La mitologia dell’albero rovesciato tra Platone e l’India – Rosa Ronzitti
Per come si configura nelle tradizioni antiche, la trasmissione della protolingua indoeuropea, mentre si ramificava nelle varietà monoglottiche, era accompagnata dalla trasmissione di un bagaglio sapienziale che verosimilmente toccava tutti campi del sapere. Esso non era diffuso a chiunque, bensì dispensato attraverso circoli familiari oppure attuato per cooptazione di membri esterni: brāhmaṇi in India, magi in Iran, filosofi in Grecia, collegi sacerdotali a Roma, bardi e vati nel mondo celtico, scaldi e sacerdoti nel mondo germanico erano deputati alla custodia del patrimonio culturale. A mano a mano che i testi lasciati da queste tradizioni (le ultime due attraverso il filtro del Cristianesimo) sono stati studiati in chiave comparativa, è apparso chiaro che il materiale preistorico non comprendeva solo formule poetiche, ma arrivava a coprire tutte le espressioni del pensiero, tra le quali la speculazione filosofica. In Platone gli insegnamenti tradizionali emergono sotto forma di miti in molti punti dei dialoghi. Il pensiero delle Upaniṣad vediche (le più antiche) presenta con quello platonico molte affinità di fondo:
dottrina dell’immortalità dell’anima
dottrina della metempsicosi
statuto illusorio della realtà
negatività della materia.
Non solo tali assunti occorrono in entrambe le tradizioni, ma anche il modo in cui vengono illustrati segue un medesimo schema espositivo:
dialogo introduttivo tra maestro e allievo
narrazione di parabole all’allievo
decodificazione delle parabole da parte del maestro.
Ci sembra, in particolare, di poter affermare che gli insegnamenti celati nelle parabole costituissero un corpus didascalico abbastanza compatto, se è vero che alcuni di essi si trovano quasi identici sia in Platone sia nelle Upaniṣad vediche, dalle quali “percolano” in una parte del Mahābhārata nota come il colloquio del brāhmaṇo Vidura a Dhr̥tarāṣṭra, il re cieco suo fratellastro. Dhr̥tarāṣṭra, nel ruolo di allievo, pende dalle labbra del sapiente per ricavare un senso dalla sua disastrosa esperienza di guerra e morte. Si tratta dei capitoli 4-7 del libro XI (Strīparva), in cui si trovano consecutivamente tre immagini, già upaniṣadiche, utilizzate da Platone in tre dialoghi diversi:
la cisterna dell’ignoranza
l’albero rovesciato
il cocchio dell’anima/corpo trainato dai cavalli.
Le quali sono confrontabili rispettivamente con:
la caverna (Repubblica)
l’uomo-albero capovolto (Timeo)
il cocchio dell’anima trainato dai cavalli (Fedro) (1).
Il simbolismo dell’albero rovesciato è stato oggetto di analisi approfondite sin dalla seconda metà dell’Ottocento. Detto simbolismo, abbastanza diffuso in varie culture del mondo, ha natura cosmica e vitalistica (2). In India l’albero cosmico viene chiamato Aśvattha (probabilmente il fico strangolatore ovvero Ficus Religiosa) e Nyagrodha (il baniano ovvero Ficus Indica). Il R̥gveda vi alluderebbe per la prima volta in un versetto dedicato al dio Varuṇa (I 24 7):
abudhné rā́jā váruṇo vánasya
ūrdhváṃ stū́paṃ dadate pūtádakṣaḥ/
nīcī́nā sthur upári budhná eṣām
asmé antár níhitāḥ ketávaḥ syuḥ//
‘Nello spazio senza fondo Varuṇa dal puro intendimento
tiene rivolto verso l’alto il ciuffo (radicale) dell’albero;
all’ingiù si protendono [i suoi rami], in alto è la base di questi;
che i suoi raggi scendano dentro di noi!’.
Essendo Varuna una personificazione della volta celeste, si può dedurre che l’albero (qui probabilmente il Nyagrodha) (3) è fissato nel dio stesso e pende dal cielo. Nel passo compare il termine stū́pa-, che è stato prevalentemente inteso come ‘chioma’; tuttavia, tale traduzione ha poco senso, poiché, se l’albero ha i rami verso il basso (nīcī́nāḥ), lo ūrdhváṃ stū́pam indica piuttosto il pane di radici. Come infatti presto vedremo, nelle figurazioni dell’albero rovesciato l’aggettivo spaziale ūrdhvá– (gr. ὀρθός) è sempre associato a mū́la– ‘radice’ e il ricorrente composto ūrdhvamūla- significa ‘con le radici rivolte verso l’alto’. Abbastanza interessante è osservare che stū́pa- diverrà un termine cardine dell’architettura indiana, indicando il ‘tumulo’ da cui si sviluppa il tempio buddhista, mentre in sanscrito classico si riferisce spesso al viluppo dei capelli annodati sopra la testa: la corrispondenza tra radici e capelli è presupposta da Platone nel Timeo allorché egli paragona l’uomo a una pianta capovolta (vd. infra).
Da questo primo accenno r̥gvedico, emerge già il simbolismo fondante dell’immagine: l’albero rovesciato significa il principio cosmico del quale l’uomo vede solo la parte manifesta, laddove la parte nutritiva, essenziale, sta invece nascosta e invisibile. Dai rami protesi verso il basso scendono fra gli uomini i raggi del divino: questa, che sembra ancora nel R̥gveda una figurazione mitologica, si appresta a diventare nel Vedānta fonte di inesauribile riflessione filosofica. Si esàminino, sistemati nell’ordine cronologico approssimativo e tentativo proprio delle opere indiane, i passi che sviluppano ulteriormente il concetto:
Taittīrya Āraṇyaka I 11 5:
ūrdhvamūlam avākchākhaṃ/ vr̥kṣaṃ yo veda samprati/
na sa jātu canaḥ śraddhyat/ mr̥tyum ā mārayād iti//
‘Colui che conosce nel giusto modo l’albero con le radici in alto e i rami in basso,
questa persona non crederà affatto che la morte possa ucciderla’.
Nella Kāṭha Upaniṣad l’insegnamento è iniziatico: fa parte della sapienza che il dio Yama impartisce al principe Naciketas, desideroso di conoscere il destino dell’anima dopo la morte (4).
Kāṭha Upaniṣad II 3 1
ūrdhvamūlo ʼvākśākha eṣo ʼśvatthaḥ sanātanaḥ/
tad eva śukraṃ tad brahma tad evām r̥tam ucyate/
tasmim̐l lokāḥ śritāḥ sarve tad u nātyeti kaścana/
etad vai tat//
‘Con le radici in alto e i rami in basso, tale è l’eterno Aśvattha
Davvero ciò è la luce, ciò è il Brahman; davvero ciò è detto R̥ta (l’Ordine).
Su di esso si fondano tutti i mondi e nessuno può andare al di là.
Invero esso è il tat’.
E così si esprime la Maitrī Upaniṣad (VI 4):
hyāhordhvamūlaṃ tripādbrahma śākhā ākāśa vāyvagnyudakabhūmyādaya
eko ’svatthanāmaitadbrahmaitasyaitattejo yadasā āditya omityedakṣarasya
‘Il supremo Brahman con i suoi tre piedi ha le sue radici rivolte verso il cielo;
i suoi rami sono l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua, la terra e il resto.
Questo Brahman si chiama ‘Uno’, ‘Aśvattha’
e il suo splendore è sole lassù e quello stesso della sillaba Om’.
Dunque l’Aśvattha, è il Brahman. Provvisto in alto di una parte nascosta – invisibile ma raggiungibile attraverso una retta visione – si estroflette verso il basso in manifestazioni visibili (i 5 elementi). Alcuni suoi tratti appartengono all’uomo cosmico, al grande Puruṣa di RV X 90, che può vantarsi per tre quarti immateriale (tripā́d asyāmŕ̥taṃ diví) ed è triplice e ritto (tripā́d ūrdhvá) come il Brahman-albero del Vedānta. L’identificazione Puruṣa-albero-Brahman si dà infatti esplicita nella Śvetāśvara Upaniṣad (III 8-9):
vedāham etaṃ puruṣaṃ mahāntam ādityavarṇaṃ tamasaḥ parastāt /
tam eva viditvāti mr̥tyum eti nānyaḥ panthā vidyate ’yanāya//
yasmāt paraṃ nāparam asti kiñcid yasmān nāṇīyo na jyāyo ’sti kaścit/
vr̥kṣeva stabdho divi tiṣṭhat’ ekas tenedaṃ pūrṇaṃ puruṣeṇa sarvam//
‘Vedo questo grande Puruṣa, rifulgente come il sole al di là delle tenebre.
Chi lo conosce trascende la morte, nessun’altra via è trovata per andare [da lui].
Del quale non vi è nulla di superiore o inferiore; del quale nulla che sia maggiore o minore.
Fisso come un albero sta in cielo, unico; tutto ciò è pieno di questo Puruṣa’.
Conoscere il Brahman permette di ricongiungersi con esso, di non temere la morte, di accedere al mondo immanifesto. Eppure, non è questa la situazione cui sembra alludere Vidura, il sapiente, nella notissima parabola della cisterna raccontata al fratellastro Dhr̥tarāṣṭra nell’undicesimo libro del Mahābhārata, nella quale il simbolismo dell’albero rovesciato ritorna in modo nascosto, quasi déguisé: il Puruṣa-Brahman arboreo diventa in questo testo un uomo di casta sacerdotale (uno dvija) appeso a testa in giù in un pozzo buio, trattenuto da un albero-trappola, gabbia di liane invischianti che distilla a getto continuo il miele dello stordimento; i segnali linguistici di identità fra la tradizione upaniṣadica e la parabola epica nascondono una difformità totale di contenuto:
MBh XI 5 11-12
papāta sa dvijas tatra nigūḍhe salilāśaye/
vilagnaś cābhavat tasmim̐l latā saṃtānasaṃkaṭe
panasasya yathā jātaṃ vr̥nta baddhaṃ mahāphalam/
sa tathā lambate tatra ūrdhvapādo hy adhaḥśirāḥ
‘Lì cadde lo dvija, nel nascosto giacimento dell’acqua,
e rimase impigliato in quel denso intrico delle liane.
Come il grande frutto dell’albero del pane legato al picciolo
così egli pende là, con i piedi verso l’alto e la testa verso il basso’.
I due composti possessivi ūrdhvapādo hy adhaḥśirāḥ equivalgono a ūrdhvamūlam avākchākhaṃ, secondo il parallelismo radice = piede, tronco = corpo, fronde = testa, con la differenza che qui il piede non configge l’uomo in cielo, ma lo trattiene invece nella materia, che all’inizio del brano è chiamata vanam ‘selva-materia-desiderio’ (vera ὕλη platonica) e anche saṃsāragahanam ‘abisso del vortice delle esistenze’. La novità appare dirompente. Vidura sta utilizzando un’immagine della tradizione invertendone il significato. Ciò trova riscontro in un altro punto dello stesso poema: il passo della Bhagavadgītā in cui Krṣṇa, in veste di auriga, impartisce all’allievo Arjuna una lezione di profonda sapienza (MBh VI 37[15] 1-5):
{Śrī Bʰagavān uvāca}
ūrdhvamūlam adhaḥśākham aśvatthaṃ prāhur avyayam/
chandāṃsi yasya parṇāni yas taṃ veda sa vedavit //
adhaś cordhvaṃ prasr̥tās tasya śākhā guṇapravr̥ddhā viṣayapravālāḥ/
adhaś ca mūlāny anusaṃtatāni karmānubandhīni manuṣyaloke//
na rūpam asyeha tathopalabhyate nānto na cādir na ca saṃpratiṣṭhā/
aśvattham enaṃ suvirūḍhamūlam asaṅgaśastreṇa dr̥ḍhena chittvā//
tataḥ padaṃ tat parimārgitavyaṃ yasmin gatā na nivartanti bhūyaḥ/
tam eva cādyaṃ puruṣaṃ prapadye yataḥ pravr̥ttiḥ prasr̥tā purāṇī//
nirmānamohā jitasaṅgadoṣā adhyātmanityā vinivṛttakāmāḥ
dvandvair vimuktāḥ sukhaduḥkhasaṃjñair gacchanty amūḍhāḥ padam avyayaṃ tat//
‘Il Signore disse:
Dicono che esiste un immutabile Aśvattha, le cui radici si dirigono verso l’alto e le cui fronde cadono verso il basso:
gli inni metrici dei Veda sono le sue foglie, e colui che lo conosce è un conoscitore dei Veda.
I suoi rami si estendono dall’alto verso il basso e sono resi lussureggianti dai guṇa,
i suoi germogli sono gli oggetti attraenti e sensibili ai sensi, le sue radici si allungano nel mondo degli uomini legate frutti delle azioni.
Di questo non si può percepire alcuna forma né la fine, né l’inizio, né la base;
taglia via questo Aśvattha così ben radicato con l’ascia salda del distacco.
Bisogna quindi cercare quel luogo dal quale nessuno torna
[e poi affermare]: “Io ora prendo rifugio in questo primordiale Signore, dal quale è emanato l’impulso creatore”.
Privi di orgoglio e di smarrimento, liberi dall’attaccamento, immersi nel Sé, acquietati i desideri,
liberi dalla dualità di gioia e dolore, costoro raggiungono, non fuorviati, il luogo inalterabile’.
L’interpretazione del brano, giustamente famoso per la sua bellezza e profondità filosofica, ha creato non pochi problemi (5): Kr̥ṣṇa sta esponendo ad Arjuna un insegnamento che passa bruscamente dalla figuralità positiva della prima parte ‒ l’albero rovesciato è il Veda ‒ all’invito distruttivo della seconda: siffatto albero, che pure rappresenta la parola sacra, va estirpato. Mettendo le parole del dio a confronto con quelle di Vidura, troviamo una consonanza che il supremo commentatore advaita Śaṅkara (VII-VIII sec. d.C.) intendeva nel modo seguente: l’Aśvattha sarebbe simbolo del saṃsāra e quindi parte manifesta e inferiore del Brahman; per questo, sebbene rappresenti il Veda, deve essere infine tagliato con l’ascia del distacco/indifferenza. È una visione estrema e spregiudicata, che arriva a includere persino gli inni vedici nel novero del sensibile, ovvero: la tradizione rinnega se stessa per attingere a un assoluto privo di ogni determinazione. Due etimologie sincroniche guidano Śaṅkara a tale esegesi: la prima collega i versi-foglie (chandāṃsi … parṇāni) alla radice chad- ‘nascondere’; la seconda riconduce vr̥kṣa– ‘albero’ a vraśc– ‘tagliare’. La lingua stessa, in quanto realtà ontologicamente fondata, rivela quindi che i versi vedici sono ‘ombre, copertura’ del reale e che l’albero è ‘colui che va reciso’ per il superamento della dualità (6).
Se ora passiamo al versante greco, non possiamo non osservare quanto di tale pensiero sia paragonabile alla filosofia platonica. Si sa che la caverna di Platone rappresenta, come la cisterna di Vidura, il regno dell’ignoranza dove l’uomo sta immerso, legato e costretto a guardare solo in avanti, ovvero verso ombre proiettate sulla parete più fonda dell’antro (quest’uomo, direbbe la Maitry Upaniṣad, è ‘come una rana in uno stagno buio nel vortice dell’esistere’) (7). Il tutto è uno spettacolo mosso da misteriosi burattinai (θαυματοποιοί), da paragonarsi al dio-illusionista che fa giochi di prestigio nella Śvetāśvatara Upaniṣad (IV 9bc-10):
asmān māyī sr̥jate viśvam etat tasmiṃś cānyo māyayā saṃniruddhaḥ//
māyāṃ tu prakr̥tiṃ vidyān māyinaṃ tu maheśvaraṃ
tasyāvayavabhūtais tu vyāptaṃ sarvam idaṃ jagat//
‘Da questo [insieme rituale] l’illusionista (māyī) crea tutto ciò;
in questo [mondo] l’altro (scil. l’uomo) è catturato dall’illusione (māyā).
Si riconosca la natura come illusione, si riconosca il grande signore come illusionista!
Tutto questo mondo è penetrato di esseri che sono particelle di lui!’.
Poco prima, nella stessa Upaniṣad (IV 7ab), era stato detto che:
samāne vr̥kṣe puruṣo nimagno ʼnīśayā śocati muhyamānaḥ
‘Dentro lo stesso albero è immerso l’uomo e soffre per la sua impotenza, confuso’.
Quindi l’uomo vive muhyamānaḥ ‘confuso’, ovvero avvolto dal fumo (muh– è corradicale dell’inglese smoke) (8) e coperto dal velo di māyā ‘illusione’ creata dal dio ‘prestigiatore’ (māyin-): ci sembrano, questi, termini molto vicini alle ombre (σκιαί) e alla tenebra (σκότος) che regnano nella caverna di Platone. Anche in MBh XI 5 l’uomo, pur appeso per il piede sulla cisterna in posizione scomoda e innaturale, appare stordito da un liquido dolce che gocciola dalle foglie dell’albero :
tasya cāpi praśākhāsu vr̥kṣaśākhāvalambinaḥ/
nānārūpā madhukarā ghorarūpā bhayāvahāḥ
āsate madhu saṃbhr̥tya pūrvam eva niketajāḥ /15/
bhūyo bhūyaḥ samīhante madhūni bharatarṣabha
svādanīyāni bhūtānāṃ na yair bālo ’pi tr̥pyate /16/
teṣāṃ madhūnāṃ bahudhā dhārā prasravate sadā/
tāṃ lambamānaḥ sa pumān dhārāṃ pibati sarvadā
na cāsya tr̥ṣṇā viratā pibamānasya saṃkaṭe /17/
abhīpsati ca tāṃ nityam atr̥ptaḥ sa punaḥ punaḥ
na cāsya jīvite rājan nirvedaḥ samajāyata /18/
‘E tra le fronde di questo, appese ai rami dell’albero,
in varie forme fabbricatrici di miele dall’aspetto terribile, veicolo di terrore,
nate in precedenza dall’alveare, continuano a portare miele.
Di continuo si affaticano ai mieli, o toro dei Bharata,
(mieli) dal dolce sapore per gli esseri viventi, grazie ai quali lo stolto non prova sete.
Di tali mieli il flusso scorre di continuo, in molti modi.
Pendendo, quell’uomo capta il flusso senza interruzione,
né si placa la sete di lui che beve in quello stretto passaggio
Ancora e ancora insaziato, desidera berne in eterno,
né, o re, sorge in lui il disgusto per la vita’.
La sapienza indiana individua un punto cruciale nel percorso esistenziale e psicologico dell’uomo: se gli viene fornito in continuazione un cibo dolce e stordente, che però lo lasci ‘insaziato’ (atr̥ptaḥ), e lo spinga a chiederne ancora, ebbene, l’uomo dimentica tutto. La posizione disagevole, lo stretto passaggio, l’orrore dell’esistenza non esistono più di fronte alla somministrazione maligna di quelle api orribili (madhukarā ghorarūpāḥ), non certo le api industriose ed esemplari della mitologia classica, bensì api ingannatrici che impediscono il sorgere del disgusto e dunque il risveglio, la conoscenza e il rifiuto del mondo sensibile. Non solo tutto il brano insiste sull’idea del desiderio insaziato e quindi della somministrazione perpetua del miele, ma esso coglie anche l’aspetto dispersivo e inautentico della realtà apparente: bahudhā ‘in molti modi’ (cioè ‘sotto le più varie apparenze’ = gr. πολλαχῶς) è avverbio usato per esprimere la molteplicità dell’essere, il suo dividersi in forme differenziate, deviate e quindi lontane dalla loro scaturigine.
Platone presenta il tema indiano dell’albero rovesciato in rapporto alla postura dell’uomo e all’isomorfismo della pianta con le parti del corpo in Timeo 90a-b:
τὸ δὲ δὴ περὶ τοῦ κυριωτάτου παρ’ ἡμῖν ψυχῆς εἴδους διανοεῖσθαι δεῖ τῇδε, ὡς ἄρα αὐτὸ δαίμονα θεὸς ἑκάστῳ δέδωκεν, τοῦτο ὃ δή φαμεν οἰκεῖν μὲν ἡμῶν ἐπ’ ἄκρῳ τῷ σώματι, πρὸς δὲ τὴν ἐν οὐρανῷ συγγένειαν ἀπὸ γῆς ἡμᾶς αἴρειν ὡς ὄντας φυτὸν οὐκ ἔγγειον ἀλλὰ οὐράνιον, ὀρθότατα λέγοντες· ἐκεῖθεν γάρ, ὅθεν ἡ πρώτη τῆς ψυχῆς γένεσις ἔφυ, τὸ θεῖον τὴν κεφαλὴν καὶ ῥίζαν ἡμῶν ἀνακρεμαννὺν ὀρθοῖ πᾶν τὸ σῶμα.
‘Per quanto concerne la parte dell’anima che in noi è la più importante, bisogna rendersi conto che il Dio l’ha data a ciascuno come un dèmone. È questa la forma di anima che abita – diciamo – nella parte superiore del nostro corpo, e che ci solleva al di sopra della terra per la sua affinità con il cielo; noi siamo, infatti, piante non già terrestri ma celesti. E quanto diciamo è corretto. Perché da quel luogo, da cui fu la prima origine dell’anima, il Dio tiene sospesa la nostra testa, ovvero la nostra radice, e così mantiene eretto tutto il corpo’.
Lo schema corporeo non è quello dell’uomo rovesciato, bensì quello della pianta rovesciata. In altre parole, pianta e uomo coincidono in quanto l’uomo ha la testa verso l’alto e la testa corrisponde alla radice. La terminologia trova ampio raffronto con quella sanscrita. Il dio che ὀρθοῖ πᾶν τὸ σῶμα, sembra il Varuṇa vedico che ūrdhváṃ stū́paṃ dadate ‘pone la chioma (ovvero le radici) rivolta verso l’alto’ (ὀρθοῖ e ūrdhvám sono corradicali). Sarebbe forse il caso di risollevare la vexata quaestio della corrispondenza tra il nome del dio indiano Varuṇa e il nome greco del cielo, οὐρανός (9): infatti il dio di Platone è decisamente uranio (ἐν οὐρανῷ e φυτὸν … οὐράνιον), un Varuṇa ellenico che tiene l’uomo ‘sospeso’ (ἀνακρεμαννύν) alla volta celeste. Il verbo ἀνακρεμάννυμαι non ha tuttavia le connotazioni negative del lambate che Vidura usa per l’uomo nella cisterna; piuttosto è da intendersi nel senso di Śvetāśvara Upaniṣad III 9: vr̥kṣeva stabdho divi tiṣṭhat’ ‘come albero sta fisso in cielo’, in cui la sospensione nel cielo rappresenta un radicamento, una sicurezza, mentre quella nella cisterna è poco più che un tenersi aggrappati a un appiglio per non cadere in fondo all’abisso, dove un drago aspetta di divorare la vittima.
Il filosofo ateniese sta dicendo che la parte divina dell’anima occupa la posizione più alta nel corpo: gli esseri inferiori, ovvero gli animali pedestri e selvaggi, sono caratterizzati dal fatto di stare a contatto con il suolo (91e) e il loro incurvarsi verso il basso è compensato da un numero maggiore di piedi. Quando l’attrazione al suolo si fa massima, si ottengono creature senza piedi e striscianti (92a). Si sa che la cultura greca attribuisce al bipedismo e alla posizione eretta somma considerazione: il tema sarà ampiamente sviluppato da Aristotele nel De partibus animalium (IV 10 685b29-687a) nell’idea che la pianta, pur eretta, è tuttavia un uomo capovolto (10), con le funzioni nutritive poste in basso e le capacità generative in alto:
ῥίζαι = στόμα, κεφαλή
σπέρμα = σκέλη.
Con Aristotele, tuttavia, i modelli argomentativi sono di tipo logico e classificatorio e la filosofia greca entra in una fase effettivamente diversa. Il discorso filosofico non è più organizzato secondo lo schema parabola-spiegazione e secondo il dialogo maestro-allievo, mentre viene privilegiata una modalità espositiva che non ricorre al mito e si rivolge a un pubblico esterno, agli allievi che effettivamente ascoltano la lezione.
Una rilettura mirata dei dialoghi platonici, mettendo in evidenza una quantità sempre maggiore di materiale comparabile con le Upaniṣad, potrebbe rivelare formule, espressioni e indizi dai quali eventualmente trapelasse la consapevolezza che Platone, nel momento in cui racconta i suoi miti filosofici, non ne è inventore, ma rielaboratore-trasmettitore, ovvero l’anello di una catena sapienziale indoeuropea che si è formata anteriormente all’etnogenesi dei popoli ellenici.
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von Schroeder L. 1916, Lebensbaum und Lebenstraum, Aufsätze zur Kultur- und Sprachgeschichte vornehmlich des Orients. Ernst Kuhn zum 70. Geburtstage am 7. Februar 1916 gewidmet von Freunden und Schülern, Breslau: Verlag von M. & H. Marcus.
Note:
(1) Si noti tuttavia che nel Fedro il cocchio è composto da parti dell’anima, mentre nelle Upaniṣad rappresenta il corpo (śarira-) guidato dall’intelletto (buddhi-) attraverso la briglia della ragione (manas-). Sull’argomento si veda ora Magnone 2016.
(2) Si vedano Kuhn 1888, von Schroeder 1916, Jacoby 1928, Kagarow 1929, Coomaraswamy 1938, Emenaeau 1949, Viennot 1954, Kuiper 1983, Bosch 2017, 85-123, Pinchard 2017.
(3)L’identificazione è proposta da Bosch 2017, p. 92: nyagrodha- significa per l’appunto ‘che cresce’ (rudh-) verso il basso (nyag-).
(4) Si veda l’importante studio di Haudry 2010.
(5) Si veda il fondamentale Arapura 1975 per una discussione critica.
(6) L’etimologia vraśc– ‘tagliare’ e vr̥kṣá– ‘albero’ è antica e si trova nel trattato linguistico Nirukta di Yāska II 6.
(7) Cfr. MaiUp I 4: andhodapānastho bheka iva ‘come rana in stagno buio’, laddove andha-, che significa letteralmente ‘cieco’, è detto per esempio di uno specchio opaco o di una pupilla che non riceve la luce (cfr. Hara 2006). Ad accrescere il “platonismo” dell’immagine indiana concorre il fatto che andha- potrebbe essere corradicale di umbra (per la cui etimologia si veda ora Neri 2017). In sanscrito il composto udapānamaṇḍūka- ‘rana nel pozzo’ indica ‘a narrow-minded man who knows only his own neighbourhood’ (cfr. Monier-Williams 1899, p. 183).
(8)Cfr. Ronzitti 2011, p. 81 ss.
(9) Dumézil 1934 sostiene un’equivalenza funzionale, se non etimologica, tra le due divinità: la questione rimane comunque a tutt’oggi molto dibattuta.
(10) Cfr. Repici 2000, p. 19 con approfondito esame del modello botanico nel pensiero greco antico.
Rosa Ronzitti, glottologa e linguista dell’Università di Genova