Antitesi tra dialettica del politicamente corretto e lingua taumaturgica –
La mente bicamerale: l’altra faccia della realtà? – Umberto Bianchi
Il fare ritorno con la mente ad una delle mie solite peregrinazioni per il mondo che, qualche anno fa, ha avuto per oggetto il Messico, ha sempre rappresentato e tuttora rappresenta l’occasione per tutta una serie di riflessioni la cui attualità non è mai venuta meno, anzi. A portarmi sino ai lidi del Nuovo (?) Mondo, è stata la mia curiosità per una tra le più grandi civiltà della storia umana, collocata dall’altro capo dell’Oceano, oltre le fatidiche Colonne d’Ercole, praticamente agli antipodi materiali e spirituali di quel mediterraneo bacino Egizio, Ellenico, Etrusco, Romano e via discorrendo. Di quel bacino la cui intersecazione di culture, religioni, sentimenti, ha creato un vero e proprio “unicum”, un qualcosa che sembrerebbe irripetibile…ed invece, proiettando il proprio sguardo su quella parte di mondo a noi sconosciuta, ci si presenta un altro immenso bacino, un Golfo trasudante di storia, civiltà, arte, che nulla ha da invidiare al nostro vecchio, caro, Mediterraneo.
Ed eccomi lì, proiettato in un posto in cui, ad ogni batter d’occhio, ad ogni angolo, è un tripudio di chiese barocche, case coloniche, ma anche vestigia senza fine di antiche civiltà. Olmechi, Miztechi, Aztechi, Zapotechi e Maya hanno disseminato, da Nord a Sud, da Est ad Ovest, il Messico delle eloquenti testimonianze, di una più che millenaria civilizzazione. Piramidi per tutti i gusti e le dimensioni, templi, edifici dalle più svariate funzioni, sono disseminati per ogni dove sul territorio messicano. Particolarmente impressionante, la produzione artistica riguardante la sfera religiosa. Una sterminata cornucopia di statue e statuette, dipinti murali e vascolari, fregi e quant’altro, al pari di quanto si può vedere in Grecia, Egitto, Roma, ma anche tra Sumeri, Assiri e Babilonesi, aventi per oggetto Dei, Dee, Demoni ed altri personaggi dell’immenso pantheon mesoamericano, affiancate da simboli solari, simbologie di morte, rinascita e potenza sembrano circondare, parlare, imporre la propria potente presenza all’incauto osservatore occidentale e, nel richiamare alla mente una meticolosa ritualità, ci rendono l’immagine dell’ onnipresenza delle potenze numinose, nella vita dell’uomo dell’antichità. Ogni immagine dovrebbe richiamare alla mente una presenza sovrannaturale, una pratica cultuale, una storia, un mito, un archetipo, su cui poter concentrare la propria pratica devozionale…eppure, a ben vedere, in tutto questo c’è un qualcosa che non ritorna. Un tassello che sembra mancare e fare capolino qua e là, con un interrogativo che potrebbe far sprofondare qualsiasi illuministica certezza, nel baratro della più oscura, e mai sopita, superstizione. Come facevano gli antichi? Che senso poteva avere una simile profusione di ritratti?
E poi. Come si fa a perseguire un’esistenza all’insegna della più rigida, meticolosa osservanza delle prescrizioni religiose, come è possibile “orare”, pregare, conversare, con la sostanza inanimata? Che follia è mai questa? Erano gli antichi, per caso, dei folli invasati rispetto a noi ed alla nostra rarefatta ed astratta pratica religiosa? A questo pressante interrogativo sembra voler dare una risposta “Il crollo della mente bicamerale e le origini della coscienza”, scritto dall’americano Julian Jaynes, per lungo tempo docente di psicologia all’università di Princeton, e frutto di una serie di conferenze svolte nel ’67 ed edito un decennio più tardi. La tesi portata avanti da Jaynes, a sentirla, ha tutta l’aria di una follia, eppure possiede una sua intima e pregnante coerenza. Partendo (un po’ come Jung a suo tempo, sic!) dall’osservazione di patologie psichiatriche come la schizofrenia e da alcune conclusioni riguardanti la struttura fisiologica del cervello umano. E’ cosa risaputa che, oggidì, noi usiamo prevalentemente un solo emisfero cerebrale, quello sinistro, quello destro essendo deputato a poche e più ridotte funzioni. L’attenzione di Jaynes si concentra poi sugli interscambi tra le due zone degli emisferi, deputate a determinate funzioni quali canto, linguaggio, memoria e quant’altro, la zona di Wernicke e quella di Broca.
Con una serie di osservazioni, Jaynes ci illustra come l’emisfero destro si attivi per quanto riguarda funzioni poco ortodosse come canto, poesia e simili, sino ad arrivare a formulare quella che rappresenta l’ipotesi “principe” del suo libro. A suo dire gli antichi non pensavano con i nostri stessi parametri; la stessa coscienza sarebbe una modalità recente del nostro pensiero e non un qualcosa di ultramillenario, frutto di infinite sedimentazioni e motivi, così come vorrebbero i più famosi studiosi di psicanalisi (da Jung a Neumann ed a tanti altri ancora). A sostegno di questa tesi, sin dall’inizio del libro, Jaynes ci presenta l’esempio di tutta una serie di comportamenti ed operazioni di pensiero, la cui matrice è inconscia. La coscienza si rivela essere un linguaggio metaforico, con il quale comprendiamo la realtà delle cose. Dopo di che, Jaynes rivolge la propria attenzione all’antichità, partendo proprio da quella grecità arcaica che, a suo dire, nell’Iliade trova la propria massima espressione letteraria, e viene pertanto portata ad esempio, quale tipico poema “bicamerale”. L’uomo qui, agisce in modo impersonale, istintivo, seguendo pedissequamente, ordini, inviti e suggerimenti degli Dei, cosa che, invece, nell’ “Odissea” non si verificherà, quest’ultima essendo un poema in cui, dall’immagine di un progressivo nascondimento degli Dei, si preavverte chiaramente il graduale perder colpi di questa modalità di pensiero. Una modalità le cui manifestazioni non escludevano allucinazioni uditive e visive e che, per questo, interagiva in perfetta osmosi con l’uomo dell’antichità. A tale proposito, l’autore svolge un’accurata analisi di ampio respiro, coinvolgendo aspetti che vanno dalla storia alla psicologia, sino ad una vera ed approfondita analisi filologica. Ad esser passati al setaccio sono i termini “psyché”, “thumos”, “phrenes” e “noos” , atti generalmente a descrivere diverse parti fisiche connesse con vari stati dell’anima e della mente, interpretati secondo un’ottica che punta a connetterli a “mermera”, termine che sta ad indicare «in due parti», da cui “mermerizo/sono diviso in due parti riguardo a qualcosa”. Gli antichi pertanto, non pensavano con le nostre stesse modalità, potendo fruire dell’uso dell’emisfero cerebrale destro, che avrebbe attivato quelle “voci degli dei” con cui l’uomo dell’antichità si trovava in un osmotico rapporto di comunicazione. La “bicameralità” della mente degli antichi, rappresenterebbe quindi una forma di schizofrenia non patologica, che avrebbe permesso a costoro di sviluppare la civiltà. Gli Dei ispiravano, suggerivano, coordinavano la vita degli uomini. Intervenivano nelle principali questioni afferenti la vita umana. Dalle contese guerresche all’ispirazione artistica, passando attraverso le questioni più pratiche della vita umana, dalla coltivazione dei campi, all’arte di edificare, sino alla sfera sentimentale, non c’era ambito in cui le potenze numinose non facessero sentire la propria voce che, in questo modo, assumeva una vera e propria funzione di equilibratore e stabilizzatore sociale.
A dire dell’autore, il primo gradino di questa complessa relazione, era rappresentato dal culto dei morti le cui voci, facendosi sentire nel tempo, andavano via via assumendo una valenza divina. A tal proposito, Jaynes ci porta alcuni esempi di architettura sacra, il cui significato avrebbe proprio riportato a quanto abbiamo detto. Parlando della “mastaba” egiziana e delle prime basse e tozze piramidi del mondo antico in genere (con particolare riferimento all’area mesopotamica), l’autore ci fa notare come lo scopo di queste costruzioni fosse, probabilmente, quello di onorare dei re le cui figure avrebbero, in seguito, assurto una valenza sovrannaturale, grazie alle voci di cui abbiamo parlato. Stessa cosa vale per quei casi di divinità le cui statue, specialmente nel mondo egizio e mesopotamico, venivano vestite, lavate, portate in processione ed a cui venivano fatte offerte di cibo, proprio perché di queste ultime, a detta dell’autore, se ne preavvertivano voci, comandi e desideri. La “bicameralità” della mente, questo varco aperto verso l’oscura dimensione del mistero e dell’irrazionale, subì però, a detta dell’autore, un duro colpo a partire dal II millennio A.C. quando, a seguito di una serie di ragioni concomitanti (catastrofi naturali, migrazioni, la scoperta della scrittura e via dicendo), le voci divine cessarono gradualmente di condizionare la vita degli umani. E nacque quel senso di ribellione all’autorità divina che, a partire dalla Mesopotamia, generò la visione di un cosmo suddiviso tra forze del Bene e forze del Male, tra Angeli e Demoni. Nel suo costante affievolirsi, la coscienza bicamerale lascerà le proprie vestigia nelle figure oracolari dell’antichità. A Delfi, come in altri centri, la coscienza bicamerale parlerà per interposta persona, a seguito di procedure di vero e proprio invasamento ed inebriamento mentale, attraverso le quali attivare quel lato della mente sempre più, oramai, lontano. Con l’andar del tempo, a riattivare la mente bicamerale saranno sempre più personaggi ai limiti della società e delle umane possibilità, quali medium ed indemoniati. I suoi residui attuali sopravvivono nella musica, nella poesia, ma anche nella pratica ipnotica e nella schizofrenia che, contrariamente alla sua natura di patologia, della mente bicamerale, forse, rappresenta la sopravvivenza più pregnante. L’ipotesi di Jaynes è affascinante, ma potrebbe presentare un indubbio lato debole: al pari di molte brillanti intuizioni scientifiche degli ultimi tre-quattro secoli, essa sembra finire nello sconfinare in una narrazione materialista. Immaginare i protagonisti dell’Iliade come degli automi senza coscienza, guidati da una forma di schizofrenia, ci sembra riduttivo. Come ci sembra altrettanto riduttivo, collocare l’origine della pratica religiosa e dell’idea del divino, in un’altra forma di schizofrenia che in una forma di successione, partendo dall’adorazione dei re e degli eroi morti, arriva alla scoperta ed alla definizione del divino.
Diciamo che, la brillante intuizione di Jaynes ci deve portare più lontano. L’uso del lobo destro del cervello, attiva qualcosa che travalica la dimensione prettamente umana, psicologica. Ad esser attivata è quella forma di osmosi con la sostanza universale delle cose, con quel parmenideo Essere che tutto avvolge e con il quale, a detta dei vari filosofi esistenzialisti alla Heidegger o alla Jaspers, avremmo perduto il contatto, diventando via via sordi, attratti dal richiamo della civiltà dell’apparenza e della vacuità, sino a fare del mondo delle Idee una inutile e dannosa sovrastruttura, privante noi stessi della visione della realtà “autentica”. Ed ecco allora che la vicenda dell’uomo, del suo pensiero, il senso del suo agire nel mondo, si fa più chiaro. Ad esser coerenti con il pensiero heideggeriano, dovremmo arrivare alla conclusione che l’umana civiltà, sia frutto di una mostruosa limitazione. L’idea che la scrittura, sinanco l’organizzazione del pensiero in concetti stabili, possano rappresentare una limitazione rispetto al primigenio immediato ed istintivo contatto con l’Essere, rendendo l’uomo un essere assolutamente legato alla “pragmatica dell’apparenza”, potrebbe rendere giustizia alla narrazione del Jaynes, riconnettendola a quei tanti motivi che, a partire dagli innumerevoli studi di antropologia filosofica, portano alla conclusione che l’uomo altri non sia che un essere rimasto allo stadio di immaturità, rispetto agli altri rappresentanti del regno animale. Capofila di questa impostazione, studiosi del calibro di un Arnold Gehlen, Helmuth Plessner, Max Scheler e Peter Sloterdjik. I meccanismi “antropogenici”, di cui ci parla uno Sloterdjik, a proposito delle sue “Sfere” (quali “case dell’essere”, nel ruolo di vere e proprie incubatrici di ominazione), al pari dei vari meccanismi descritti dagli altri autori, sembrano portare tutti a questa conclusione. Ma anche qui bisogna fare attenzione. La tentazione di radicalizzare certe coordinate di pensiero, per arrivare a determinate conclusioni, può portare a sottovalutare e banalizzare l’uomo e le sue realizzazioni materiali e spirituali. Lo stesso processo di regressione della bicameralità, descritto dal Jaynes, sebbene ricco di affascinanti spunti, non può esser sottoposto ad una così rigida datazione, quale quella che l’autore ci presenta. Oracoli, medium ed altri strani personaggi, sono già presenti in culture e manifestazioni contemporanee o antecedenti alla fatidica data del II millennio A.C.
Basterebbe solo pensare alla pratica sciamanica, di cui si possono agevolmente rinvenire tracce in tutte le culture occidentali e non, sia contemporaneamente che anteriormente alla data di cui sopra, come si può evincere dalla lettura dei molti testi sul tema, tra cui, in primis, l’ottimo “Lo sciamanesimo” di Mircea Eliade. Diciamo allora che, quella della bicameralità, intesa come completa percezione dell’Essere, è una proprietà che è andata perdendosi nei secoli e nei millenni, lasciando dietro a sé uno strascico di vestigia non del tutto sopite. Il “Daimon” socratico, al pari di tante altre manifestazioni di caduta in estasi, estraniazione o mistica ispirazione, non hanno mai completamente cessato di esser presenti e, nonostante l’onnipervadenza della tecnologia, interagiscono tuttora con la vita umana. Ma, a ben vedere, quella della natura bicamerale della mente, potrebbe essere una vicenda da non potersi facilmente esaurire nelle interpretazioni del pensiero esistenzialista. Essa può farsi metafora di uno schema di pensiero, che riguarda altri ambiti. In Marx, il lavoratore è vittima di “alienazione”, una forma di estraniamento dal proprio sé, prodotta dall’alienante modello di produzione capitalista. Non solo. In un recente dibattito sull’evoluzione delle forme di comunicazione e produzione culturale, nel sottolineare che nei momenti di crisi economica, questa forma di produzione avanza attraverso forme inconsuete e non secondo la continuità di linee evolutive progressive. A tal proposito, il paleontologo Stephen J.Gould ci parla di “evoluzione punteggiata” che, teorizzata per i viventi, andrebbe applicata al progresso culturale. Dopo alcuni secoli di pensiero lineare, oggi è il momento del pensiero discontinuo, del movimento “random”, tutti epifenomeni caratterizzati da una continua e progressiva dispersione.
Esaurita la spinta alla produzione concettuale, si passa ad una fase di distribuzione, come da Michel Serres previsto verso la metà degli Anni Settanta. La tendenza all’integrazione, alla confusione ed al diluimento delle varie forme di specificità e peculiarità culturali, trova la sua principale spinta nella Globalizzazione, di cui lo strumento informatico rappresenta uno dei veicoli principe. Non è azzardato supporre che, dopo secoli dominati dall’idea di coscienza, così come tratteggiata da Cartesio, si potrebbe tornare a palesare una mente bicamerale, non più abitata dalle voci degli Dei dell’Olimpo, bensì da quelle rappresentate dalla forma simultanea e onnipervadente di Internet. Le forme del primitivo potrebbero riproporsi in una inedita veste Tecno Economica. Ma anche qui, potrebbe riaffacciarsi,(come in tutto il lungo e travagliato cammino dell’Occidente, sic!) la realtà di un’eterogenesi dei fini che, delle alienanti voci sintetiche della Rete, potrebbe fare un’heideggeriano “Ereignis/Evento-Eventuante”, in grado di trasformare la tecnologia in un ponte teso tra l’oscura dimensione dell’inconscio e le potenze numinose. Pertanto, quella della mente bicamerale, è una vicenda che non può non riportarci a quanto a suo tempo descritto con dovizia di particolari, da C.G.Jung, riguardo ad una mente individuale cosciente, affiancata dall’oscuro mare dell’inconscio collettivo e dai suoi residui archetipali, lì posti a rammemorare l’uomo dell’esistenza di un’ “altra” realtà, dai contorni incerti ed ai più sconosciuti. Certo la perdita della bicameralità, non può non essere un dato acquisito, fermo che, a fronte di questo fatto, l’uomo è riuscito a realizzare, nel bene e nel male, cose che ad altri esseri viventi non sono mai riuscite. Dunque se, da una parte qualcosa l’ha perduta, dall’altra l’uomo l’ha guadagnata. Sicuramente, guardando gli sfasci prodotti dall’attuale civiltà, c’è da chiedersi se non era migliore una mente guidata da una saggia e numinosa ispirazione, piuttosto che una mente unicamente ispirata dal Dio denaro.
UMBERTO BIANCHI