti enumerano ad ogni neonato tutti i possibili nomi dei suoi avi, finché ad uno di questi il piccolo non emetta un grido o starnutisca e allora ecco individuata l’anima dell’antenato che riappare nel bambino. Per gli Egiziani i morti possono assumere qualsiasi forma. Il Libro dei Morti contiene una serie di sentenze che mirano a trasformare i morti in diversi animali e in altri esseri: falco, loto, airone, dio Ptah, ecc. L’idea di una prosecuzione, attraverso la morte, nella vita terrena ben presto si collegò a quella del contraccambio. Il senso della giustizia richiede una concordanza fra azione etica e destino.
L’esperienza della vita mostra che qui sulla terra, spesso le cose vanno male ai buoni e bene ai cattivi. Ed è a questa contraddizione che la fede nel premio o nel castigo, cerca di porre riparo attraverso una sorta di compensazione nella vita futura. La decisione in questa materia è demandata ad un giudizio che può essere immanente o automatico. Diffusa è l’idea dello stretto ponte che, passando sopra un abisso, congiunge il mondo terreno all’aldilà; i buoni lo percorrono facilmente, giungendo nel paese della beatitudine, i malvagi precipitano. La compensazione può però avvenire attraverso un regolare giudizio per opera di una divinità giudicante. I Melanesiani hanno il giudice dei morti Nedengel; in Egitto Osiride è “Signore del Giudizio”. Nel 125° capitolo del Libro dei Morti è raffigurato il giudizio a cui viene sottoposta l’anima del defunto: nell’aula del tribunale troneggia Osiride, circondato dai suoi quarantadue terribili giudici. La dea della verità, Maat, accoglie i morti; Horus e Anubis sono pronti a prendere il cuore del morto e porlo sulla bilancia per pesare la sua “leggerezza”. Innanzi ai giudici il morto recita una lunga preghiera in cui afferma di non aver commesso nessuno dei quarantadue peccati contro gli uomini e gli dèi, ma di aver vissuto della verità e di aver fatto il bene. Egli li supplica di salvarlo da una mostruosa divinità che divora i morti. L’immagine della bilancia si trova anche nell’antica religione indiana. Conformemente alla decisione scaturita dal giudizio, sia esso automatico o formale, avviene nell’aldilà la separazione dei buoni e dei malvagi: gli uni giungono in un luogo di luce e di beatitudine, gli altri in un luogo di tenebre e di tormento. Il luogo della beatitudine è il cielo in cui abita il dio creatore, oppure il mondo sotterraneo o il paese a occidente, a volte una zona particolare del regno dei morti o della città dei morti. La sede dei rifiutati si trova nel mondo sotterraneo, all’interno della terra o in uno spazio separato della città dei morti. Le più traboccanti descrizioni di questa topografia infernale, sono probabilmente quelle buddiste: sette o otto inferni bollenti e altrettanti freddi ed ognuno degli inferni maggiori ne ha altri sedici annessi; i rei che sono puniti in questi luoghi sono distribuiti in essi secondo le colpe che hanno commesso. La compensazione fra bene e male non è collocata esclusivamente nell’aldilà, ma pure col ritorno sulla terra, l’idea o dottrina del ciclo delle rinascite. Quest’idea ha avuto un molo predominante soprattutto in India, dove è stata unita all’idea che la nuova esistenza sia il risultato delle azioni compiute nella vita appena trascorsa. Si pensa che queste azioni lascino una specie d’impronta particolare nell’anima; nel sistema Samkhya troviamo l’espressione di “corpo sottile” (suksmasharira), per indicare l’involucro che racchiude l’anima durante le varie forme d’esistenza. Questo corpo sottile, un effetto del Karma (8), segue l’individuo da un’esistenza all’altra, e cosi l’anima ottiene una qualità morale che corrisponde esattamente alla somma delle azioni buone e cattive. Caratteristica delle concezioni indiane è l’idea che la rinascita si estende da un’esistenza in forma umana, attraverso il mondo animale fino al regno vegetale e al mondo celeste e infero; la reincarnazione pertanto abbraccia i culmini assoluti dell’esistenza sia buona che malvagia. Nel Buddismo in cui si nega l’esistenza di un “Io” e l’individuo è considerato solo come una configurazione di elementi che si rinnovano continuamente, non è dell’anima che si afferma la rinascita, ma del Karma di una persona. Quando un essere vivente muore, ne viene generato uno nuovo che eredita il Karma dell’altro. Analoga concezione si trova presso le popolazioni a livello etnologico. A Sumatra si venerano le tigri, come nuove forme di esistenza dei morti; si pensa pure che le anime dei morti si trasferiscano in coccodrilli e tigri che divengono oggetto di venerazione. Sia nelle isole della Melanesia sia in Africa, come del resto in molte altre regioni si trovano idee analoghe. In Melanesia, per esempio, si riscontra l’idea di una reincarnazione in forma sia umana sia animale; singolare esempio della prima di queste idee è la credenza che i bianchi siano dei morti reincarnati. In Africa è assai diffusa la credenza in una reincarnazione dei morti in animali feroci, come leoni, iene o serpenti; più rara, presso queste culture, è l’idea che il morto si trasformi in un uccello o in una pianta. Le idee sull’immortalità intesa sia come semplice prosecuzione della vita, o come compensazione etica che segue a questa non sono riuscite a soddisfare pienamente l’uomo; in lui si è sempre mantenuta viva la consapevolezza dell’affinità e somiglianza con l’Assoluto, e perciò anche il desiderio di una vita con e nell’Assoluto. Questo desiderio ci è testimoniato già dal Rig-Veda (IX, 113):
“Dove è posta la luce inestinguibile, il mondo, e in esso il sole, là ponimi, Soma nella eterna immortalità… Dove c’è il re figlio di Vivasvant, dove è la stanza solenne del cielo, dove sono le giovani acque, là rendimi immortale. Dove si può vagare a piacere, nel terzo firmamento, nel terzo cielo, dove vi sono i mondi di luce, là rendimi immortale. Dove vi sono tutti i desideri e le brame, dove c’è l’elisir di vita e la sazietà là rendimi immortale… dove abitano delizia e gioia, piacere e godimento, dove sono adempiuti i desideri del desiderio, là rendimi immortale”.
Il desiderio d’immortalità era vivo anche nel mondo semitico; nell’epopea di Gilgamesh l’eroe è alla ricerca della vita eterna. Troverà l’erba dell’immortalità, ma un malvagio demone gliela strapperà. Sia la saga israelitica sia quella greca conoscono il rapimento a una vita divina soltanto per singoli uomini, eccezionalmente dotati, come Enoch che Dio “prese” dopo che in vita aveva “camminato con Dio” (Gn. 5,24) ed Elia che nel turbine salì in cielo verso Dio (2 Re, 2,11 ss.). Gli dèi greci donano il cibo dell’immortalità, e quindi l’immortalità stessa soltanto a singoli mortali privilegiati. La mistica egiziana professava l’unione dell’uomo con il sole: l’anima ottiene di partecipare alla vita del dio sole, e viaggia con lui sulla barca del cielo nel luminoso oceano celeste e nell’oscuro cielo notturno. Fu quest’aspirazione alla vita divina che, probabilmente, indusse l’uomo a procurarsi, per via cultuale e mediante consacrazioni, la certezza dell’immortalità e di una vita beata dopo la morte. Tutte le religioni misteriche dell’antichità sono vie per l’immortalità: l’unione con le divinità che muoiono e risorgono garantisce all’uomo la vita eterna dopo la morte. Alla base dei misteri c’è la profonda intuizione che l’immortalità non è una pretesa o una conquista dell’uomo, ma un libero dono dell’amore salvifico della Divinità, il cui simbolo esteriore è il sacro rito della consacrazione. Le usanze e le credenze legate alla morte cambiano ovviamente nelle varie società, ma tali cambiamenti provocano normalmente una notevole resistenza. Questa stabilità all’interno della diversità è stata esplorata da Huntington e Metcalf (9), essi si sono rifatti a due studi classici che hanno costituito un punto fermo per la riflessione successiva. Il primo è 1 riti di passaggio (Torino 1982) di Arnold van Gennep, l’altro è quello di R. Hertz. Nella sua opera il van Gennep tratta solo in parte della morte, ma individua un paradigma costante in tutti i riti di passaggio. Il modello si fonda su una distinzione fra due categorie e tre stadi:
morte matrimonio
vivo/morto celibe/sposato
vivo>morente> morto celibe>fidanzato>sposato
Van Gennep introdusse anche l’idea di “liminarità” (dal latino limen, soglia), sviluppata in seguito da Victor Turner in La foresta dei simboli (Brescia 1976). Dei tre stadi, quello intermedio,”morente”, è il più difficile da affrontare per il vivo, per ovvie ragioni, perché, nel processo reale, non è collocabile in nessuna delle due categorie definite, per cui la fase di transizione diventa sovente indipendente e autonoma nel processo rituale. Turner riteneva che “l’autonomia del liminare” fosse applicabile non solo ai rituali funebri, ma a tutto un insieme mal assortito di fenomeni sociali, nei quali comprendeva “fenomeni apparentemente diversi quali i neofiti nella fase liminare del rituale, gli autoctoni soggiogati, le piccole nazioni, i giullari di corte, i santi mendicanti, i buoni samaritani, i movimenti millenaristici, la matrilinearità nei sistemi patri lineari, e i sistemi monastici”. Ma “l’autonomia del liminare” è particolarmente importante nei riti funerari. Van Gennep aveva già attirato l’attenzione sulla relativa non rilevanza dei riti di separazione dal corpo del defunto rispetto ai riti di transizione, o “di margine”, i quali “hanno una durata e una complessità che induce talvolta a riconoscere in essi una sorta di autonomia” (/ riti di passaggio, p 127). Robert Herz (10), si è pure occupato del riconoscimento rituale dello stadio liminare e si è concentrato sul diffuso fenomeno di società che non considerano la morte come un evento istantaneo e quindi compiono un secondo rito funerario con rituali elaborati. Il secondo rito serviva ad allontanare non solo il cadavere in decomposizione, ma anche l’anima del defunto, che nella fase di transizione era vissuta “né qui né là”, ai margini dell’insediamento umano, capace di compiere atti malvagi nonostante il suo stato di disagio, salvo che la sua ostilità e la sua invidia non fossero distratte da azioni o riti particolari. Cosi, nell’opinione di Hertz, la morte non è considerata come la distruzione totale e immediata della vita di un individuo. Le usanze funebri sono funzionali alla continuità del processo sociale, aiutando il defunto a superare il liminare, per giungere alla condizione stabile di antenato. Huntington e Metcalf hanno esteso e modificato l’intuizione basilare di Hertz. Essi attirarono in particolare l’attenzione sulla frequenza con cui nei riti funerari sono incorporate azioni dirette a negare la morte od opporsi ad essa: soprattutto i comportamenti sessuali e/o altri riti di fecondità. Ad esempio, sui Barai hanno scritto:
“Nel periodo che segue la morte viene generata un’estrema vitalità attraverso i vari eccessi della celebrazione funebre nel tentativo di controbilanciare l’ordine estremo della morte; ma questa situazione di instabilità non può persistere e le attività funebri si indirizzano verso la realizzazione del ritorno alla normalità” (Celebrazioni della morte, p. 188).
Un successivo simposio tentò di applicare questi due temi (quello dell’importanza sociale dei riti funerari e quello dell’esuberanza sessuale e dei riti di fecondità) a un insieme più ampio di società (11). Gli atti del simposio presentano tutta una gamma di credenze e di pratiche assai diverse, che agli estremi opposti sono in evidente contraddizione tra di loro. In altri termini, questi documenti mettono in discussione la possibilità stessa di trovare una chiara connessione tra la morte e l’origine della religione. Troviamo una grande varietà di usanze differenti, da quelle delle società di cacciatori-raccoglitori dell’Africa, dove il cadavere del defunto è relativamente poco importante, a quelle del culto tantrico aghori in India, dove si giunge ad un vero e proprio amplesso con il defunto, come via per superare il dualismo, e per affermare il distacco anche dalle pratiche e dalle circostanze più ripugnanti. Un altro simposio, che ha affrontato temi sia di antropologia che di archeologia, è giunto a una conclusione molto simile: le diversità sono tanto grandi che trarre delle conclusioni generali, applicabili cioè a società sulle quali mancano dati precisi, è estremamente azzardato. Il curatore degli Atti, S. C. Humpreys (12), ha tenuto a sottolineare l’affermazione di Peter Ucko secondo cui “vi sono differenze nel trattamento dei morti all’interno di tutte le culture, così come fra una cultura e l’altra”, ed è “estremamente improbabile che due società si assomiglino abbastanza fra di loro da permettere a un archeologo o a uno storico di trarre conclusioni certe da dati etnografici per colmare le lacune della nostra conoscenza delle società del passato” (p. 4). E’ evidente, dunque, che il materiale raccolto dagli antropologi non può suffragare la tesi secondo cui la coscienza umana della morte portò all’invenzione della religione, quale compensazione per la paura che tale coscienza evoca. E’ sorprendente come questa tesi, priva di un qualunque spessore scientifico, continui a essere presentata come un assunto che si può dare per scontato. L’errore fondamentale di questa tesi, non sta nell’affermazione che la religione è una “invenzione” umana. Certo che lo è, come lo è anche tutto quello che gli uomini esprimono in concetti e linguaggio. Il termine invenio ha il significato di “venire in, venire dentro”. La questione dunque, tanto per le scienze quanto per la religione e la teologia, è la natura del terreno di realtà in cui gli uomini “vengono dentro” e che esplorano attraverso le loro molte e diverse invenzioni; tenendo conto che le spiegazioni umane di qualunque cosa (a parte quelle di estrema banalità) sono approssimative, correggibili, provvisorie e spesso sbagliate. Tuttavia, nel caso di spiegazioni tanto a lungo e profondamente vagliate come quelle delle scienze naturali o della religione (per quanto applicate a soggetti e fini differenti) si è raggiunta una notevole attendibilità. L’errore delle spiegazioni secolari e riduzioniste, che considerano la paura della morte la causa della nascita della religione, sta innanzi tutto nell’assunto che le spiegazioni religiose non hanno alcuna attendibilità, tenendo anche conto del fatto che le descrizioni di ciò che s’incontra nel campo religioso sono approssimative e correggibili. Il secondo errore sta nell’assunto che i concetti e le spiegazioni della nostra cultura sono in qualche modo esenti da un qualsiasi processo di revisione e correzione, e che forniscono un criterio inoppugnabile in base a cui giudicare -in modo imparziale e corretto – il valore di altre e più antiche spiegazioni dell’esperienza umana. Sono implicati anche altri errori (incluso quello genetico), ma i primi due sono sufficienti da soli a rendere evidente l’assoluta inconsistenza di alcune delle più diffuse spiegazioni secolari del rapporto causale tra morte e religione: dal momento che sanno a priori come devono stare le cose, passano alle prove e trovano quello che cercano. Dato che sanno che nulla sopravvive alla morte, ne segue che le credenze contrarie vanno spiegate in modo diverso.
Il risultato è che queste spiegazioni secolari del rapporto tra religioni e morte, in particolare quando si riferiscono all’antichità, interpretano in modo disinvolto e, a volte, completamente erroneo ciò che le testimonianze pervenuteci mostrano, con estrema chiarezza, non appena giungiamo a riflessioni scritte sul significato della morte; scavalcando questo tipo di confronto e controllo, le interpretazioni si riducono a delle mere congetture. Nella storia delle religioni le fonti più antiche a cui abbiamo accesso, in Oriente come in Occidente, mostrano chiaramente che la religione non ebbe origine dal bisogno di una vita a cui aspirare dopo la morte. E’ altrettanto chiaro che uno studioso come il Frazer (13) si sbagliava profondamente quando cercava di situare l’origine della religione nell’ignoranza superstiziosa degli uomini primitivi. L’esplorazione religiosa della morte è molto più profonda e interessante di come Frazer la presenta, in quanto è, fondamentalmente, un’affermazione del valore della vita e delle relazioni umane che non nega il fatto indiscusso e la realtà della morte, ma non è da questa neppure invalidata. Contrariamente all’opinione più comunemente diffusa sulle origini della religione, per la quale le religioni derivano il proprio potere originario e fondamentale sulle vite umane dall’abilità con cui sanno “vendere” la vita ultraterrena, non possiamo fare a meno di riconoscere come le più antiche speculazioni religiose sulla morte erano prevalentemente focalizzate sulla disgregazione e il disordine prodotti dalla morte, e sui mezzi per mantenere l’ordine di fronte al caos, alla malvagità e alla deliberata volontà di male. Il mito nordico del Ragnarök, analogamente a quello del Kaliyuga e a molti altri miti, drammatizza il vero problema delle affermazioni religiose di valore: come può tale valore (comunque identificato) essere difeso di fronte al maligno avversario, di cui la tenebra della morte e della tomba sono semplicemente un’epitome? Di là dalle generalizzazioni, tutto sommato, semplicistiche di chi si ispira a Marx o a Freud, c’è un argoménto più serio che va esplorato: la capacità umana di conquistare il mondo intero e di perdere la propria anima; il riconoscimento che la vita cede alla vita, la parte alla parte, e che il raggiungimento del tutto, quali che siano le forme di vita, su un atollo o in una città moderna, sembrano richiedere un sacrificio che pochi tra coloro che compongono la scena sono ansiosi di accettare, ma che alcuni nondimeno accettano, rendendo così la propria morte un sacrificio per il bene degli altri. Ed è proprio il plesso di idee e concezioni coagulatisi nel sacrificio a costituire la categoria più antica attraverso la quale le religioni esplorano la natura e il significato della morte. E1 il tema della vita che cede non semplicemente alla vita, ma per la vita, per consentirne e la possibilità e la trasformazione, il tema del sacrificio, attraverso cui le religioni hanno esplorato la natura del disordine e della morte, è assai più antico e diffuso di quello della ricerca di una compensazione o di una vita a cui aspirare dopo la morte. E’ l’esplorazione religiosa della morte che ci porta, inoltre, a una più acuta e salda consapevolezza del male. Ne segue che il riflettere sulla morte, è un riflettere che non rimane confinato esclusivamente nella sfera intima dell’esistenza umana, ma che si proietta nell’agire umano sia in campo morale sia estetico, politico e religioso.
Note:
1) O. Tommasini (cur.), Diario della città di Roma di Stefano Infessura, Roma 1890, pp. 178-80, cit. in J. Buckhardt, La Civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1942, pp. 215-6.
2) G,Simmel, Lebenschauung. Vier Metaphysische Kapitel, München-Leipzig 1918; P. L. Landsberg, Die Erfahrung des Todes, Luzern 1937; E. Morin, L’homme et la mort dans l’histoire, Paris 1951; J. Choron, La morte nel pensiero occidentale, Bari 1971; J. Wilson, The After- Death Experience, London 1987.
3) A. Camus, Le mythe de Sisyphe, Paris 1942, p.
4) Cfr. B. Broussol et al., La mort et l’homme du XXe siecle, Paris Ì965; W. Fuchs, Le immagini della morte nella società moderna, Torino 1973.
5) S. Lemaitre, Le mystère de la mort dans les religions d’Asie, Paris 1943; F. Bar, Les routes de l’autre monde, Paris 1946; G. F. Brandon, The Personification of the Death in some Ancient Religions, in BJRL 43 (1961, pp. 217-335; id., The Judgment of the dead. An historical and comparative study on the idea of post¬mortem judgment in the major religions, London 1967; F. Reynolds – F. E. Waugh, Religious Encounters with Death: Insights from the History of Anthropology of Death, Pennsylvania State University Press 1987.
6) La discesa di Ishtar agli Inferi; trad, in J. Bottero c S. N. Kramer, Uomini e dèi della Mesopotamia, Torino 1992, p. 335.
7) Cfr. B. C. Dietrich, Death, Fate and the Gods. The Development of a Religious Idea in Greek Popular Belief and in Homer, London 1965.
8) Cfr. W. D. O’ Flaherty (cur.), Karma and Rebirth in Classical Indian tradition, Berkeley 1980.
9) R. Huntington e P. Metcalf, Celebrazioni della morte. Antropologia dei riti funebri, Bologna 1985.
10) R. Hertz, Contribution à une étude sur la représentation collective de la mort, in Année Sociologique, 10 (1905-1906), pp. 121 ss.
11) M. Bloch e J. Parry (cui.), Death and the Regeneration of Life, Cambridge 1982.
12) S. C. Humpreys e H. King (cur.), Mortality and Immortality: The Anthropology and the Archaeology of Death, London 1981.
13) J. G. Frazer, The Belief in the Immortality of the Soul and the worship of the Dead, London 1933, tr. it, Verona 1959.
Marco Pucciarini
è docente di Storia delle Religioni nel biennio di specializzazione dell’Istituto Teologico di Assisi (ente aggregato alla Pontificia Università Lateranense di Roma) e all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Assisi (Pontificia Università Lateranense); ha insegnato Storia delle Religioni presso l’Università degli Studi di Perugia dove ha diretto varie tesi di laurea. Ha curato, in collaborazione con il Museo della Letteratura romena di Bucarest, la Mostra bio-bibliografica dedicata a Mircea Eliade (Assisi, 1997); ha diretto la ricerca sui nuovi movimenti religiosi: £ ’Arcobaleno del Sacro in Umbria (2003). È autore del volume La morte e il morire nel mondo antico. Idee sulla sopravvivenza e i destini dell’uomo nello Antico Oriente. Con un’Appendice sul Sacrificio (1997). I suoi interessi di ricerca vanno dalle religioni del1’Italia pre-romana (vedi, Riti, sacrifici e dèi nelle Tavole Iguvine (1997), alle religioni dell’India (v., Atman e non-atman nell’insegnamento del Buddha (2016), La Yogatattva Upanishad e l’Atmabodha di Shankara (2009), ai testi della mistica ebraica (v., Il Sefer Yetzirah. Note di Lettura (2007), alle problematiche delle nuove forme del sacro (v., New Age.‘ Ambigua metamorfosi del sacro o paradosso della profanità? (2000), all’esoterismo (v., Comprendere 1’esoterismo come tipologia storico-religiosa (2012), alla metodologia della ricerca storico-religiosa (v., Ripensare il «Politeismo» (2011). E membro della Società italiana di Storia delle Religioni e partecipa a varie iniziative per il Dialogo interreligioso. Suoi ulteriori contributi si possono vedere a
http://unipg.academia.edu/marcopucciarini.