La Misteriosofia di Roma: tra “Alètheia” e Volontà di Potenza – Umberto Bianchi
Nell’affrontare il tema delle origini di una determinata civiltà e del suo ulteriore sviluppo, si è , troppo spesso, tentati di affrontare il problema sostanzialmente sotto due profili. Il primo meramente storicistico, riguardante gli aspetti unicamente socio-antropologici della questione, appropriato all’epoca di arido materialismo scientista, nella quale viviamo. Il secondo, invece, esclusivamente concentrato su quei motivi mitopoietici, che ne costituiscono l’intelaiatura metastorica e, più che altro, da sempre appannaggio di determinati ambienti o circoli, caratterizzati da un’ottica fideistica. In ambedue i casi, però, le due impostazioni tradiscono un vizio di fondo, che è quello di non riuscire, comunque sia, a conferire un senso compiuto alla vicenda riguardante le origini di una determinata civiltà.
A dispetto del ruolo marginale e settoriale, nel quale è stata relegata, la filosofia può invece, fornire un più che valido contributo alla “vexata quaestio”. Un testo sopra tutti, il “Parmenide” di Martin Heidegger, ha stimolato la riflessione di chi scrive, proprio in questo senso. Heidegger parte dall’etimo del termine greco “alètheia/verità”, per dirci che essa è coniugata nel senso di “disvelamento” di quell’Essere, successivamente in grado di dar senso e significato all’Ente concreto. “Alètheia” viene da “a-lethe/non-dimenticanza/nascondimento”, ovverosia il fuoruscire dell’Essere da quella primeva condizione di ascosità per manifestarsi, in tutta la sua pienezza, agli occhi dell’uomo, a suo dire, unico vero essere in grado di aprirsi totalmente alla manifestazione di quest’ultimo. Per Heidegger, il senso ultimo della civiltà ellenica, è pienamente rappresentato dall’interpretazione che questa conferisce al termine “alètheia”, qui intesa quindi, quale completo disvelarsi dell’Essere delle cose all’uomo, che ne viene passivamente investito, in un mutuo concedersi. L’Essere nel suo manifestarsi e l’uomo nel suo accogliere, “farsi radura” per la manifestazione di quest’ultimo, costituiscono una sorta di equilibrio, invece violato dalla interpretazione che i Romani danno di questo termine, da loro tradotto come “veritas”, qui intesa nel senso di “affermazione”, quale proposizione impositiva.
Questa ultima risulta essere, a detta del Nostro, una vera e propria affermazione di quella nietzschiana “Volontà di Potenza” che, a partire dalla romanità e dalla sua successiva deriva cristiana, si tradurrà nella pratica dell’ “Imperium”, ovverosia dell’imporsi della volontà di chi parla, su chi ascolta, dall’alto in basso. Questo atteggiamento farà, nei secoli a venire, da premessa all’avvento dell’era della Techne che, della “Volontà di Potenza” costituirebbe l’espressione più pregnante. Che quanto detto da Heidegger sia o meno condivisibile, resta però il fatto che, egli, al pari di tanti altri ricercatori, partendo da alcune interessanti considerazioni, ci offre degli spunti, dai quali, invece, è possibile sviluppare un particolare e ben coerente, percorso di pensiero. A detta del Nostro, difatti, l’Essere è spesso la risultanza del contemporaneo manifestarsi ed occultarsi di una data realtà.
Non può esistere manifestazione senza nascondimento, né viceversa; ambedue i concetti implicano la compresenza dell’altro. Pertanto, nella piena potenza del suo manifestarsi, l’Essere finisce con il consolidarsi e l’assumere l’imperfetta parvenza di un misto di ambedue gli aspetti, nell’espressione linguistica, attraverso il veicolo dell’espressione linguistico-concettuale, qui ben resa dal termine “Logos/Linguaggio”, che trova la propria più pregnante espressione nel “mùthos/narrazione”, quale suo manifestarsi nel senso di contemporaneità di manifestazione e nascondimento. D’altronde, quella del mito è una natura, “ipsa re” simbolica, ovverosia attraverso la narrazione si esprimono una molteplicità di immagini archetipiche ed idee, difficilmente traducibili in termini concettuali.
Nel caso della questione della fondazione di Roma e del substrato mitico ad essa connesso, quanto da Heidegger espresso, riguardo al mito, combacia perfettamente con quanto sin qui affermato, mostrandoci attraverso la narrazione mitica, la suddetta compresenza di manifestazione e nascondimento. Il concetto base di una contraddittorietà della realtà, che si manifestra nella compresenza in essa di aspetti contraddittori, è ben espressa dalla presenza di Giano, dio dal doppio volto e patrono di tutti gli inizi, vero e proprio “endemismo” mitologico della “koinè” latino-romana. Un concetto, quello della simultaneità di manifestazione e nascondimento, che trova una ulteriore ed ancorchè pregnante espressione, nell’immagine del dio Saturno che si reca nel boscoso Lazio (dal latino “latere-nascondersi”, per l’appunto…) per eclissarsi, non senza aver prima insegnato agli uomini l’arte dell’agricoltura. Il prodigioso volo degli uccelli, indicante il sito ove fondare l’Urbe, quale segnale della silenziosa e non direttamente percepibile, presenza degli Dei. La morte del gemello di Romolo, Remo, quale eclissamento e scomparsa di un aspetto della personalità regale. La misteriosa fine di Romolo, ucciso, smembrato o, secondo talune versioni, scomparso dall’umano cospetto, come si conviene ad un essere semi divino. E così via, anche per le successive vicende dei primi re di Roma, tutte egualmente caratterizzate da una silenziosa compresenza del divino, attraverso prodigi e manifestazioni di vario genere, nelle umane vicende.
Numa Pompilio, re-sacerdote e pitagorico “ante litteram”, considerato amante e paredro di Egeria, ninfa delle acque, anch’essa dotata di una natura che è compresenza di manifestazione personale, ma anche di immedesimazione e nascondimento nella “natura naturans”. E così pure, la vicenda di Ocrisia, madre di Servio Tullio, fecondata da un fallo di fuoco divino, segnale di una misteriosa ed invisibile, volontà divina.
A suffragare ulteriormente quanto sin qui detto, vi sono varie figure divine, in qualche modo legate al silenzio ed al nascondimento, proprio degli antichi “mysteria”. La prima fra queste, è Tacita Muta, passata dallo stato semidivino della ninfa Lara, a quello di Dea degli Inferi e del silenzio, (dote questa molto apprezzata dai Romani e dai pitagorici) il cui culto, fu istituito proprio dal monarca-iniziato Numa Pompilio. La seconda figura, è quella della dea Angerona, figura legata alla ritualità solare del solstizio ed ai misteri ad esso connessi. Quella di Arpocrate è la terza figura, di età ellenistica, frutto del sincretismo con il pantheon egizio e con la figura di Herpecrat, raffigurazione di Horus fanciullo e che, invece, in età ellenistica, verrà assimilato ad un aspetto di Eros, nel ruolo di protettore dei misteri. E, sopra tutto, il motivo del nome segreto di Roma, quello stesso Roma-Amor-Rumon, che ci riporta all’idea del valore del silenzio che, sia lo stesso Plinio che Solino avrebbero preso ad esempio con la figura della dea Angerona, associando la dea al rito romano dell’evocatio, strumento privilegiato per proteggere l’Urbe dai nemici. Quel medesimo nome segreto, conosciuto da pochi membri della Curia e dal Pontefice Massimo che, se rivelato, avrebbe causato la morte di chi aveva osato commettere tale atto sacrilego, rischiando di far cadere l’Urbe in mano nemica.
Tutti motivi questi che, come abbiamo già detto, rimandano ad un continuo altalenarsi di rivelazione e nascondimento, alla quale fa da corrispettivo, una molteplicità di figure divine, difficilmente riscontrabile in altri contesti, se non in quello rappresentato dall’immensa bacino etnico culturale, rappresentato dal subcontinente indiano. Contrariamente a quanto si possa pensare, questa dimensione pletorica della sfera divina, non ingenera confusione, anzi. Le varie deità assurgono alla funzione di veri e propri “nomi di potenza”, in quanto archetipali ierofanie dei vari aspetti della realtà, adorando e nominando i quali, secondo un determinato assetto rituale, i Romani avrebbero esponenzialmente potenziato la propria azione.
Ed in questa fase, si verifica quanto da Heidegger preconizzato: ovverosia la trasmutazione della parola “alètheia/disvelamento” in “veritas/verità assertiva”. Ovverosia, la fase di disvelamento esercitata dal Logos mitico, si consolida e tramite l’azione rituale si fa “volontà di potenza”, esercitante la propria azione sul “kosmos” circostante. Ed in questo, Heidegger ed i suoi succedanei interpreti ed allievi, commettono l’errore di intendere in senso negativo la “volontà di potenza” di cui sopra, associandola “tout court”, alle successive degenerazioni della Techne, senza operare i necessari “distinguo”. Difatti, la “religio” romana, andrà perdendo forza e vigore, quando i Romani attraverso la pratica dell’ “evocatio”, finiranno con l’assorbire i contenuti spirituali del tardo ellenismo, impostati verso una dimensione per lo più, “soteriologica”, caratterizzata da un mistico afflato, ben lontano e peculiarmente opposto alla volontaristica dimensione teurgica, imperniata su un senso di coesione comunitaria data dalla “polis” e dalla “res publica”, qui soppiantata dall’idea di un dispersivo universalismo. Heidegger svolge, in questo caso, una considerazione, determinata dalla connaturata diffidenza, da costui nutrita nei riguardi del mondo latino in generale, (con particolare riguardo alla filosofia italiana, verso le cui espressioni avrebbe sempre mostrato un marcato scetticismo, sic!).
Pertanto, seguendo il filo logico di quanto sin qui enunciato, quello di Roma, è l’esempio di una realtà che, dall’immersione in una dimensione mitica, va trasmutandosi in pura volontà di potenza. Roma raccoglie e traduce in prassi operativa, tutte quelle che furono le istanze ideali della “koinè” classica greco-italica, lasciando un’impronta indelebile, sotto tutti i punti di vista. A tal fine, basterebbe ricordare come gli ordinamenti repubblicani, nelle cariche consolari e senatoriali, sia siano praticamente mantenuti intatti attraverso i secoli, sin praticamente al 1870, ovverosia all’ufficializzazione dell’Unità d’Italia, tramite l’accorpamento della Roma papalina. Quella Roma che, nonostante i secoli bui del Medio Evo e della presenza delle gerarchie ecclesiastiche, avrebbe continuato a mantenere intatte, anche se in veste puramente simbolica, le istituzioni della Roma repubblicana.
Tutto questo a dimostrazione che, contrariamente a quanto si possa credere, la Filosofia, è ben lungi dal perdere la propria primaria funzione di “Scientia Universalis”, rivelando la propria natura di prezioso strumento di interpretazione e comprensione della realtà, contrariamente a coloro che vorrebbero relegarla a settoriale forma di sapere, accostata a discipline come la sociologia o la psicologia, intrise di un arido e materialistico nozionismo.
UMBERTO BIANCHI